La Nuova Bussola quotidiana 29 Novembre 2017
di Nicola Bux
Da milleseicento anni la lingua ufficiale della Chiesa cattolica romana è il latino, come della Chiesa di Costantinopoli è il greco antico, di quella di Mosca lo slavo ecclesiastico, dei luterani il tedesco medievale. Il latino è quindi anche la lingua della liturgia romana, come di altre liturgie occidentali: segno di unità ecclesiale che travalica tempo e spazio, perché collega le generazioni cristiane dai primi secoli sino ad oggi, e perché permette a tutti i cattolici di unirsi in una sola voce; è la chiesa universale che prega per bocca dei suoi figli senza distinzione di razza e cultura.
Che cosa è successo con la riforma liturgica? Per quanto siano stati tradotti nelle lingue parlate, molti testi liturgici non si potevano rendere con la stessa efficacia; per non parlare del canto gregoriano e polifonico legato ad esso. Inoltre, la tesi in sé positiva dell’inculturazione della liturgia in un luogo e cultura – per la quale fu promulgata l’Istruzione Varietates legitimae, da leggere complementariamente a Liturgiam authenticam – non può offuscar l’altra che la precede e la segue: la liturgia deve esprimere l’unità e la cattolicità della Chiesa.
Joseph Ratzinger osservava che tradurre la liturgia nelle lingue parlate sia stata una cosa buona, perché dobbiamo capirla, dobbiamo prendervi parte anche con il nostro pensiero, ma una presenza più marcata di alcuni elementi latini aiuterebbe a dare una dimensione universale, a far sì che in tutte le parti del mondo si possa dire: “io sono nella stessa Chiesa”…per avere una maggiore esperienza di universalità, per non precludersi la possibilità di comunicare tra parlanti di lingue diverse, che è così preziosa in territori misti. Col latino i sacerdoti possono dire messa per qualsiasi comunità nel mondo ed essere compresi.
Surrettiziamente però si è coniata la tesi dell’incomunicabilità plurisecolare della liturgia facendola dipendere dall’altra tesi che il latino non fosse comprensibile ai tempi di Trento da parte della quasi totalità dei preti. Si è volutamente dimenticata l’opera di formazione del clero e di catechesi dei fedeli avviata da quel concilio, che ha mutato in quattro secoli la situazione. Questa tesi tace sul fatto che i nostri padri vivessero il mistero eucaristico e liturgico molto più profondamente di noi oggi e, ultimamente, significa negare l’azione dello Spirito Santo.
La comprensione del mistero, non è quella che discerne la presenza di Cristo sull’altare e fa cadere in ginocchio, annichiliti come Pietro, esclamando: “Allontanati da me che sono un peccatore”? Malgrado la Messa in lingua parlata, il numero dei fedeli nelle chiese è molto diminuito: forse anche perché, dicono alcuni, ciò che hanno compreso non è affatto piaciuto. Divo Barsotti diceva: “Crede di capire qualcosa di più dell’essenza e del mistero eucaristico se si parla solo e sempre in italiano? Il problema non è di capire solo sul piano intellettuale, ma di compiere un incontro reale con Cristo”.
A tutto questo poi, non ha contribuito la pubblicazione, in breve tempo, di documenti spesso contraddittori. Come giudicare lo iato tra il Motu proprio Sacram Liturgiam del 25 gennaio 1964, col quale papa Paolo VI ammetteva le lingue nazionali solo per le letture e il vangelo della Messa degli sposi, e l’Istruzione Inter Oecumenici del 26 settembre 1964, promulgata dalla Congregazione per il Culto Divino insieme al Consilium ad exsequendam Costitutionem de Sacra Liturgia (l’organismo istituito per “eseguire” il testo conciliare), in cui si autorizzava la lingua volgare oltre che nelle letture e nella preghiera universale, anche nell’Ordinario della Messa, cosa non prevista dalla Sacrosanctum Concilium?
Poi, sebbene l’Istruzione, al n 57 prescrivesse che i messali e breviari in lingua volgare contenessero anche il testo latino, il 31 gennaio 1967 si comincia a recitare in lingua volgare anche il Canone romano. Ma il 13 luglio 1967 Paolo VI – come anzi detto – aveva fatto scrivere dalla Segreteria di Stato al Consilium, affinché i messali nazionali fossero bilingue: latino e lingua volgare. Eppure, appena un mese prima, il 21 giugno, il Consilium aveva inviato una lettera circolare a firma del suo presidente card. Lercaro, in cui si affermava che nelle celebrazioni non si dovrà passare da una lingua all’altra.
Così, il 10 agosto del 1967 il Consilium diramava una comunicazione ai presidenti delle conferenze episcopali nazionali, circa la traduzione del Canone romano, in cui affermava: “E’ desiderio del Santo Padre che i messali, sia quotidiani che festivi, in edizione integrale o parziale, portino sempre a lato della versione in lingua volgare il testo latino, su doppia colonna o a pagine rispondenti, e non in fascicoli o libri separati, a norma dell’Istruzione Inter Oecumenici e del Decreto della S.Congregazione dei Riti De Editionibus librorum liturgicorum, del 27 gennaio 1966”.
Nel 1969 Paolo VI tornava a chiederlo anche alla Commissione liturgica nazionale italiana, a proposito della traduzione da intraprendere, addentrandosi “nell’augusto, austero, sacro, venerando, tremendo recinto delle preci eucaristiche” – che costituiscono il cuore della Messa, il momento della consacrazione del pane e del vino – dove esortava a “procedere con pazienza, senza fretta, e soprattutto con qualche umiltà” (n.11)
L’espressione sarà ripresa letteralmente nella terza Istruzione Liturgicae Instaurationes del 1970, tranne l’accenno all’umiltà! Ma il papa rimase inascoltato, sia sull’impostazione bilingue sia sulle traduzioni, con la scusa dell’eccessiva voluminosità che avrebbe raggiunto il messale, secondo il segretario del Consilium, mons.Bugnini. Se questi avesse potuto vedere l’edizione italiana attuale, cosa avrebbe detto? Dunque, direbbe Manzoni, le ‘gride’ c’erano ma non sono state osservate.
Dinanzi al proliferare inarrestabile delle traduzioni-interpretazioni, dovette intervenire, nel 1974, la Congregazione per la Dottrina della fede che stabiliva: “Il significato da intendersi per esse è, nella mente della Chiesa, quello espresso dall’originale testo latino”. Risultato: l’originale latino scomparve, impedendo così a preti e studiosi di intendere l’autentico significato del testo tradotto. Infatti, se si studia comparativamente il lessico e la sintassi del messale tridentino, promulgato da san Pio V, e di quello di Paolo VI si hanno non poche sorprese.
Per esempio, un’orazione dell’antico messale dice: Deus, qui nocentis mundi crimina per acquas abluens, regenerationis speciem in ipsa diluvii effusione signasti (Dio, che astergendo con le acque i delitti di un mondo peccatore, nella inondazione stessa del diluvio hai prefigurato la rinascita); nel messale attuale è resa così: “Deus, qui regenerationis speciem in ipsa diluvii effusione signasti” (Dio, che nella inondazione stessa del diluvio hai prefigurato la rinascita): sono scomparse le espressioni che riguardano la condizione umana di peccato, i pericoli e le insidie del diavolo e del mondo. Perché? Forse per non provocare “choc al senso cristiano attuale” (cfr Istruzione del Consilium del 1969). Questa situazione è un sintomo di quell’ottimismo romantico, stigmatizzato da Joseph Ratzinger nel Rapporto sulla fede, che oggi è sfociato nel relativismo teologico.
Significativo è quanto affermava Giovanni Paolo II, il quale riconosceva che la lingua latina «è stata anche un’espressione dell’unità della Chiesa, e, mediante il suo carattere dignitoso, ha suscitato un senso profondo del mistero eucaristico». Papa Wojtyla ammetteva, inoltre, sempre nello stesso documento, che «la Chiesa romana ha particolari obblighi verso il latino, la splendida lingua di Roma antica, e deve manifestarli ogni qualvolta se ne presenti l’occasione».
Che cosa pensare e che fare? Uwe M.Lang annota: “I Padri conciliari non immaginavano che la lingua sacra della Chiesa occidentale sarebbe stata rimpiazzata dal vernacolo. La frammentazione linguistica del culto cattolico nel periodo post-conciliare si è spinta così oltre che la maggioranza dei fedeli oggi può a stento recitare un Pater noster insieme agli altri, come si può notare nelle riunioni internazionali a Roma o a Lourdes.
In un’epoca contrassegnata da grande mobilità e globalizzazione, una lingua liturgica comune potrebbe servire come vincolo di unità fra popoli e culture, a parte il fatto che la liturgia latina è un tesoro spirituale unico che ha alimentato la vita della Chiesa per molti secoli. Infine, è necessario preservare il carattere sacro della lingua liturgica nella traduzione vernacola, come fa notare l’istruzione della Santa Sede Liturgiam authenticam del 2001”.
A chi obbietta che la lingua latina non permette la comunicazione e la partecipazione alla liturgia, bisogna far notare che il latino, quale lingua ‘sacra’ ha una potenza comunicativa, in quanto è adoperata all’interno di un atto sacro; inoltre, le caratteristiche di eredità della tradizione, universalità e immutabilità – che sono parallele a quelle del nucleo della fede – la rendono particolarmente adatta alla liturgia, che tratta delle res sacrae aeterne: il latino risponde alla missione della Chiesa di Roma. Anche le Chiese giovani africane e asiatiche hanno bisogno di una lingua unificante e universale, in momenti particolarmente significativi della loro vita, come la liturgia.
In molte parti del mondo si torna al latino: da Oxford a Cambridge, a Seattle…perché considerarla un’arretratezza? Ad un europeo che deve imparare l’inglese per comunicare col mondo, perché non può essere utile conoscere il latino nostra madre lingua, per comunicare nella liturgia cattolica con i fratelli di fede ed anche saper decifrare il patrimonio musicale e artistico della Chiesa a cui apparteniamo senza far la figura degli ignoranti? Tutte le religioni usano una lingua sacra: l’arabo antico per i musulmani, il sanscrito per gli indù. Dunque non si deve aver paura del latino: i giovani lo capiscono e affollano le Messe in latino.
Bisogna interrogarsi seriamente, circa la disobbedienza verso il Concilio Ecumenico Vaticano II, per aver abolito, di fatto e del tutto, il latino nella liturgia e nei sacramenti, facendo un favore al secolarismo e al particolarismo. Rispetto al tempo in cui fu pubblicata la Costituzione liturgica, la situazione è molto più grave in diverse parti del mondo, specialmente in Occidente: “È in questione la fede” e “l’unità del rito romano” che la esprime (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 37-38).