Belgio in tre pezzi, Scozia e Galles indipendenti, Spagna in frantumi. Così nell’Europa senza identità rischia di partire il valzer delle secessioni. Uno scenario possibile
di Rodolfo Casadei
Non tutti lo sanno, ma l’anno scorso i belgi erano sull’orlo della rottura dell’unità nazionale a causa di una diatriba fra fiamminghi e valloni circa l’assetto della circoscrizione elettorale di Bruxelles, che secondo i primi favorirebbe troppo i secondi nella ripartizione dei seggi. Van Rompuy, unico politico fiammingo di cui i valloni si fidano, scongiurato dal re aveva preso le redini del governo dalle mani del focoso Leterme e in poco tempo era riuscito a calmare le acque, pur non sciogliendo affatto il nodo della contesa. Ora il pericolo torna.
Il re ha nominato “mediatore” Wilfried Martens, un altro cattolico fiammingo. Questi doveva proporre ai capi dei partiti della maggioranza (fiamminghi e valloni) una road map per la soluzione del problema della circoscrizione di Bruxelles, invece ha concordato con loro di indicare al re il nome di un altro mediatore (Jean-Luc Dehaene) cui passare la patata bollente. I giornali hanno ricominciato a parlare di divorzio tra Fiandre e Vallonia.
Ok, Francia e Germania continuano a subordinare l’Unione Europea ai loro interessi nazionali. Hanno brigato per collocare dei signori nessuno a posti dai nomi altisonanti per poter continuare a manovrare il gioco dietro le quinte. Ma gli altri paesi, soprattutto quelli più importanti, sono colpevoli tanto quanto loro perché gliel’hanno lasciato fare.
Prendete la nomina di Catherine Ashton ad alta rappresentante per la politica estera e vicepresidente della Commissione europea: a tedeschi e francesi non è parso vero di potere in un colpo solo accantonare l’ingombrante Tony Blair, mettere in difficoltà gli euroscettici conservatori britannici che il prossimo giugno torneranno verosimilmente al potere a Londra e avere per ministro degli Esteri europeo il rappresentante di un paese i cui principali partiti non credono sia possibile né auspicabile una politica estera europea (dunque non concorrenziale rispetto alle politiche estere francese e tedesca).
Ma a far preferire la inesperta Ashton ad altri candidati del partito laburista non è stata, come ha avuto la faccia tosta di dichiarare Zapatero, la volontà dei socialisti europei di mandare un segnale forte sul tema delle quote femminili nei posti di responsabilità politica, bensì l’indisponibilità dei politici laburisti più prestigiosi dopo Blair: Gordon Brown era convinto di poter sottoporre ai partner europei una terna comprendente i nomi di Peter Mandelson e David Miliband. Non aveva ancora capito che Mandelson aspira al posto di Miliband (ministro degli Esteri del Regno Unito) e che Miliband aspira a quello di capo del partito laburista, cioè il suo.
I giornali inglesi, per parte loro, hanno criticato la nomina della Ashton. Perché poco autorevole? No, perché il Regno Unito avrebbe fatto meglio a tenersi stretta l’importante poltrona economica che la Ashton occupava in Commissione (mercato interno) anziché scambiarla col vistoso ma sostanzialmente inutile posto di alto rappresentante per le relazioni esterne. Ora al mercato interno andrà il francese Michel Barnier, e sarà più probabile l’arrivo di regole nel settore dei prodotti finanziari che dispiaceranno alla City.
I veri problemi di Brown e Zapatero
Ma forse Brown e Zapatero vanno perdonati per la loro mancanza di concentrazione: a distrarli sono problemi simili a quelli del piccolo Belgio. Sul Regno Unito incombe un referendum che aprirebbe la strada all’indipendenza della Scozia: il 3 settembre scorso, 70esimo anniversario della dichiarazione di guerra di britannici e francesi alla Germania di Hitler che aveva invaso la Polonia, il Partito nazionale scozzese (Snp) ha presentato nel parlamento della Scozia un progetto di legge per l’indizione di un plebiscito in cui si domanda agli elettori scozzesi se sono d’accordo o meno che il loro governo negozi con Londra l’accesso della storica regione alla piena indipendenza.
Il progetto difficilmente si trasformerà in legge, perché quello presieduto dal leader dell’Snp Alex Salmond è un governo di minoranza ed è improbabile che i partiti “unionisti” diano il loro indispensabile appoggio. Ma nel 2011 si svolgeranno nuove elezioni per il parlamento, e a quel punto i nazionalisti dovrebbero fare molto meglio che nel 2007 (quando conquistarono la maggioranza relativa per un solo seggio), centrando la propaganda proprio sul rifiuto da parte delle altre compagini di lasciare pronunciare gli scozzesi.
Allora anche gli indipendentisti gallesi del Plaid Cymru prenderanno coraggio, e tutto sarà possibile. In Spagna per il momento la via legalista all’indipendenza battuta dal Partito nazionale basco (Pnv) e formazioni minori è ostruita, dopo che Partito socialista e Partito popolare hanno deciso di dare vita a un inedito governo regionale dei Paesi Baschi proprio per sbarrare la strada al cosiddetto piano Ibarretxe (dal nome dell’ex governatore di fede Pnv) che voleva fare della regione uno Stato libero associato alla Spagna, con un ordinamento giuridico separato.
Ribolle invece la Catalogna, dove dal 2006 il nuovo statuto di autonomia, avallato anche dal governo Zapatero, è sotto l’esame del tribunale costituzionale, che sembra intenzionato a bocciarne importanti contenuti. Per reazione è sorto un movimento indipendentista che ha convinto 130 Comuni catalani (su 978) a svolgere il 13 dicembre prossimo un referendum consultivo per l’indipendenza della Catalogna che Madrid non è riuscita a mettere fuorilegge come fece invece Aznar col referendum basco indetto da Ibarretxe nel 2003
Tre teorie sul marasma
Fra i grandi paesi dell’Unione Europea, Francia e Germania (diversamente da Regno Unito, Spagna e Italia) non sono percorse da importanti movimenti separatisti o criptosecessionisti, anzi potrebbero lucrare vantaggi territoriali dalla dissoluzione del Belgio: la Vallonia si congiungerebbe quasi certamente alla Francia, mentre i piccoli cantoni orientali di lingua tedesca si fonderebbero con la Germania.
Deflagrazioni come l’indipendenza della Scozia e la spartizione del Belgio provocherebbero sicuramente echi a oriente e nei Balcani. Una Grande Russia che assorbirebbe Ossezia, Abkhazia, Bielorussia e le regioni orientali dell’Ucraina non è da escludere, così come una Grande Albania e una Grande Serbia priva del Kosovo ma allargata alla Repubblica serba di Bosnia. Come si spiegano queste dinamiche per le quali alcuni Stati membri dell’Unione Europea resistono o addirittura si ampliano mentre altri implodono?
Non ci sono molte teorie. Agli inizi degli anni Novanta John Mearsheimer scrisse che la fine della Guerra fredda avrebbe liberato le tensioni nazionalistiche e invertito il processo di integrazione europea. Questo non si è ancora visto, anzi la Ue si è allargata a 27, e le entità subnazionali che domandano l’indipendenza come Catalogna, Paesi Baschi, Scozia, Fiandre eccetera chiedono di poter fare anche parte dell’Unione.
Semmai si può dire, come scrive lo scienziato politico olandese Hans Vollaard, che il funzionamento della Ue stimola la secessione di entità subnazionali dagli Stati nazionali. Visto che questi ultimi cedono competenze e poteri a Bruxelles, le realtà territoriali più dinamiche si sentono tentate di rivolgersi direttamente alla Ue, essendo diventato il rapporto con lo Stato centrale largamente superfluo e oneroso.
Accanto a questa ipotesi funzionalista vale la pena suggerirne anche una storico-culturale. In Europa persistono o addirittura si ampliano i paesi che incarnano un ideal-tipo: la Francia epitome del centralismo illuministico, la Germania dei Länder, comunitarista e romantica, e la Russia autocratica per un millennio di seguito. Tendono invece a disgregarsi i paesi dove è in crisi la narrazione nazionale soprattutto perché il secolarismo ha schiacciato il fattore identitario religioso: è il caso del cattolico Belgio, dell’anglicano Regno Unito e della cattolicissima Spagna.