Voci per un dizionario del pensiero forte
di Luca De Pero
Verso la fine del 1796 tutta la parte occidentale del territorio della Repubblica di Venezia è occupata militarmente dalle forze della Repubblica Francese: a una a una le città più importanti della terraferma – Bergamo, Brescia, Peschiera e Vicenza – vedono l’arrivo dell’Armata d’Italia, guidata dal generale Napoleone Bonaparte (1769-1821).
A Verona i francesi giungono il 1° giugno 1796 e s’impossessano subito dei forti della città come pure di varie chiese, adibite poi a ospedali e a ricoveri per la truppa. Il rapporto fra cittadini e forze d’occupazione sarà sempre difficile, anche perché i francesi si comporteranno sistematicamente come occupanti e non come ospiti, come avrebbero dovuto sulla base dei rapporti ufficiali con la Repubblica di Venezia, la cui politica estera era espressa nella formula “neutralità disarmata”.
2. La situazione a Verona e la rivolta dell’aprile del 1797
Il 17 aprile 1797, dopo circa dieci mesi di permanenza della truppa straniera, la situazione della città di Verona era critica: non solo i francesi operavano sistematiche confische ai danni dei cittadini, ma tramavano anche con i giacobini locali al fine di incrinare la fedeltà dell’antica città verso il suo legittimo governo.
Così si spiega l’affissione, proprio nella notte fra il 16 e il 17 aprile 1797, per le vie della città scaligera, di un manifesto a firma di Francesco Battaja (1743-1799) – ex provveditore straordinario di terraferma – incitante i veronesi alla rivolta contro gli occupanti francesi e alla vendetta contro i collaborazionisti locali.
Tale manifesto era stato verosimilmente partorito dai servizi d’informazione francesi per esacerbare gli animi e per contribuire a creare “il caso”, che avrebbe fornito loro “il giusto motivo” per una definitiva occupazione della città, in spregio di ogni neutralità proclamata.
Inoltre, il manifesto era, per più motivi, un falso: anzitutto perché era già stato pubblicato da due giornali collaborazionisti, Il termometro politico della Lombardia e il Monitore bolognese; inoltre perché era firmato da Battaja, un personaggio difficilmente sospettabile di colpi di testa contro i francesi invasori; infine era falso nei contenuti perché affermava essere i francesi in difficoltà nello scacchiere nord-orientale, fatto non rispondente a verità.
Benché un falso, tale manifesto contribuisce a far esplodere la bomba ormai da tempo innescata; lo stesso 17 aprile, nonostante i rappresentanti veneti si affrettassero a gettare acqua sul fuoco facendo pubblicare un manifesto di smentita, il generale Antoine Balland (1751-1832), a fronte dei continui tafferugli verificatisi fra i suoi soldati e i veronesi – truppe schiavone, arruolate nell’Illiria e nella Dalmazia venete, o semplici appartenenti alle cernide, le milizie territoriali composte da locali che svolgevano annualmente un breve periodo di servizio militare volontario -, aumenta il numero dei soldati di pattuglia in città, portando le pattuglie da venti a quaranta soldati.
Il che contribuisce a surriscaldare ulteriormente gli animi della popolazione; così, verso il vespro del 17 aprile, avvengono i primi veri fatti di una certa gravità: si spara a Ponte Pietra fra una pattuglia veneta e una francese, si verificano tafferugli di una certa consistenza in Piazza Erbe, nei quartieri circostanti e presso il Forte San Pietro. Al suono del vespro però la situazione sembra riappacificarsi.
La calma apparente viene spezzata poco dopo dai francesi: erano trascorse da poco le diciassette quando lo stesso generale Balland, dall’alto di Forte San Pietro, comanda di aprire ripetutamente il fuoco sul Palazzo Pretorio, sede dei rappresentanti veneti, e sul centro della città.
La situazione dei francesi che pattugliano la città diviene, dopo queste prime scariche d’artiglieria, insostenibile: “A misura che cresceva il rimbombo delle artiglierie, uscivano gli abitanti dalle proprie case […] – scrive lo storico Enrico Bevilacqua (1869-1933) – correvano mal armati ad affrontare le pattuglie francesi, che con le baionette abbassate scorrevano la città, le quali si videro ben presto obbligate a cercare la loro sicurezza dandosi precipitosa fuga verso i castelli”.
I francesi, che non riescono a raggiungere Forte San Pietro, Forte San Felice o il più vicino Castel Vecchio, o una delle porte cittadine da essi tenute, vengono rincorsi, catturati e uccisi, e molti finiscono gettati nell’Adige. Inizia così, per Verona, una vera settimana di lotta urbana, di battaglie per le strade e in modo particolare di scontri intorno ai forti: la città era in aperta ribellione contro gli occupanti francesi e – racconta un anonimo cronista – “non si sentiva altro che un continuo gridare per ogni angolo della città viva San Marco”.
Nella stessa giornata del 17 gli insorti attaccano le porte fortificate della città. Cadono una dopo l’altra Porta Vescovo e Porta San Giorgio, mentre Porta San Zeno e Porta Nuova vengono occupate, dopo aspri combattimenti, dal conte Francesco degli Emilei (1752-1797) alla testa di seicento schiavoni aiutati da circa tremila civili.
Contemporaneamente alle porte vengono liberati anche gli ultimi edifici della città, in cui avevano cercato rifugio alcuni francesi. La giornata si andava concludendo con i francesi rinchiusi nei forti, che cannoneggiavano la città in mano alla folla degli insorgenti. Nel frattempo il provveditore conte degli Emilei, dopo aver partecipato ai primi importanti fatti d’armi, la sera stessa del 17 parte alla volta di Venezia – informa sempre Bevilacqua – per “[…] implorar buon nerbo di truppe di linea, e soprattutto munizioni e artiglieria onde attaccar con frutto i castelli”.
Nel tardo pomeriggio i due rappresentanti del governo veneto in città, Iseppo Giovannelli e Alvise Contarini, fanno issare la bandiera bianca sulla torre maggiore, fanno tacere le campane e tentano un primo abboccamento con l’autorità militare francese – insediata nel vicino Forte San Felice – presso Forte San Pietro. Questa, come altre trattative, fallisce, da un lato forse per la situazione di anarchia nella quale sembrava essere caduta la città, dall’altro certamente a causa dell’irrigidimento delle posizioni francesi.
Nella giornata del 18 aprile Giovannelli e Contarini tentano un viaggio a Venezia per chiedere aiuto al Senato; sempre in questa giornata – mentre, fra una tregua e l’altra, Verona veniva sistematicamente cannoneggiata dai forti e vedeva la sua popolazione combattere accanitamente intorno a questi per espugnarli -, arriva nella città scaligera il colonnello austriaco Adam Albrecht von Neipperg (1775-1829), che recava al generale Balland la notizia della tregua d’armi procurata dalla firma, avvenuta precisamente quel giorno, dei “preliminari” di Leoben fra l’Impero e la Repubblica Francese.
L’arrivo dell’ufficiale solleva in un primo momento gli entusiasmi della popolazione, che vedeva negli imperiali un possibile aiuto insperato per riconquistare completamente la città e per cacciarne i francesi, speranze che andranno presto deluse lasciando i veronesi soli, in balia di un nemico militarmente superiore. Inoltre la missione a Venezia di Contarini e di Giovannelli, sebbene comprensibile per la gravità della situazione, viene recepita come un tradimento dagli insorti, i quali organizzano un governo provvisorio presieduto dal conte Bartolomeo Giuliari (1761-1842), che tenta subito di riallacciare i contatti con il generale Balland.
La sera del 18 si chiude comunque sotto il cannoneggiamento francese, mentre nella notte tuonano ancora le artiglierie e suonano le campane a martello.
3. In attesa di rinforzi
Contarini e Giovannelli, tornati da Venezia con la promessa di aiuti, organizzano il popolo – che, al grido di “Vogliamo la guerra”, fa tacere quanti cercano di acquietarlo – a una difesa a oltranza, come dimostra un proclama del 19 aprile 1797, in cui affermano che, “per togliere la confusione e il disordine, che potrebbe essere fatale al bene di tutti, resta commesso il popolo fedele di Verona che abbiasi a ritirare nelle rispettive Contrade. Colà gli saranno assegnati dei capi, ubbidirà ad essi, sarà unito in corpi e i capi stessi avranno a dipendere dagli ordini delle cariche, e si presteranno sempre a procurare la comune salvezza”.
Tutti i giorni fino al 22 aprile i veronesi attaccano ripetutamente i castelli e Verona si presenta, a causa dei colpi delle artiglierie, con molti quartieri in fiamme. Se questo non bastasse, i francesi chiusi nei forti iniziano, indotti dalla mancanza di viveri, a fare rovinose sortite verso la città e verso la campagna.
La mattina del 22 aprile finalmente giungono da Venezia i rinforzi tanto sperati, con circa quattrocento regolari, munizioni e cannoni, ma quasi contemporaneamente anche i generali francesi Jacques-François Chevalier (1740-1812) e Joseph de Chabran (1763-1843) erano arrivati nei pressi di Verona, non prima di aver riportato una significativa vittoria sulle truppe venete in località Croce Bianca il giorno 20 aprile.
Comunque l’eroismo dei veronesi, che in ogni modo cercano di contrastare non solo le continue incursioni di pattuglie francesi provenienti dai forti, ma anche di resistere al cannoneggiamento interno ed esterno alla città, non può reggere una situazione ampiamente compromessa.
Verso il 24 aprile tutti i cronisti sono concordi nel descrivere i sentimenti della popolazione con espressioni come “popolo sgomento, sbigottito, disperso”. Il giorno prima i legittimi rappresentanti veneti avevano deciso, sotto il fuoco delle artiglierie, la resa al nemico; nella giornata del 24 il conte degli Emilei e altri notabili vengono inviati a trattare con gli ufficiali francesi.
A rendere la situazione totalmente irrecuperabile, togliendo anche ogni esiguo spazio di trattativa con il nemico, contribuisce la fuga dalla città dei rappresentanti del governo veneto.
4. La resa incondizionata: confische, fucilazioni e processi
Il 25 aprile 1797 si chiude così la rivolta: i francesi esigono la resa incondizionata, occupano la città, ne disarmano la popolazione. L’occupazione di Verona, come quella di ogni altra città italiana che si era opposta a Napoleone, comporta lo spogliamento di ogni bene.
Sempre Bevilaqua afferma che “[…] occorreva adunque studiare e apparecchiare un piano di saccheggio ordinato e sapiente, una specie di congegno a torchio sotto la cui enorme pressione dovesse spremere la città tutto quanto il succo che potea dare”: centosettantamila zecchini di contributo, la confisca di tutti i cavalli, degli immobili governativi, di cuoi per quarantamila scarpe, di duemila paia di stivali, di dodicimila sottovesti, di quattromila vestiti, di tela per dodicimila paia di calzoni, di dodicimila cappelli e calze sono solo l’inizio – nota lo stesso autore – di questa grande opera “di redenzione franco democratica”; al Monte di Pietà vengono saccheggiati cinquanta milioni, “[…] i musei, le pinacoteche, le chiese, le collezioni artistiche e scientifiche pubbliche e private vennero spoglie di quanto avean di meglio”.
Non solo Verona viene derubata dei suoi beni, ma gli occupanti iniziano subito l’arresto dei popolani e dei nobili che avevano partecipato alla resistenza: vengono fucilati nobili, esponenti della borghesia e religiosi, che avevano animato il popolo durante i giorni della guerra ai francesi con prediche di fuoco.
Anche il vescovo mons. Giovanni Andrea Avogadro (1735-1815), che non aveva temuto di affermare la sua fedeltà non solo alla religione ma anche al legittimo governo veneto, per la difesa del quale in più occasioni si era detto pronto alla vendita di tutti gli ori delle chiese, viene inquisito, e con lui molti altri.
Il 17 ottobre 1797, grazie al trattato di Campoformio, il Veneto passa all’impero austriaco e i francesi finalmente abbandonano Verona, dopo aver domato la rivolta e normalizzato una città che così duramente si era loro opposta.
Per approfondire: vedi in genere, Alvise Zorzi, La Repubblica del Leone. Storia di Venezia, Rusconi, Milano 1979, pp. 483-532; in specie, Enrico Bevilacqua, Le Pasque Veronesi, Remigio Cabianca Libraio Editore, Verona 1897; Alberto Lembo, Prodromi delle Pasque Veronesi e la caduta di Venezia, in AA. VV., Le insorgenze antifrancesi nel triennio giacobino, Apes, Roma 1992, pp. 81-89; e Giacomo Lumbroso (1897-1944), I moti popolari contro i francesi alla fine del secolo XVIII (1796-1800), II ed. rivista. Minchella, Milano 1997, pp. 75-99.