In 40 anni hanno generato burocrazie voraci e complicanti, centralismi locali, spese folli
di Marco Bertoncini
Bisognerebbe leggersi pure gli appassionati interventi di esponenti liberali, missini e monarchici negli anni Cinquanta e Sessanta, quando, inascoltati, denunciavano i guai che avrebbero creato l’istituzione delle quindici regioni a statuto ordinario, dopo quelli causati dalla nascita delle regioni autonome.
Ci fu una convergenza d’interessi e di posizioni politiche che, alla fine, vinse, con la costituzione, nel ’70, delle regioni ordinarie.
C’erano i comunisti, alla Costituente piuttosto tiepidi, divenuti regionalisti convinti perchè bramosi di mettere le mani su Emilia, Toscana e Umbria (e ben altre plaghe riuscirono ad amministrare già pochi anni dopo, mercé larghe intese e compromesso storico).
C’erano i repubblicani, dimentichi di Mazzini e scopertisi devoti di Cattaneo. C’erano (con numerose incertezze e remore, invero) i democristiani: risentivano dell’insegnamento di don Sturzo, non lo Sturzo liberista, antidirigista, antistatalista di quand’era solitario senatore a vita, ma lo Sturzo segretario del partito popolare, che aveva pagato i non pochi errori con l’esilio inflittogli dalla Santa Sede.
Così, nacquero le regioni.
Nacquero su confini incongrui, derivati da compartimenti statistici ottocenteschi: solo le due grandi isole avevano, per ragioni naturali, limiti indiscussi; per tutte le altre avrebbero dovuto rivedersi, caso per caso, i confini. Non si fece nulla. Sorse perfino una regione come il Molise, che avrebbe dovuto costituire una semplice provincia nell’Abruzzo, ma che generò infinite spese con la propria istituzione e con lo spezzarsi in due microprovince.
Che cos’hanno prodotto, in questi decenni, le regioni? Hanno generato burocrazie, centralismi locali (non più Roma, bensì Torino, Bologna, Firenze ecc.), spese folli. Hanno moltiplicato la presenza pubblica nell’economia, con le aziende e gli enti regionali, aiutati dai comuni con le municipalizzate o come diamine oggi si definiscano.
Le regioni hanno spezzato l’unità dello Stato e dell’amministrazione, con l’aggravante del nuovo titolo V della Costituzione, segnatamente l’articolo 117, voluto dal centro-sinistra un decennio addietro. Oggi il potere, il potere vero, non collocato a Montecitorio, al Quirinale, a palazzo Madama, a palazzo Chigi (o, ieri, a palazzo Grazioli), bensì nella Conferenza Stato-regioni, oggi presieduta da Vasco Errani. Un organo, nemmeno citato nella Carta costituzionale, di fatto legifera, amministra, governa: sovente, paralizza.
Non c’è, quindi, da meravigliarsi se si scopre che questo o quel consigliere regionale, questo o quel gruppo consiliare, questo o quell’assessore, arraffa. L’istituzione medesima delle regioni, con l’espansione immensa della capacità di spesa e i fondi a disposizione dei politici di periferia, ha portato a questi scandali.
Si parla tanto di abolire le province, o almeno di ridimensionarle. Sarebbe ben più utile sopprimere le regioni, partendo da quelle a statuto speciale per estendersi a quelle ordinarie. Che senso ha, se non in termini di elargizione di tutto il resto d’Italia, serbare una regione con le dimensioni della Valle d’Aosta, che se fosse provincia sparirebbe perfino come tale?
La facoltà di legiferare riconosciuta a questi enti ha prodotto quei guasti che i politici di destra e, in parte, di centro, avevano predetto per decenni. Purtroppo, le loro profezie, per cassandresche che fossero, si sono rivelate ben inferiori ai danni oggi registrati.