Il Corriere del Sud n.6 21 luglio 2014
di Cristiano Ottaviani
L’impresa sociale e l’economia sociale possono essere risposte alla crisi? La connotazione etica della domanda è evidente, più incerte le reali prospettive economiche. A questa contraddizione ha provato a rispondere il convegno organizzalo dall’UCID – Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti sezione di Roma, intitolato “Impresa sociale sostenibile: realtà o illusione?”.
All’appuntamento organizzato dall’UCID il 16 aprile 2014 a Palazzo Alteri a Roma, hanno partecipato protagonisti e studiosi del settore, come il prof. Malico Caroli – Direttore Area Ricerca Consulenza Universita LUISS Guido Carli, la Dott.ssa Marina Miglioralo – Responsabile CSR Enel SpA. il prof. Fabio Abenavoli – Presidente “Emergenza Sorrisi”, ed il Doli. Federico Mento — Coordinatore di “Human Foundation”, moderati da Marco Franzelli, giornalista del TG Uno della RAI
Nell’incontro ci si è soffermati su come la crisi, iniziata nel 2008 e giunta al suo sesto anno, possa ridare scopo alla nostra economia. I difficili anni di recessione che stiamo vivendo, potrebbero avere un senso infatti, se venissero utilizzati per far capire i limiti del nostro modello capitalistico e farci comprendere da dove ripartire. Non si tratta di abbracciare improbabili “decrescite felici” e astratte semplificazioni demagogiche, tanto fumose nella teorie, quanto inconcludenti nelle loro applicazioni pratiche perchè poco attente alle effettive logiche del mercato e della produzione, ma di trovare all’interno del capitalismo soluzioni nuove e vincenti.
La retorica sul “sociale” non risolve da sé i problemi di una economia motivata solo dal profitto e incapace di lungimiranza. Negli interventi i relatori dell’Ucid non hanno mancato di sottolineare come anche imprese con apparentemente, un forte “marchio'” sociale siano risultate, in alcuni casi, colpevoli di irregolarità gravi e di pesanti violazioni delle normative. La logica dei politicamente corretto rischia infatti di ridurre l’eticità delle aziende a un maquillage teso a colorare il proprio spirito aziendale di un fittizio “sociale”, sempre più gradito ad un pubblico assettato di solidarietà, ma confuso dalla babele dei media.
La tavola rotonda ha evidenziato anche il ruolo delle cooperative sociali, una delle poche realtà in attivo nel nostro Paese nonostante la crisi. Il motivo di questo successo controcorrente è da collegarsi alla specificità giuridica di queste organizzazioni, che vincolanop il loro capitale ad una logica di lungo termine senza avere l’esigenza di dover continuamente distribuire profitti, potendo avere così una gestione aziendale più attenta alle esigenze d’impresa. Nonostante le facili strumentalizzazioni politiche, tese a rivendicare le cooperative come specifiche della tradizione della sinistra italiana, la storia di questo movimento è più complessa e variegata.
Se è impossibile infatti non parlare di cooperazione senza pensare alla tradizione cattolica sociale, è opportuno ricordare come le cooperative siano in grado di favorire una cultura più civica e comunitaria, un tessuto di relazioni sociali ampio, un contatto attivo con le realtà associative e spesso anche, come nel caso delle cooperative sociali di inserimento lavorativo, l’integrazione di soggetti svantaggiati. Si tratta di un modello a bassa conflittualità aziendale, grazie all’ottica dei ristorni ai soci che, proporzionati ad eventuali attivi di impresa, favoriscono tra i lavoratori una mentalità non meramente rivendicativa, ma attenta alla produzione.
Il convegno non ha mancato di indicare come nella Dottrina Sociale della Chiesa, con una tradizione che inizia da Papa Leone XIII e va avanti fino alla recente “Caritas in Veritate”, ci siano importanti antidoti ai problemi che stiamo vivendo. Appartiene infatti alla cultura cattolica una nozione di profitto più estesa rispetto a quella attuale. Con l’ultima enciclica del 2009 Papa Benedetto XVI ha individuato non solo nella valorizzazione del Terzo Settore, ma nel pieno coinvolgimento di tutti gli attori economici e sociali, la giusta sinergia con cui costruire una società più sana e umana. La “Caritas in Veritate”’ afferma infatti che “la maggiore forza a servizio dello sviluppo” è “l’umanesimo cristiano ” capace di ravvivare “la carità” e di farsi guidare “dalla verità, accogliendo l’una e l’altra come dono permanente di Dio”.
L’Italia è un paese particolare che, proprio per voler negare (almeno da parte della sua classe dirigente) le sue radici cristiane, è drammaticamente alle prese con problemi di identità. Negare in maniera isterica il legame con le nostre più profonde tradizioni civiche e religiose, respingendo le nostre radici senza capirne il valore è attualmente il principale problema nazionale.
Abituati alla facile retorica di chi politicamente ha vinto i grandi conflitti di potere della modernità, ci siamo dimenticati di quanto la nostra storia abbia una propria originalità anche economica, che meriterebbe invece di essere valorizzata e offerta alle altre culture.
Se è giusto dire che il modello marxista ha fallito e che il socialismo, clientelare, assistenziale, nemico della razionalità economica, che alla fine è anche civile ed etica, è stato travolto con il XX secolo; va ammesso anche, che la crisi attuale sta dimostrando come l’iper-liberismo sia sempre più obsoleto. Da qui l’esigenza di riattualizzare quanto insegnato in economia dalla tradizione cattolica e indirettamente presente anche nelle specificità del nostro umanesimo, attraverso la valorizzazione dell’ “economia civile” che, come ci ricorda il consulente economico di Papa Benedetto XVI il professor Stefano Zamagni, ha in Italia la sua origine e la sua storia più importante.
Già prima del pensiero tomistico, la scolastica aveva consentilo di armonizzare il diritto romano nelle sue componenti associativi e organizzative con il solidarismo cristiano, estendendo la carità non solo a tutti i membri attivi della collettività, ma anche a quelli più deboli e improduttivi. Attraverso la creazione di strutture ordinate di società, che si realizzarono nell’epoca dei comuni, fu possibile favorire l’aumento di ricchezza, una produzione di manufatti lungimirante e tutelare le esigenze collettive.
Si tratta di una specificità non compresa a pieno dai nostri politici, desiderosi di scimmiottare tutto ciò che è straniero, e che andrebbe arricchita da destra con un ripensamento originale di alcuni filoni del pensiero economico; come le idee neocorporative, il liberismo umanistico di Einaudi e Ropke, ma anche il più moderno Distributismo.
I padri fondatori del Movimento Distributista internazionale, da Gilbert Keith Chestcrton a Hilaire Belloc per arrivare a Padre Vincent McNabb (1868-1943), erano tutti cattolici che desideravano porre le questioni della dignità della persona, della tutela della famiglia, della diffusione della piccola proprietà come altrettante vie d’uscita dalla secca dei modelli utopistici e ideologici della modernità.
Tale critica, come ha scritto Fabio Trevisan, co-fondatore dei Gruppi Chestertoniani veronesi e grande esperto di Chesterton e Belloc, «si radica in alcuni principi intangibili (da qui la consonanza con i “principi non negoziabili “) a tutela dell’autentica libertà nella verità della persona. Per questo motivo avevano auspicato, un secolo fa, un ripensamento profondo del modello capitalistico e di tutte le sue conseguenze brutali e disumane che appaiono visibilmente ora nella loro drammatica evidenza. A distanza di un secolo le loro analisi non sono state ancora prese in considerazione, nonostante si possano riscontrare i deleteri effetti del sistema liberal-capitalista» (Il Distributismo: una proposta ragionevole per uscire dalla crisi, in Vita Nuova, 19 aprile 2013).
L’universo cooperativo e dell’imprenditoria sociale, le piccole medie aziende a carattere ancora prevalentemente famigliare, il tessuto vivissimo di associazioni volontarie tipiche della nostra economia e società, nonostante le storture subite, ci riportano ad una natura congegnale. Si tratta di un patrimonio, che non merita di essere monopolizzato da quelle forze che desiderano barattare aiuti impropri con interferenze indebite, ma che andrebbe valorizzato con una cultura capace di trattare con realismo e serietà, lo sviluppo in modo veramente alternativo.
La nostra speranza è che da destra, da chi cioè dovrebbe essere più incline a valorizzare la specificità della tradizione e la difesa della sovranità nazionale, venga la consapevolezza e l’orgoglio con cui ridare linfa a questa nostra antica, ma ancora florida, identità.