Articolo su Repubblica del 1 luglio 2005
Zapatero ha prosciugato il proverbiale mare che separa il dire e il fare, come se il potere esecutivo fosse effettivamente potere ed effettivamente esecutivo come se la politica servisse davvero a cambiare la società e/o essere cambiata dalla società.
di Michele Serra
E soprattutto, c’è una consequenzialità diretta e implacabile tra parole e fatti, giusti o sbagliati che siano: non una delle innovazioni nel diritto di famiglia introdotte da Zapatero differisce dal suo programma elettorale, e non uno dei punti del suo programma elettorale è stato dimenticato per opportunismo o convenienza.
Le parole tornano a essere fatti. Maggioranza e opposizione, in Italia, sono in gran parte divise nel giudizio sulle riforme spagnole, fondate sull’accentuazione della laicità dello Stato (e della scuola pubblica!), sull’estensione di alcuni diritti tradizionale patrimonio di una maggioranza socialmente conforme, anche ai cittadini omosessuali, e soprattutto sulla forte valorizzazione del ruolo delle donne (cioè di metà della cittadinanza).
Ma entrambe, maggioranza e opposizione italiane, hanno di che riflettere: gran parte dei loro sforzi e della loro adrenalina politica è stata spesa, in questa legislatura, per discutere di assetti interni, di leadership, di candidature, in un viluppo autoriferito e oramai quasi castale che conferma, in un’opinione pubblica già, smagata e depressa; l’idea di una politica semi-privatizzata dai politici, incapace di comunicare con il suo stesso elettorato, forse essa per prima incredula di essere in grado di incidere seriamente nella vita pubblica e nel costume, sociale.
La parola “riformismo” (e quel suo ante-litteram vagamente minaccioso che fu il “decisionismo”) non per caso, in Italia, è diventato più uno scongiuro che una speranza, e se la premura quasi ossessiva di tutti o quasi è diventata autodefinirsi riformista (come se la democrazia non dovesse essere, per definizione, riforma continua), viene da pensare alla tipica excusatio non petita: un’affermazione virtuosa che denuncia l’inconfessato senso di colpa collettivo per la stagnazione civile, economica e culturale del Paese.
Come variante perfino meno amabile del “decisionismo” del suo antico sodale Bettino Craxi, Berlusconi può pur vantare qualche sensibile “riforma”: ma su quasi ogni atto del suo governo pesa come un macigno l’ombra dell’interesse privato e perfino di una rancorosa vendetta sulla magistratura, al punto da declassare al basso rango del puntiglio personale la massima parte ‘ delle leggi fin qui approvate.
Non era questo, forse, che si aspettava l’elettorato liberale del centrodestra, probabilmente convinto di poter godere, sia pure con qualche lustro di ritardo, di una coda nostrana della destatalizzazione reaganiana e thatcheriana. La rivoluzione fiscale, per fare l’esempio più eclatante, è stata messa in coda, molto in coda a ben altre urgenze e regolamenti di conti, per non dire della grandeur infrastrutturale (ponti e autostrade a gogò) fin qui abortite in grottesche pose di prime pietre in desolata attesa di una seconda.
Ma forse anche peggio sta l’opposizione, che a causa dell’emergenza anti-berlusconiana, ùnita a una spiccata – e precedente – afasia progettuale, ha speso tutto o quasi il suo fiato in battaglie anche nobili ma strutturalmente conservatrici, sempre difendendo principi pregressi (non ultimi i principi costituzionali) e mai proponendo princìpi nuovi, proposte in grado di sedurre settori di opinione pubblica e di svecchiare l’immagine azzimata e perbenista di tanto notabilato di sinistra, parole d’ordine che avessero ìl profumo della novità e del cambiamento.
Così che mentre Zapatero porta fino all’estremo limite della liberalità i diritti degli omosessuali, adozione compresa, da noi il centrosinistra, alle prese con un governo quasi neoguelfo uri materia di etica pubblica, si è quasi sfasciato sotto l’urto del referendum liberale sulla procreazione assistita,` sembra come ipnotizzato dall’onda papista nata attorno al feretro di Giovanni Paolo II, e non risulta abbia inserito almeno i patti di unione civile (che sono meno del matrimonio) tra i punti fermi del proprio (ancora ignoto) programma elettorale.
Tanto che, con un amaro paradosso, possiamo dire che la sola grande accelerazione degli iter e delle intenzioni politiche alla quale abbiamo assistito in tempi recenti, in Italia, sono i cori di “santo subito” intonati dalla folla davanti a San Pietro. In mancanza di àltri riformismi, valga quello per la canonizzazione express. Per questo, qui da noi, si parla molto di Zapatero, e quando non si può ricorrere all’animosità anti-libertaria, lo si fa con malcelata invidia.
Avere in una penisola a noi prossima, e con cuItura e storia non troppo dissimili (una dittatura fascista, radici cattoliche, democrazie piuttosto giovani),:’ un esempio così imbarazzante di operatività politica, difatti che seguono alle parole, fa spiccare ancora più drammaticamente la mancanza di coraggio e di fantasia della nostia politica, e tanto più quella dell’opposizione che ha in Zapatero l’imbarazzante esempio di come si possa, a elezioni vinte, non’solo governare (che. è già tanto) ma addirittura cambiare un paese ed estendere le libertà civili: che sarebbe, almeno à leggere le credenziali, una delle ragioni sociali della sinistra.