Le promesse mantenute

Zapatero

José Luis Rodríguez Zapatero

Articolo su Repubblica del 1 luglio 2005

Zapatero ha prosciugato il proverbiale mare che separa il dire e il fare, come se il potere esecutivo fosse effettivamente potere ed effettivamente esecutivo come se la politica servisse davvero a cambiare la società e/o essere cambiata dalla so­cietà.

di Michele Serra

In un’osmosi dinamica, traumatica ma anche creativa (creativa in quanto traumati­ca.:.)., Vista dall’Italia, la turbolenta e febbrile mutazione della Spagna socialista prima ancora di far discutere nel merito, stupisce e quasi sbalordi­sce nel metodo: in poco più di un anno un pro­gramma di governo si incarna in leggi dello Sta­to, la propaganda cessa di essere una volatile nu­be di promesse e diventa un patto mantenuto, la politica torna a contare come artefice massimo del mutamento e non solamente come pruden­te e pallido patteggiatone nella rissa continua tra interessi e valori difformi.

E soprattutto, c’è una consequenzialità diretta e implacabile tra paro­le e fatti, giusti o sbagliati che siano: non una del­le innovazioni nel diritto di famiglia introdotte da Zapatero differisce dal suo programma elet­torale, e non uno dei punti del suo programma elettorale è stato dimenticato per opportunismo o convenienza.

Le parole tornano a essere fatti. Maggioranza e opposizione, in Italia, sono in gran parte divise nel giudizio sulle riforme spa­gnole, fondate sull’accentuazione della laicità dello Stato (e della scuola pubblica!), sull’esten­sione di alcuni diritti tradizionale patrimonio di una maggioranza socialmente conforme, an­che ai cittadini omosessuali, e soprattutto sulla forte valorizzazione del ruolo delle donne (cioè di metà della cittadinanza).

Ma entrambe, mag­gioranza e opposizione italiane, hanno di che ri­flettere: gran parte dei loro sforzi e della loro adrenalina politica è stata spesa, in questa legi­slatura, per discutere di assetti interni, di lea­dership, di candidature, in un viluppo autorife­rito e oramai quasi castale che conferma, in un’opinione pubblica già, smagata e depressa; l’idea di una politica semi-privatizzata dai poli­tici, incapace di comunicare con il suo stesso elettorato, forse essa per prima incredula di es­sere in grado di incidere seriamente nella vita pubblica e nel costume, sociale.

La parola “rifor­mismo” (e quel suo ante-litteram vagamente minaccioso che fu il “decisionismo”) non per caso, in Italia, è diventato più uno scongiuro che una speranza, e se la premura quasi ossessiva di tutti o quasi è diventata autodefinirsi riformista (come se la democrazia non dovesse essere, per definizione, riforma continua), viene da pensare alla  tipica excusatio non petita: un’afferma­zione virtuosa che denuncia l’inconfessato senso di colpa collettivo per la stagnazione civile, economica e culturale del Paese.

Come variante perfino meno amabile del “de­cisionismo” del suo antico sodale Bettino Craxi, Berlusconi può pur vantare qualche sensibile “riforma”: ma su quasi ogni atto del suo governo pesa come un macigno l’ombra dell’interesse privato e perfino di una rancorosa vendetta sul­la magistratura, al punto da declassare al basso rango del puntiglio personale la massima parte ‘ delle leggi fin qui approvate.

Non era questo, for­se, che si aspettava l’elettorato liberale del cen­trodestra, probabilmente convinto di poter go­dere, sia pure con qualche lustro di ritardo, di una coda nostrana della destatalizzazione reaganiana e thatcheriana. La rivoluzione fiscale, per fare l’esempio più eclatante, è stata messa in coda, molto in coda a ben altre urgenze e regola­menti di conti, per non dire della grandeur in­frastrutturale (ponti e autostrade a gogò) fin qui abortite in grottesche pose di prime pietre in de­solata attesa di una seconda.

Ma forse anche peggio sta l’opposizione, che a causa dell’emergenza anti-berlusconiana, ùnita a una spiccata – e precedente – afasia progettuale, ha speso tutto o quasi il suo fiato in battaglie anche nobili ma strutturalmente conservatrici, sempre difendendo principi pregressi (non ulti­mi i principi costituzionali) e mai proponendo princìpi nuovi, proposte in grado di sedurre set­tori di opinione pubblica e di svecchiare l’immagine azzimata e perbenista di tanto notabilato di sinistra, parole d’ordine che avessero ìl profumo della novità e del cambiamento.

Così che men­tre Zapatero porta fino all’estremo limite della liberalità i diritti degli omosessuali, adozione compresa, da noi il centrosinistra, alle prese con un governo quasi neoguelfo uri materia di etica pubblica, si è quasi sfasciato sotto l’urto del refe­rendum liberale sulla procreazione assistita,` sembra come ipnotizzato dall’onda papista na­ta attorno al feretro di Giovanni Paolo II, e non ri­sulta abbia inserito almeno i patti di unione civi­le (che sono meno del matrimonio) tra i punti fer­mi del proprio (ancora ignoto) programma elettorale.

Tanto che, con un amaro paradosso, pos­siamo dire che la sola grande accelerazione degli iter e delle intenzioni politiche alla quale abbia­mo assistito in tempi recenti, in Italia, sono i co­ri di “santo subito” intonati dalla folla davanti a San Pietro. In mancanza di àltri riformismi, val­ga quello per la canonizzazione express. Per questo, qui da noi, si parla molto di Zapa­tero, e quando non si può ricorrere all’animo­sità anti-libertaria, lo si fa con malcelata  invidia.

Avere in una penisola a noi prossima, e con cuI­tura e storia non troppo dissimili (una dittatura fascista, radici cattoliche, democrazie piutto­sto giovani),:’ un esempio così imbarazzante di operatività politica, difatti che seguono alle pa­role, fa spiccare ancora più drammaticamente la mancanza di coraggio e di fantasia della no­stia politica, e tanto più quella dell’opposizio­ne che ha in Zapatero l’imbarazzante esempio di come si possa, a elezioni vinte, non’solo go­vernare (che. è già tanto) ma addirittura cam­biare un paese ed estendere le libertà civili: che sarebbe, almeno à leggere le credenziali, una delle ragioni sociali della sinistra.