Pubblichiamo in anteprima l’articolo che sarà pubblicato sulla rivista Sacerdos
don Pietro Cantoni
Entrambi hanno come destinatario immediato il “mondo della cultura”. Il primo nell’aula magna di una grande università tedesca, il secondo in un centro di cultura monastica nel cuore di Parigi, la città che ha ospitato – dopo Bologna – la prima università dell’Occidente europeo. Il papa si rivolge agli uomini di cultura, nella consapevolezza però che “cultura” non è sinonimo di “studio, lettura ed erudizione”.
Essere colto, non vuol dire, di per sé, sempre e solo, “aver studiato”, vuol dire invece aver “coltivato” le risorse del proprio essere, quelle capacità di trasformazione di sé stesso e del mondo circostante che caratterizzano l’uomo in quanto tale. Cultura è scienza, ma è anche musica, danza, gastronomia, modo di vestire e di salutare, capacità di parlare e comunicare, spiritualità e – appunto – “culto”. « […] la cultura non riguarda solo gli uomini di scienza, così come non deve rinchiudersi nei musei.
Essa è, direi quasi, la dimora abituale dell’uomo, ciò che caratterizza tutto il suo comportamento e il suo modo di vivere, persino di abitare e di vestirsi, ciò ch’egli trova bello, il suo modo di concepire la vita e la morte, l’amore, la famiglia e l’impegno, la natura, la sua stessa esistenza, la vita associata degli uomini, nonché Dio » (Giovanni Paolo II, Alla comunità universitaria di Lovanio, 20 maggio 1985).
Qualcuno, considerando il destinatario immediato delle allocuzioni papali, potrebbe trarre l’affrettata conclusione che si tratta di discorsi per “addetti ai lavori”, con un interesse ristretto al mondo accademico. Potrebbe addirittura coltivare il sospetto che qui il “professor Ratzinger” prenda il sopravvento su quell’umile “operaio nella vigna del Signore” quale si è definito Benedetto XVI all’inizio del suo pontificato, insomma che l’intellettuale annulli il pastore…
Direi che il senso profondo del discorso al collegio dei Bernardins, come anche quello all’università di Ratisbona, vada proprio intenzionalmente in senso opposto rispetto alla mentalità che può generare un tale sospetto. Cultura e fede, cultura e pastorale non sono realtà separate o tra di loro alternative, come d’altronde fede e ragione, ma sono due espressioni dello spirito umano che tendono per loro natura ad incontrarsi ed indissolubilmente e vitalmente intrecciarsi.
Una fede che si disinteressasse della cultura, in quel suo senso pieno e compiuto che abbiamo sopra ricordato, alternativo a quello meschinamente “illuministico”, correrebbe il rischio fatale di ridursi a qualcosa di soggettivo e privato, perfettamente funzionale all’ambiente e al clima del relativismo contemporaneo. « Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta » (Giovanni Paolo II, Ai partecipanti al congresso nazionale del Movimento ecclesiale di impegno culturale, 16 gennaio 1982, n. 2).
Il grande storico della Chiesa Joseph Lortz, in un’opera famosa e di grande influenza, ricondusse i compiti della Chiesa nell’epoca moderna e contemporanea a tre criteri principali: « […] a) l’attacco esige difesa; b) l’estraniarsi della civiltà postula la sua riconquista; c) l’indebolimento interno della Chiesa richiede la sua autoriforma» (Storia della Chiesa considerata in prospettiva di storia delle idee, vol. II, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo [MI] 1992 [1964], p. 27).
La Chiesa ha evangelizzato i popoli dell’Occidente. Questi popoli sono poi progressivamente sfuggiti alla sua tutela e gli si sono volti contro elaborando una cultura prima autonoma poi decisamente ostile alla Chiesa e quindi al Cristianesimo stesso, una cultura sempre più apertamente «Cristofobica». La prima preoccupazione della Chiesa è stata la difesa, ma poi – quando ormai poco o nulla rimaneva da difendere – il cuore della sua azione è diventata la riconquista degli spazi della cultura, cioè la “nuova evangelizzazione”, che è insieme sempre anche autoevangelizzazione e quindi autoriforma.
I tre momenti infatti possono conoscere alterne accentuazioni, ma sono assolutamente inscindibili l’uno dall’altro. La svolta epocale da una prevalente mentalità di difesa ad una prevalente mentalità di evangelizzazione è rappresentata dal concilio ecumenico Vaticano II, il cui dinamismo autentico deve però essere definitivamente liberato dalla minaccia dell’ “ermeneutica della rottura” che rischia di viziarlo in radice, trasformando fatalmente l’evangelizzazione in un accomodante adattamento al mondo.
Solo questo quadro ci permette di capire la crescente attenzione che il magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI rivolge al rapporto tra fede e ragione. Quel rapporto che si è andato storicamente delineando nell’evangelizzazione dell’Occidente, con l’incontro tra la fede cristiana e la filosofia greca e il diritto romano, ma che – forte di acquisizioni che, anche se sono nate in culture particolari, hanno però un significato ed una portata universali – va oltre questa vicenda e si apre a tutte le culture e le civiltà della terra.
La storia dell’evangelizzazione dell’Occidente e il problema connesso delle radici cristiane dell’Europa non ha dunque solo un significato “difensivo”, quello cioè di aiutare l’Occidente, con cui la Chiesa non si identifica, ma con cui ha un rapporto tutto particolare, a non smarrirsi e ad espellere quelle tossine che rischiano di ucciderlo, tra le quali una delle più pericolose è proprio l’oblio della propria identità, ma ha anche un significato esemplare. Essa costituisce un modello, addita dei percorsi che i cristiani, a qualunque cultura appartengano, sono invitati a riconsiderare e a imitare. Nella consapevolezza che imitare non vuol dire “copiare”.
Anche il titolo dell’intervento non è redazionale, ma è il Papa stesso a fissarlo esplicitamente: «Vorrei parlarvi stasera delle origini della teologia occidentale e delle radici della cultura europea». Un discorso sulle origini della teologia non riguarda solo i teologi?
Se la pensassimo così dimenticheremmo il ruolo centrale, fondamentale e anche drammatico che la teologia ha avuto nella storia dell’Occidente, soprattutto, ma non solo, nelle sue origini. « Le grandi domande dell’uomo, anche quelle che riguardano la sua vita pubblica, sono ultimamente domande teologiche » (George Weigel, Faith, reason and the war against jihadism. A call to action, Doubleday, New York 2007, p. 13).
Il luogo dell’intervento è « emblematico », « È infatti legato alla cultura monastica, giacché qui hanno vissuto giovani monaci, impegnati ad introdursi in una comprensione più profonda della loro chiamata e a vivere meglio la loro missione». Si potrebbe persino dire “doppiamente” emblematico. Il collegio di San Bernardo infatti, la cui costruzione iniziò nel 1245, si situa in un momento di transizione della cultura europea, quando il centro di gravità si sposta dalle campagne alle città, dai monasteri alle università.
I monaci cistercensi ritennero giustamente che era importante che la loro formazione avvenisse vicino all’università di Parigi, a cui erano già accorsi i nuovi ordini mendicanti, francescani e domenicani. È nei monasteri però che anzitutto si forma la cultura occidentale e ciò continuerà ancora per lungo tempo, anche dopo la fondazione e l’espansione delle università e del metodo universitario.
La cultura monastica è una vera cultura multiforme, che va dalla gastronomia alla trasmissione dei classici, dal canto gregoriano alla bonifica dei territori acquitrinosi. Nei monasteri si copiavano con attenzione e cura i classici latini; non solo i padri della Chiesa, ma anche gli autori pagani: Cicerone, Cesare, Ovidio, Virgilio, Terenzio, Vitruvio, Plauto… Riesce difficile immaginare un monaco che copia accuratamente l’Ars amatoria di Ovidio o le commedie spesso oscene di Plauto, eppure è proprio ciò che è avvenuto.
Così come può suscitare meraviglia il constatare che, se i monaci non furono gli inventori della birra, certamente le “birra monastiche” occupano (e continuano ad occupare) i primi posti nel Gotha delle birre. Così per lo champagne, il formaggio grana ed altre prelibatezze che costituiscono l’orgoglio della nostra “cultura” gastronomica.
I monaci provenivano da tutte le categorie e da tutti gli strati sociali, contadini e cavalieri, dotti ed ignoranti, giovani inesperti e uomini vissuti. Molti infatti erano talmente attratti dall’ideale monastico da desiderare di concludere in una di queste “isole culturali” la loro vita già abbondantemente trascorsa e spesa in altri ruoli. Sul finire del Trecento i monasteri benedettini avevano già accolto circa venti imperatori, dieci imperatrici, quarantasette re e cinque regine. Non si può pensare che tutti costoro varcassero le soglie del monastero per copiare codici o fare formaggi… Che cosa dunque li attirava?
« […] i monasteri erano i luoghi in cui sopravvivevano i tesori della vecchia cultura e dove, in riferimento ad essi, veniva formata passo passo una nuova cultura. Ma come avveniva questo? Quale era la motivazione delle persone che in questi luoghi si riunivano? Che intenzioni avevano? Come hanno vissuto? ».
La risposta che Benedetto XVI dà a questo fondamentale quesito ci riporta alle radici del monachesimo, ma anche alle radici della cultura occidentale e – ultimamente – al Vangelo. « Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare.
Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio ». Quaerere Deum. Ecco l’obiettivo. Non cercavano la cultura, ma – cercando Dio, cercando soprattutto Dio – hanno creato cultura, e che cultura! La spiegazione di questo paradosso la troviamo proprio nel Vangelo: « Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta » (Mt 6,33).
In tutto questo vi è una logica profonda: cercare Dio vuol dire amarlo. «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze » (Dt 6,4-5). Tutto deve dunque essere messo al servizio di questa ricerca: cuore, anima, forze. In tutto bisogna cercare ciò che al meglio esprime la gloria, cioè la bellezza, di Dio.
Un terreno paludoso, che la natura ha reso caotico ed inospitale, dovrà allora essere reso armonico, bello e fruttifero. Così potrà servire Dio e l’uomo, perché le due cose vanno strettamente unite e non sono mai – soprattutto a partire dall’Incarnazione – veramente separabili: « l’uomo vivente è gloria di Dio e vita dell’uomo è la visione di Dio » (Sant’Ireneo di Lione, Contro le eresie, IV, 20, 7).
Questa ricerca di Dio però non avveniva in « un deserto senza strade ». « Dio stesso aveva piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, aveva spianato una via, e il compito consisteva nel trovarla e seguirla. Questa via era la sua Parola che, nei libri delle Sacre Scritture, era aperta davanti agli uomini.
La ricerca di Dio richiede quindi per intrinseca esigenza una cultura della parola […]. Il desiderio di Dio […] include […] l’amore per la parola, il penetrare in tutte le sue dimensioni. Poiché nella Parola biblica Dio è in cammino verso di noi e noi verso di Lui, bisogna imparare a penetrare nel segreto della lingua, a comprenderla nella sua struttura e nel suo modo di esprimersi.
Così, proprio a causa della ricerca di Dio, diventano importanti le scienze profane che ci indicano le vie verso la lingua. Poiché la ricerca di Dio esigeva la cultura della parola, fa parte del monastero la biblioteca che indica le vie verso la parola. Per lo stesso motivo ne fa parte anche la scuola, nella quale le vie vengono aperte concretamente. Benedetto chiama il monastero una dominici servitii schola.
Il monastero serve alla eruditio, alla formazione e all’erudizione dell’uomo – una formazione con l’obbiettivo ultimo che l’uomo impari a servire Dio. Ma questo comporta proprio anche la formazione della ragione, l’erudizione, in base alla quale l’uomo impara a percepire, in mezzo alle parole, la Parola ». Ecco la spiegazione ultima, la molla nascosta di quest’attività accurata e infaticabile per cui il monaco raccoglie testi antichi, li copia e li ripone in bell’ordine in una biblioteca, locale immancabile in qualunque monastero che si rispetti. “Monasterium sine armario est tamquam castrum sine armamentario”, “Un monastero senza biblioteca è come un accampamento senza armeria” dice un antico detto monastico.
Dio ha parlato all’uomo e l’uomo che desidera incontrarlo deve imboccare con fiducia questo percorso fatto di parole, che se correttamente seguito, anche con l’aiuto di tutte le scienze che l’uomo può aver elaborato e che i libri conservano, lo fa approdare all’unica Parola che sta dietro ed oltre le tante parole. Questo intervento della ragione per risalire dalle parole alla Parola non deve apparire estemporaneo, una sorta di Deus ex machina, perché parola vuol dire senso e indagine sulla parola non può essere altro che ricerca del senso.
D’altronde sappiamo che il solenne inizio del vangelo di Giovanni «In principio era la Parola», pone la Parola, il Logos, all’inizio di tutto. Parola, ragione, significato. All’inizio di tutto c’è una Ragione creatrice. All’inizio della creazione del mondo e anche all’inizio della sua redenzione. Il “movente” è l’Amore.
Ma “parola” dice anche dialogo e quindi socialità: « La Parola che apre la via della ricerca di Dio ed è essa stessa questa via, è una Parola che riguarda la comunità ». Non solo, ma introduce noi stessi nel colloquio con Dio e quindi in una profonda, personale e dialogica società con lui. Essa dischiude dunque il suo senso profondo solo se è accolta e vissuta in un contesto di preghiera.
D’altronde la Bibbia, dal punto di vista storico e letterario, è piuttosto un insieme di libri. « […] l’unità dei libri biblici e il carattere divino delle loro parole non sono, da un punto di vista puramente storico, afferrabili. L’elemento storico è la molteplicità e l’umanità ». “Il” Libro svela il suo carattere profondamente unitario e divino solo se è letto in modo corretto, come l’opera di un unico Autore, i cui tratti, a volte in tensione tra di loro, sono ricondotti, con lo sforzo di una ricerca a cui la ragione deve attivamente partecipare, ad un senso unitario.
Se la Bibbia è letta in modo solo umano e razionale, oggi diremmo facendo esclusivo uso del metodo storico-critico, allora essa si dissolve in una miriade di brani e di frammenti senza nessuna plausibile connessione tra di loro, tali da esibire un senso esclusivamente umano. Il risultato però di una tale operazione è anche quello di trasformare le Scritture in un enigma senza soluzione, o dalle tante, troppe e soprattutto contraddittorie soluzioni.
Occorre una lettura “spirituale”: «La lettera uccide, lo Spirito dà vita » (2 Cor 3,6). Proprio quella che i monaci praticano con predilezione. “Spirituale” però non significa affatto arbitrario e soggettivo, ma legame profondo con la comunità che la Parola ha generato: Popolo di Dio e Corpo di Cristo, la cui intima vita è lo Spirito Santo, cioè la Chiesa.
Spirituale dunque non si contrappone a visibile e storico, ma ne indica piuttosto l’anima, la vita e il trascendente compimento. Ne consegue che la ricerca del senso teologico e spirituale non esclude, ma piuttosto include i risultati del metodo storico-critico. Se i monaci non lo praticavano era solo perché ancora non esisteva (almeno così come noi oggi lo conosciamo).
La lettura della Bibbia nel monastero avviene in un contesto. Ad esso appartengono tratti molteplici: preghiera, studio, canto, lavoro. Il tutto mosso da un’unico desiderio: quaerere Deum – cercare Dio. Così nascono teologia e cultura. Ora come allora. Leggendo infatti le linee portanti della storia del monachesimo occidentale, il Papa non intende solo fare una apologetica del ruolo della Chiesa nella elaborazione della civiltà occidentale, ma vuole proporre un percorso.
Un percorso di riconquista, che non può non essere anche di approfondimento e quindi di autentica creatività: « Quel che hai ereditato dai tuoi vecchi, riconquistatelo, se vuoi possederlo sul serio » (J.W. Goethe, Faust, 682-683).