Stanislaw Grygiel
1. Quando Papa Giovanni Paolo II parla di Europa come unione di Paesi «dall’Atlantico agli Urali, dal Mar del Nord al Mediterraneo» (1) non la identifica con una piccola penisola del grande continente asiatico, ma racconta la storia di un avvenimento che è iniziato in un luogo e in un modo determinato e si sviluppa in una direzione determinata.
L’Europa non si colloca entro confini geografici definiti e non si può neppure rinchiudere in trattati politico-economici. L’Europa non è un oggetto da produrre e da manipolare.
«L’Europa […] non ha un territorio chiuso o isolato; si è costruita andando, […] al di là del mare, incontro ad altri popoli, ad altre culture, ad altre civiltà. […] altri paesi, altri continenti, attendono da essa iniziative audaci […] per edificare un mondo più giusto e più fraterno» (2). Un’Europa ripiegata solo su sé stessa non sarebbe Europa, ma soltanto oggetto della politica e dell’economia.
Costruiamo l’Europa, ma il solo nostro lavoro non esprime e non spiega la storia del suo avvenire. Domandando la sua identità, domandiamo non solo il nostro lavoro ma anche il dono che riceviamo. Domandando il dono, domandiamo la missione poiché non esistono doni senza scopo. L’Europa oltrepassa gli europei così che essi devono continuamente crescere fino a lei. Ecco che gli homines fabri, i cosiddetti «semplici operai» di cui parla Platone (427-347 a. C.) (3), che identificano la maturazione della persona con il perfezionamento degli strumenti di produzione, rappresentano una minaccia mortale per l’Europa.
L’Europa accade negli uomini che, creando gli oggetti necessari per una vita più bella, cercano quello, senza il quale si precipiterebbe nel caos. Nel caos la vita perde senso. E quanto più il caos è comodo, tanto più il senso viene meno. In altri termini, l’Europa è lo spazio della collaborazione creativa dell’uomo con la luce che promana dalla realtà invisibile; quello che l’uomo vede in questa luce e quello che tocca con le sue mani, si trasforma in una bella opera d’arte; l’opera più grande di tutte, poi, è lui stesso.
A Varsavia il Papa disse: «Si tratta […] di elaborare e all’Est e all’Ovest una visione dell’Europa come un insieme spirituale-materiale […]. Si tratta di pensare ad un’Europa futura, nonostante la sorprendente straordinarietà della dimensione […] politica degli eventi, anche come ad un “continente di cultura”» (4).
2. Il concetto di cultura si lega al lavoro di cui parla la parola latina colo, -ere, cultum, «coltivo la terra». Papa Giovanni Paolo II pensa all’Europa così come si pensa a una pianta, a un albero per i quali bisogna preparare il terreno. Il carattere futuro della parola cultura – sempre in latino, cultura è participio futuro – indica il campo coltivabile che si estende davanti a noi, dato a noi come compito.
L’Europa è un albero; perirà se non sentirà più sotto di sé le proprie radici. Il futuro dell’albero è già scritto nelle sue radici. Nelle radici cominciano a svelarsi il suo fine e il suo senso. Le radici dell’albero racchiudono la sua teleologia. Bisogna accettarla, se non si vuole che l’albero sia in preda all’amore e all’odio degli uomini, che vedono in esso solo materia da trattare. Dell’albero si può fare qualunque cosa, se lo si priva delle radici. Accettare l’albero come albero significa preoccuparsi delle sue radici. Questo è un atto d’amore al quale la ragione da sola non arriverebbe mai anche se, non si sa come, illumina sé stessa.
3. L’Europa avviene negli uomini che escono dal qui che vedono e vanno verso quanto solo la fede e la speranza possono sfidare. Coltivano la terra qui, ma con la fede e la speranza dimorano là. «Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta» (5).
In diverse occasioni il Papa ricorda che l’Europa ha messo le sue radici non solo dentro la terra, ma anche nel cielo. Perciò l’europeo è tanto europeo quanto è testimone della terra e del cielo. Se l’europeo dimentica questi inizi dell’Europa, trasformerà la sua storia nella storia del progresso della produzione di martelli e di saponette e delle istruzioni per l’uso.
Di una storia simile decideranno i vari politici quali Trasimaco (sec. V a. C.) (6) e Callicle (sec. V a. C.) (7), esperti nel costruire le cosiddette maggioranze e nel costringere gli uomini a seguirle. E per i Socrate (469-329 a. C.) non vi sarà posto. Anzi i vari ciarlatani, conciatori, scrittori e retori, come accadde per l’uomo che l’oracolo di Delfi diceva essere il più saggio di tutti, li condanneranno all’esilio o addirittura a morte. Sarà l’Europa dei mercenari, di quelli che stanno bene, ma che per questo sono afflitti dal possesso di troppi beni (cfr. Mc. 10, 22).
L’Europa che avviene sulla via dal qui al là è una storia di libertà. Questa storia è cominciata in Grecia, è stata orientata dalla profezia giudaica e ha trovato il suo compimento sulla croce piantata nella terra del Golgota. L’Europa si rivela in tutta la bellezza della sua identità solo nell’incontro del desiderio greco della verità, senza il quale la libertà può essere soltanto arbitrio, e della Persona annunciata dalla profezia giudaica, la Persona in cui la Verità è Amore, e «l’Amor che move il sole e l’altre stelle» (8) è Verità.
4. L’Europa è emersa dalle tenebre della storia grazie all’andare dei greci oltre i confini delle loro poleis, cioè nella loro esperienza di libertà dal proprio Stato e ancora di più dagli Stati stranieri. Essi compresero che la dipendenza totale non permette all’uomo di vivere secondo il desiderio della sapienza, la filo-sofia, che lo pervade. Per difendere questa indipendenza si opposero alla valanga asiatica. La fronteggiarono senza calcolare le possibilità di sopravvivere, poiché davano tale peso alla libertà dagli altri da essere pronti per essa ad affrontare la morte.
In occasione delle onoranze funebri ai caduti in guerra il loro amore per l’indipendenza fu espresso con le parole di Pericle (495 ca.-429 a. C.): «[…] considerando felicità la libertà e libertà il coraggio non rinunciate ai rischi della guerra» (9).
Per l’Europa iniziata in Grecia, barbaro è sia chi opprime sia chi si lascia opprimere. «È per l’Europa un dovere di coscienza denunciare senza equivoci le atrocità […] perpetrate […] vicino a noi e che colpiscono popolazioni senza difesa. È un dovere denunciarle chiunque ne sia l’autore» (10). In queste parole del Capo della Chiesa cattolica risuona anche l’eco del desiderio greco della libertà e della giustizia per tutti.
La libertà, tuttavia, è qualcosa di più dell’indipendenza dagli altri. In sostanza è libero colui che soprattutto non dipende da sé stesso. Solo lui così domina sé stesso da poter fare agli altri dono di sé, fino a dare anche la vita. Per poter così dominare su di sé bisogna guardare al di là di dove arrivano i propri occhi; bisogna stringere alleanza con la realtà sulla quale non ha potere neppure la morte.
La consapevolezza che una sorta di Divinità ha sedotto e porta l’uomo oltre le frontiere tracciate dai suoi pensieri è stata espressa dalla cultura greca, fra l’altro, con una figura qual è quella di Antigone (11), e con le parole che san Paolo trovò scritte su uno degli altari nel tempio sull’Areopago «Al Dio ignoto» (At. 17, 23).
La seduzione dell’uomo da parte della Divinità è raccontata dal mito greco in cui Zeus, sotto le sembianze di un bianco toro, rapisce la figlia del re di Tiro, Europa, e fugge con lei così lontano che i suoi fratelli ancora oggi la cercano. Lungo la strada costruiscono città, Stati, creano imperi, queste o altre unioni europee, ma tutto ciò che in essi trovano è solo un facsimile della loro sorella Europa. Lei stessa è sempre un po’ più in là. Devono quindi continuare a cercarla, a lottare per lei, a lottare con la propria debolezza. Ai fratelli di Europa non è lecito perdere coraggio e subire le vicissitudini del destino.
Nessun Areopago sa dove indirizzare il desiderio della libertà in cui è iniziato e continuamente ricomincia l’evento spirituale chiamato Europa. È umano dire no!, è sovrumano invece esprimere un sì! incondizionato, senza il quale l’uomo e la società diventano un trastullo dei propri o altrui capricci. Proprio per questo la Costituzione dell’Europa esige qualcosa di più di quello che può inventare un qualsiasi Areopago. La sorgente da cui l’albero dell’Europa beve l’acqua della vita sgorga nelle profondità della realtà umana. Nel senso profondo del termine le Costituzioni nascono nella coscienza dei popoli, coscienza risvegliata dalle esperienze che scuotono le coscienze morali.
5. La visita di Papa Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma, la sua preghiera davanti al Muro del Pianto a Gerusalemme, indicano all’Europa che il sogno greco dello svelarsi della verità, dell’a-létheia, si lega per sua natura alla profezia giudaica. Non capisce l’Europa chi non la guarda alla luce dell’andare greco oltre il qui alla ricerca della verità nello sconosciuto là. Tuttavia colui che non guarda all’Europa alla luce di quanto accadde a Carran, dove il Signore disse ad Abramo: «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre verso il paese che io ti indicherò» (Gen. 12, 1), non solo non la capisce, ma addirittura dissipa quello che la Grecia era riuscita a raggiungere.
Abramo lasciò la propria terra, la propria casa e iniziò il cammino senza sapere dove andava. Affidato alla voce del Signore cominciò a guardare in modo diverso le cose visibili e a pensarle in modo diverso. S’inoltrò al loro interno nella ricerca del «paese» invisibile indicato dalla promessa del Signore. Dall’alleanza stretta dalla Promessa del Signore con la speranza di Abramo nacque un popolo che diventò lo spazio della profezia che preservava gli uomini dal disperdersi in futilità passeggere.
La profezia giudaica e il desiderio ateniese del «Dio ignoto» fanno sì che l’Europa sia un evento che non conosce confini, ma si sviluppa in una direzione determinata. Gerusalemme preserva l’Areopago dal razionalismo che, interpretando le cose finite solo attraverso altre cose finite, si trasforma facilmente nel Lager di Auschwitz e nel GULag di Kolyma. Risvegliando nell’uomo la speranza che la verità già ad-viene, Gerusalemme fa uscire la ragione dalle tautologie sulla base delle quali l’uomo riesce a lottare solo per il diritto all’arbitrio.
Perciò chi colpisce la profezia colpisce anche la ragione e, viceversa, chi colpisce la ragione colpisce anche la profezia, perché la profezia apre la ragione a quanto la supera; senza la profezia la ragione riesce a essere logica, ma solo fino a un certo punto. La voce che dice all’uomo di lasciare tutto e di andare, sostenuto dalla speranza, nel paese che gli sarà indicato, e la profezia che non permette all’uomo di dimenticare, che è chiamato e mandato da quella voce, piantano i diritti dell’uomo sulle solide fondamenta della vocazione. L’uomo ha diritto solo a ciò a cui è chiamato.
6. L’Europa dello spirito avviene negli uomini nei quali la ragione e la profezia s’incontrano con la Verità rivelata sul Golgota. Il Golgota del Figlio di Dio non è un’aggiunta all’Areopago dei saggi e alla Gerusalemme dei profeti. Il saggio e il profeta ritrovano sé stessi solo nell’Amore inchiodato alla croce. La storia dell’Europa si unisce così alla storia dell’evangelizzazione (12), così che solo il comandamento «Andate […] e ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt. 28, 19) permette di cogliere sia il senso dell’andare greco oltre i confini della polis, sia il senso della chiamata di Abramo a Carran.
«[…] l’Europa è molto obbligata al cristianesimo. Ma anche il cristianesimo ha molti motivi per ringraziare l’Europa» (13). Infatti, ogni cosiddetta inculturazione della fede cristiana negli altri continenti non potrà prescindere da quanto ha cominciato a ad-venire quando san Paolo, mosso dalla supplica di un macedone udita in sogno «Passa in Macedonia e aiutaci!» (At. 16, 9), si recò in Grecia, cioè nell’Europa di allora. D’ora in poi, dunque, «la Chiesa e l’Europa […] sono due realtà intimamente legate nel loro essere e nel loro destino» (14), così che solo in riferimento al cristianesimo la cultura europea diventa pienamente comprensibile: «[…] il Vangelo ne costituisce un fondamento» (15).
[…] (13). Infatti, ogni cosiddetta inculturazione della fede cristiana negli altri continenti non potrà prescindere da quanto ha cominciato a quando san Paolo, mosso dalla supplica di un macedone udita in sogno (. 16, 9), si recò in Grecia, cioè nell’Europa di allora. D’ora in poi, dunque, […] (14), così che solo in riferimento al cristianesimo la cultura europea diventa pienamente comprensibile: […] (15).
A uomini come Paolo, che era discepolo del fariseo e dottore della legge Gamaliele, cittadino romano, l’uomo che Cristo fece cadere da cavallo, l’Europa griderà sempre «Passate da me e aiutatemi!». L’Europa avrà sempre bisogno di uomini di questo genere. Infatti, non le basterà la lotta per l’indipendenza, che finisce con l’affermazione che non esiste albero dal quale l’uomo non possa raccogliere i frutti (cfr. Gen. 3, 2-3). Gli europei diventano scandalo per gli altri nella misura in cui sostituiscono il Vangelo con l’affermazione superficiale che l’uomo, se non è Dio, deve più o meno comportarsi come se lo fosse.
L’intima unione fra Areopago, Gerusalemme e Golgota fa sì che «le crisi dell’uomo europeo sono le crisi dell’uomo cristiano» (16) e «le crisi della cultura europea sono le crisi della cultura cristiana» (17).
«Peregrinando lungo i sentieri del tempo, la Chiesa ha legato la propria missione così strettamente al nostro continente quanto a nessun altro. Il volto spirituale dell’Europa si formava grazie agli sforzi dei grandi missionari e grazie alla testimonianza dei martiri. Veniva formato nei templi innalzati con grande abnegazione e nei centri di vita contemplativa, nel messaggio umanistico delle università. […] Quanto povera sarebbe rimasta la cultura europea, se le fosse mancata l’ispirazione cristiana!» (18).
Basta sentire come risuonano a vuoto nella versione «illuminata» parole come «uomo», «libertà», «uguaglianza» e «fratellanza» per convincersi che senza il Padre non significano niente, poiché possono significare tutto. L’Areopago dell’illuminismo le ha identificate con le equazioni matematiche, i cui sistemi sono decisi dagl’interessi del momento. Il grande Nulla, eretto dalla ragione illuminata da sé stessa alla dignità dei princìpi della vita, elimina ogni differenza, a cominciare dalla differenze sessuale per finire con la differenza fra l’uomo e Dio. Questo comporta che l’uomo non capisce perché non gli è permesso di cogliere i frutti dall’albero gestito da Dio.
Colui che ha perso tutto tranne la ragione non si accorge che il «tesoro culturale dell’Europa» (19) al quale appartengono valori come «[…] la dignità della persona, il carattere sacro della vita, il ruolo centrale della famiglia, l’importanza dell’istruzione, la libertà di pensiero, di parola e di professione delle proprie convinzioni o della propria religione, […] il lavoro inteso come partecipazione all’opera […] del Creatore, l’autorità dello Stato […] governato dalla legge e dalla ragione» (20) è il tesoro dei figli di Dio e non degli dei.
7. La convinzione cartesiana, che le idee chiare e distinte costituiscano la misura e il criterio della conoscenza, ha sottomesso il desiderio della verità ai calcoli, cioè a quanto si chiama ratio, dal latino reor, -eri, ratum. La ragione calcolante non cerca le sorgenti dalle quali gli alberi attingono la propria verità. Per essa non ha valore la profezia che indica la divina Alterità indispensabile per la persona umana, perciò considera come malattia la voce interiore che chiama l’uomo a coltivare la sua terra per questa Alterità.
Nel mondo dei calcoli razionalistici la chiamata rivolta all’uomo a peregrinare dal qui al là della sacra Alterità ha ceduto il posto al turismo, ed è principalmente in esso, e non nel peregrinare, che si crea l’Europa odierna e non quella che è sempre un po’ in avanti. L’illuministico «sapere aude!» (21), «osa sapere», che in fondo significa «reri aude!», cioè «osa calcolare!», suona come un giudizio di condanna a morte per lo spirito dell’Europa. Vengono in mente le parole di Gilbert Keith Chesterton (1874-1936): «Il pazzo non è già l’uomo che ha perduto la ragione, ma l’uomo che ha perduto tutto fuor che la ragione» (22).
Consegnandosi al razionalismo, gli europei perdono la capacità di unirsi, poiché non vanno in pellegrinaggio l’uno dall’altro, ma verso le rappresentazioni e le ipotesi che creano reciprocamente su di sé. Invece di creare la società delle persone, se ne vanno in un «paese lontano» dalla casa del Padre (cfr. Lc. 15, 13), e quindi dai fratelli, ed è lì che fanno di sé una massa d’individui che calcolano e vengono calcolati. La miseria della solitudine non permette loro di vedere nell’affidarsi dell’uomo all’uomo, e nemmeno a Dio stesso, niente più che una privata ingenuità sentimentale.
Se l’Europa dev’essere Europa, il pellegrinaggio alle sorgenti deve sostituire il turismo intellettuale, calcolato dai diversi centri. «Gli interventi politici ed economici, per quanto necessari, non sono sufficienti a guarire l’europeo ferito, culturalmente reso più fragile e indifeso. Egli non ritroverà il suo equilibrio e il suo vigore se non nella misura in cui rinnoverà […] le sue radici cristiane» (23).
Il desiderio ateniese della verità e la profezia giudaica animeranno «[…] la volontà di rispettare, difendere e promuovere la dignità della persona umana all’interno delle sue [dell’Europa] frontiere e in solidarietà con tutti» (24) solo là dove gli uomini avranno il coraggio di uscire quotidianamente dalla patria, dalla casa dei propri padri e di andare nel luogo che il Signore ha già «indicato», sul Golgota.
Il pericolo della ragione illuminata da sé stessa minaccerà sempre l’Europa. Ma oggi si ha l’impressione che essa abbia talmente perso le sue forze spirituali che le sarà difficile essere Europa. I suoi politici, dai quali molto dipende, soffrono di una tale perdita di memoria che riescono a pronunciare frasi davvero umoristiche. Nel gennaio del 2004, in un articolo apparso sulle pagine del Corriere della Sera, uno dei politici «illuminati» (25) cercava d’insinuare nei lettori l’idea che l’identità europea è costituita dal pensiero che, dai tempi dell’Illuminismo, cerca la felicità e la giustizia.
Tale pensiero, scrive questo politico, pone l’uomo al centro del programma politico, e gli crea la morale sulla base della ballata Il re degli Elfi di Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) (26). L’amnesia illuministica, assunta da questo politico come fondamento di correttezza politica, fa del laicismo la «grammatica delle religioni», che consente loro di esprimersi in modo adatto alla società (27).
Al pensiero antieuropeo non basta contrapporre un altro pensiero, un pensiero europeo. Per aiutare l’Europa, bisogna elevarsi a un livello più alto, là dove il realismo e la santità costituiscono un insieme. Solo dalle altezze del realismo e della santità si può vedere, per usare le parole dello stesso poema di Goethe, che il «re degli Elfi con la corona e lo strascico» (28) è solo «una lingua di nebbia, nientaltro» (29), e fa paura. Ma di là si può ugualmente vedere, che la ragione lasciata a sé stessa, invece di difendere gli uomini dal «re degli Elfi», lo aiuta a sedurli con promesse più illusorie.
Papa Giovanni Paolo II ne parlò indirettamente a Santiago di Compostella: «[…] io, Vescovo di Roma e Pastore della Chiesa universale […] grido con amore a te, antica Europa: “Ritrova te stessa. Sii te stessa. Riscopri le tue origini. Ravviva le tue radici. […] Ricostruisci la tua unità spirituale, in un clima di pieno rispetto verso le altre religioni e le genuine libertà. […] Tu puoi essere ancora faro di civiltà e stimolo di progresso per il mondo. […]“» (30); e lo disse esplicitamente quando, proclamando le tre grandi sante Brigida di Svezia (1303 ca.-1373), Caterina da Siena (1347-1380) e Teresa Benedetta della Croce (1891-1942) compatrone d’Europa, invitò questo continente a svilupparsi in armonia con la propria migliore tradizione, «[…] che ha proprio nella santità la sua espressione più alta» (31).
Il «re degli Elfi» soffocherà l’Europa in cui non ci sarà la santità. Essa si perderà nelle saponette da essa stessa prodotte. Non vi è dubbio che la forza della grazia vince ogni «re degli Elfi», e anche quel re che è la ragione illuminata da sé stessa. Ma gli europei avranno il coraggio di rispondere alla vocazione della grazia?
Note:
* Testo annotato dell’intervento tenuto il 21 novembre 2004 dal professor Stanislaw Grygiel, direttore della Cattedra Karol Wojtyla presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia della Pontificia Università Lateranense, in occasione del VI Congreso Católicos y Vida Pública sul tema «Europa, sé tú misma», organizzato a Madrid, in Spagna, dal 19 al 21 dall’Universidad San Pablo-CEU nella propria sede. Dopo la celebrazione della Messa da parte di S. Em. il card. Antonio María Rouco Varela, arcivescovo della capitale spagnola, il filosofo polacco l’ha esposto in italiano in una sessione presieduta dall’on. Rocco Buttiglione, ministro per le Politiche Comunitarie della Repubblica Italiana, che lo ha pure introdotto. Il testo, presentato con il titolo Esperanza y futuro de Europa. Orígines de Europa: Jerusalén, Atenas, Gólgota e poi comparso con il titolo Dove nasce l’Europa? ne Il Nuovo Areopago. Rivista trimestrale di cultura (anno 23, n. 2, Forlì 2004, pp. 10-18), viene edito con la cortese autorizzazione dell’autore, del quale è pure il nuovo titolo.
(1) Giovanni Paolo II, Discorso ai Vespri d’Europa, a Vienna, Heldenplatz, del 10-9-1983, n. 2, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. VI, 2, pp. 436-444 (p. 437).