di Roberto Giorni
«Norme a tutela della maternità» è il titolo della legge 194/1978 che ha legalizzato l’aborto in Italia. Legge che non pone alcun limite al numero di aborti di una stessa donna e permette l’eliminazione di un bambino «malato», qualunque sia la sua malattia, fosse anche un labbro leporino o due dita del piede unite. Inoltre, la medesima legge di fatto ha sancito l’idea che la madre sia proprietaria del feto che alberga nel suo grembo e che il padre, di conseguenza, sia un personaggio irrilevante. Sarebbero queste, in sostanza, le norme a tutela della maternità.
In Olanda, nel 2006, si è pensato di fondare un partito dei pedofili. Il tribunale dell’Aia ha respinto il ricorso, in proposito, di alcune associazioni che si battono contro la pedofilia con la seguente motivazione: qualsiasi partito che raccoglie le adesioni richieste dalla legge olandese ha diritto di esistere. Ciò significa che i bambini non sarebbero soggetti di alcun diritto, come meri oggetti di uso consumistico.
In Danimarca è consentita la fecondazione gratuita per single e lesbiche. In Spagna, dal 2005, una legge permette il matrimonio tra persone dello stesso sesso con la possibilità di adottare figli. Nel contempo, la stessa legge abolisce i termini di «madre», «padre», «marito» e «moglie». Si salva, per ora, il termine «figlio». Si deve parlare, di conseguenza, di «progenitore A» e «progenitore B».
Subito dopo, nel medesimo Paese, è stata introdotta una modifica alla legge sul divorzio: dopo tre mesi si può rompere l’unione matrimoniale senza il supporto di alcuna causa. Alcuni giornalisti, in proposito, ne hanno sottolineato la situazione che non esclude elementi di comicità, parlando di «divorzio express» o di «matrimonio al vapore».
Ma di fronte all’insieme di fatti ricordati non c’è posto per il sorriso di scherno, per non ricordare poi i problemi posti dalla pretesa separazione tra sessualità e procreazione, dalla ricerca dell’autonoma gestione del morire e dalle possibilità di manipolazione del corpo umano aperte dalle nuove tecnologie gnr (genetica, nanotecnologie e robotica). In questo contesto, nell’aprile del 2008 in Inghilterra viene annunciata la realizzazione di embrioni ibridi uomo-animale. Ciò, evidentemente, significa porsi sul sentiero che porta allo sconvolgimento della identità antropologica.
Il caso italiano
In Italia nel 2009 sono continuati gli attacchi alla legge 40/2004 -«Nonne in materia di procreazione medicalmente assistita» – e nel 2010 entra in campo la pillola abortiva Ru486. Ma ancora nessuno si preoccupa della piena attuazione dell’art. 5 della legge 194, relativo ai consultori che possono aiutare la donna «a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza», per non parlare poi del disinteresse per la valorizzazione della possibilità – prevista dalla legge – di partorire in ospedale, senza fornire le proprie generalità, lasciando il bambino alla struttura sanitaria che provvederà ad avviarlo all’adozione.
Come non vedere in questo orizzonte i sintomi di una preoccupante deriva tra le rapide del non-cognitivismo etico? Non trovando un’incisiva qualificazione che esprima compiutamente il ruolo delle parti nel dibattito in corso a tutto campo, ci torna in mente una storica frase di Norberto Bobbio che, a nostro modo di vedere, si attaglia alla situazione: «La differenza non è tra i credenti e i non credenti, bensì fra i pensanti e i non pensanti».
Che dire a proposito del panorama presentato, a cominciare dalla consapevolezza delle scelte o, senza eufemismi, dalla capacità delle persone di distinguere il bene dal male? Per un primo accostamento al problema nel nostro Paese, si dovrebbe riflettere sull’ambiente in cui sono immersi i giovani, ambiente che interagisce col ruolo dei genitori e della scuola.
Film, sceneggiati della televisione, storie raccontate, grandi fratelli e amici creano a getto continuo, sullo sfondo del misero buonismo di una società «adulta» e progressista, situazioni confuse in cui tutto è ammesso. Nel contesto quasi mai si da spazio a personaggi incisivi, testimoni di una autentica capacità di scelta orientata da una corretta prospettiva della dignità della persona e del molo della famiglia. Libero amore anche tra giovanissimi, aborto visto come normale rimedio, famiglie aperte, conversioni all’orno o alla bisessualità, outing, spinello facile (sulla falsa e triste insegna del «tutti siamo stati giovani»), episodiche manifestazioni tra i giovani della micidiale logica del branco, per non dire altro.
«Quando gli errori sono esauriti», scrive Brecht, «siede come ultimo compagno di fronte a noi il nulla». In questa situazione, quei giovani (non pochi) che hanno scoperto il valore della fedeltà e della famiglia in un motivato progetto di vita, e in tale direzione si preparano con gioia testimoniando tra l’altro il valore della castità prematrimoniale (impegno che numerosi giovani americani sottolineano portando simbolicamente l’«anello della purezza»), in Italia non esistono o vengono presentati come rari reperti archeologici non classificabili. Tutto «normale».
E nessuno sui mass media può permettersi di fare stecca nel coro, parlando seriamente di dignità della persona con chiari riferimenti alla legge naturale, se non vuole essere isolato. Ne sa qualcosa Giuliano Ferrara.
Ma una comunità può abdicare al compito di educare, trasmettere valori e progetti condivisi? Il problema, se si vuoi vedere, è chiaro: quale testimonianza intendiamo presentare ai giovani
Priorità scuola
Un secondo elemento di accostamento al problema potrebbe riguardare la scuola. Ma nemmeno le ultime ravvicinate campagne elettorali sono riuscite a stanare i politici in lizza sul tema delle condizioni del nostro sistema educativo decisamente statalista, le cui riforme (anche buone come lo schema della riforma Moratti) non arrivano mai in porto, a causa del fatto che per la maggioranza dei nostri connazionali, come sottolineava Angelo Panebianco, «scuola e problemi educativi non sono affatto una priorità» (Magazine, 27.3.2008).
Come non esprimere, di fronte a tutto il contesto, la domanda che sale dal cuore: ma dove sono i genitori? Sappiamo bene, d’altra parte, che la concezione dei genitori come titolari primari dell’educazione non viene ammessa da tutti, ma non possiamo esitare di fronte al diritto dell’essere umano di essere educato, un diritto normalmente associato a quello della sussistenza. I due diritti, infatti, rientrano nel più ampio diritto inalienabile ad avere una vita degna.
L’art. 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, tra l’altro, ci ricorda che: «1. Ogni persona ha diritto alla educazione… 2. L’educazione deve mirare al pieno sviluppo della personalità umana e al rafforzamento del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali… 3. I genitori hanno in primo luogo il diritto di scegliere il genere di educazione da impartire ai loro figli». Ma, ripetiamo: dove sono i genitori?
Anni 70: triste lascito
In questa sede, in proposito, non possiamo dimenticare che stiamo raccogliendo il frutto della predicazione dei «profeti» degli anni Settanta. In quel momento, di fronte alle nuove frontiere del permissivismo, del caos, dell’indiscriminata politicizzazione del tutto, chi cercava di resistere all’onda montante, a partire dal mondo dei mass media e della scuola, veniva isolato e tacciato di fascismo.
In tale cornice, per contribuire sia pure con una modesta scintilla di chiarezza alla conservazione di uno spiraglio necessario per salvaguardare l’autonomia delle scelte, pubblicammo, in proposito, testi destinati alla scuola e alcuni saggi. Tra questi, un saggio – «II diritto naturale», in Studi cattolici, n. 215 del 1979 – col preciso scopo di far conoscere, al di fuori del ristretto ambito degli addetti ai lavori, una notevole ricerca del prof. Gerardo Morelli, studioso di diritto costituzionale comparato e docente all’Università di Trieste: Il diritto naturale nelle costituzioni moderne (Vita e Pensiero, Milano 1974).
Il libro, oltre a mostrare che la posizione di Kelsen espressa nella Reine Rechtslehre (La dottrina pura del diritto, 1936) è costitutivamente incapace di comprendere il fenomeno giuridico, permette di ritenere fondata la tesi fondamentale di Morelli: «Chi nega l’esistenza di norme metastatuali vincolanti, sul piano giuridico, anche il legislatore costituzionale, sia costituito che costituente, nega di fatto il nostro ordinamento positivo, e non il nostro soltanto».
Ci siamo ricordati del nostro lavoretto in tema di legge naturale perché recentemente, in un angolo seminascosto tra i grandi scaffali ricolmi di libri alla moda di una grande libreria milanese, abbiamo trovato una piacevole sorpresa: il saggio di Tommaso Scandroglio, La legge naturale. Un ritratto (Fede & Cultura, Verona 2007), basato sul realismo filosofico di Tommaso d’Aquino.
La dottrina classica e tomista della legge naturale ha fronteggiato nel corso dei secoli numerosi e pesanti attacchi. Questa grande contesa, vista da un’opera di H. Rommen come L’eterno ritorno del diritto naturale (Lipsia 1935), ha conosciuto il suo momento più drammatico nel XX secolo. «La ripulsa del diritto naturale», scriveva Giorgio Del Vecchio nel 1921, «è stimata oggi ancora comunemente un indispensabile atto di fede, e quasi un dovere di buona creanza per un giurista» (Sui princìpi generali del diritto, citato in P. Guidi, La legge ingiusta, Studium, Roma 1948, p. 40).
Lo stesso Kelsen, con La dottrina pura del diritto (1936), la versione più raffinata del positivismo giuridico, propose un sistema alternativo al modello classico-tomista, nel quale si poteva e si doveva fare a meno della legge naturale. Contro l’idea di legge naturale, nel XX secolo, scese in campo anche il marxismo, per il quale la natura dell’uomo cambia nel corso del tempo ed è inconcepibile considerare la proprietà privata dei mezzi produzione come un diritto naturale dell’uomo. La legge naturale, in altre parole, trova il suo irridu cibile avversario nell’idea di Stato moderno, nel quale la legge diventa l’espressione di un arbitrio, di una volontà fattualmente dotata di potere: potestas, non veritasfacit legem.
Il saggio di Scandroglio si apre con le parole di Tommaso d’Aquino, che afferma che la legge naturale è la «partecipazione della legge eterna nella creatura razionale» (Summa theologiae, I-II, q. 11, a. 2) e, prendendo le mosse dal termine «legge eterna», accompagna il lettore nell’ampio tema che può essere spiegato — come sottolinea l’Autore – facendo ricorso solo all’uso della ragione, senza riferimenti al campo della fede. Si analizzano poi le caratteristiche della legge eterna (eterna, suprema, universale, interiore, conoscibile) che, quando è riferita all’uomo, prende il nome di legge naturale.
Opportuni e didatticamente efficaci risultano gli esempi, presi anche dal testo tommasiano, impiegati per illustrare la conoscibilità della legge naturale. Notevoli, anche per la chiarezza, sono gli spunti di approfondimento sui temi del dovere morale (dove, tra l’altro, si mostrano i limiti della «legge di Hume», secondo la quale dall’analisi dei fatti non si possono logicamente derivare giudizi di valore) e della coscienza. La seconda parte del libro tratta ampiamente del delicato rapporto tra la legge naturale e il diritto positivo.
Per quanto riguarda, infine, la conoscenza per connaturalità della legge naturale, nel testo si dice che si tratta di una conoscenza «immediata, diretta, non riflessa, oscura» (p. 69), seguendo la teoria della conoscenza per inclinazione di Jacques Maritain. Poiché, com’è noto, il rapporto tra legge e inclinazioni è stato oggetto di un significativo dibattito in tempi recenti, soprattutto in relazione alla posizione di Maritain, forse non era opportuno adottarla in un lavoro di carattere introduttivo-divulgativo. Senza la pretesa di un adeguato riepilogo di tale dibattito, ci permettiamo un breve cenno in proposito, per segnalare un aspetto non trascurabile e, a nostro modo di vedere, risolutivo della ricerca di Fulvio Di Siasi, Dio e la legge naturale (Edizioni Ets, Pisa 1999).
La posizione di Maritain
Per Maritain, ricordiamo subito, «non è la ragione a far conoscere la legge, ma le inclinazioni e, dunque, sono queste, non la facoltà discorsiva della ragione, l’elemento formale che fa conoscere la legge» (Nove lezioni sulla legge naturale, Jaca Hook, Milano 1985, p. 59). Proprio perché la conoscenza per inclinazione non dipende dalla ragione umana (ma dalle inclinazioni) è possibile preservare, secondo Maritain, il carattere eteronomo della legge naturale.
Pertanto, sottolinea Maritain, «se la ragione umana s’intromettesse, la legge non avrebbe che un valore di autorità umana». Invece, la conoscenza per inclinazione «spazza via ogni intervento della ragione umana come fattore creatore della legge naturale» (Nove lezioni…, pp. 59-60). «Il nobile intento di Maritain con riguardo alla difesa della legge naturale», scrive in proposito Di Blasi, «molto comprensibile dati il momento in cui scrive e i suoi interlocutori, lo porta […] a un’involontaria e parziale accettazione di alcuni presupposti gnoseologici razionalisti: in particolare, dell’idea dei concetti come unità chiare e distinte, e dei giudizi come altrettanto chiare e distinte deduzioni a partire da quelle unità».
Dall’affermazione maritainiana, in altre parole, si evince un giudizio non fondato su concetti (dove il giudizio si definisce come l’unione di due o più concetti) e una ragione non discorsiva (dove la ragione si definisce proprio per la sua discorsività, cioè per il suo conoscere passando da un concetto a un altro e da un giudizio a un altro). «Per quanto ci riguarda», osserva Di Blasi, «riteniamo che il carattere eteronomo della legge naturale riposi sulla conoscenza naturale di Dio e sulla dilezione naturale ad amare Dio “prima e più di se stessi”».
Rispetto invece alla spontaneità e storicità della legge naturale, sottolinea Di Blasi, «essa dipende in radice da una corretta comprensione dell’intenzionalità della conoscenza intellettuale. Il concetto e il giudizio, per san Tommaso, non sono mai unità stabili o cristallizzate, ma sono la conoscenza che l’intelletto ha, in un certo momento, della realtà con cui, attraverso i sensi, si trova in costante rapporto intenzionale [cioè la conoscenza di ognuno è sempre personale, perfettibile e graduale], e che l’esercizio della ragione permette di penetrare più a fondo» (op. cit., p. 192).
Nel concludere il rapido cenno sulla dottrina maritainiana della conoscenza per inclinazione della legge naturale, segnaliamo una significativa osservazione in proposito di Angelo Scola: «Si può definire la dottrina maritainiana della conoscenza per inclinazione come qualcosa che non si trova nei testi tomistici, che non era, con quasi certezza, nella mente dell’Aquinate» (L’alba della dignità umana, Jaca Book, Milano 1982, p. 138).
Diritto naturale, vitale & controverso
L’ambito teorico del diritto naturale si presenta ai nostri giorni, almeno in prima approssimazione, tanto vitale quanto controverso sia sul piano della filosofia del diritto sia su quello della filosofia pratica e della vita sociale. Differenti progetti di ricerca guardano a modelli di giusnaturalismo non necessariamente coincidenti, ma certamente accomunati dal riferimento alle principali questioni che la scottante attualità offre alla riflessione giuridica. In questa cornice ci sembra significativo un nuovo saggio di Manlio Paganella, La Dottrina sociale della Chiesa e il diritto naturale (Ares, Milano 2009), che rientra nell’alveo principale del pensiero classico e tomista, appunto quello della dottrina sociale cristiana.
La DsC secondo Raganella
La Dottrina sociale della Chiesa ha le sue fonti essenziali e prioritarie nel diritto naturale e nella Rivelazione. Il suo oggetto e fine è l’uomo in quanto essere sociale per natura ed elevato, nel piano provvidenziale, a un ordine soprannaturale. Da questo ordine di fonti, il diritto naturale e la legge di Cristo, non possono derivare conflittualità poiché interessano la medesima natura umana secondo le complementari prospettive della ragione naturale e della fede cattolica. Prospettive complementari che emergono e si approfondiscono anche in relazione alle varie sensibilità culturali e ai diversi contesti storici.
Ma, avverte Raganella, bisogna fare attenzione al grave errore che vede nella «prassi storico-sociale» dei cristiani la fonte primaria con funzione regolatrice nei confronti delle altre due. Errore che trova la sua origine nella filosofia storicistica dell’immanenza, da cui discende la stessa teorizzazione marxiana, nonché quella hegeliana, della prassi come autorevole fonte intrinseca della dottrina sociale.
Ciò presuppone che l’Essere abbia in sé le ragioni e i fini del proprio stesso divenire con la conseguente negazione di ogni dignità di giustificazione e di fondamento alle fonti primarie del diritto naturale e della Rivelazione. Fonti primarie di riferimento e di illuminazione, in sostanza, che la civiltà occidentale è andata via via precludendosi dalle origini della modernità a oggi. Sullo sfondo di queste solide premesse, il testo presenta un’ampia navigazione nella Dottrina sociale, sul piano dottrinale e storico, con un intenso supporto di documenti magisteriali.
Tra i diversi elementi di riflessione, che Raganella presenta con coinvolgente lucidità, ne segnaliamo alcuni che, tra l’altro, ci appaiono di grande attualità. Tra evangelizzazione e promozione umana, dice il nostro Autore, ci sono legami profondi da «collegare solidamente tra loro l’attività missionaria della Chiesa, la evangelizzazione e la promozione umana» (p. 39).
Molto opportuna anche la sottolineatura del ruolo di Pio XII «come precursore immediato del Concilio Vaticano II e dell’insegnamento sociale dei papi che gli sono succeduti». In proposito si ricorda tra l’altro l’iniziativa importante del medesimo Pontefice, che denuncia l’errore del formalismo giuridico di Hans Kelsen (il positivismo negatore del diritto naturale) nell’intervento di fronte al tribunale della Sacra Rota del 13 novembre 1949: «II semplice fatto di essere dichiarato dal potere legislativo norma obbligatoria dello Stato, preso solo e per sé, non basta a creare un vero diritto […]. È stato osservato come, secondo i principi del positivismo giuridico, quei processi — quello di Norimberga in primis – avrebbero dovuto concludersi con altrettante assoluzioni […]. Gli imputati si trovavano, per così dire, coperti dal diritto vigente» (p. 91).
Questione «famiglia»
E ancora, scrive Raganella, «è molto importante comprendere che le verità o premesse del diritto naturale appartengono costitutivamente alla “struttura epistemologi-ca” della Dottrina sociale della Chiesa, la quale si propone come l’aggiornamento incessante del Vangelo in risposta alle crescenti e rinnovate urgenze dell’uomo contemporaneo» (p. 40).
Come non sottolineare in proposito l’urgenza, ai nostri giorni, di salvaguardare la soggettività sociale della famiglia? La famiglia che, come scrive Giovanni Paolo II nella Familiaris consortio (1982), «ha un ruolo del tutto originale e insostituibile nell’educazione dei figli». La famiglia in cui, come sottolinea il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa (n. 239), «i genitori hanno il diritto-dovere di impartire un’educazione religiosa e una formazione morale ai loro figli: diritto che non può essere cancellato dallo Stato, ma rispettato e promosso; dovere primario, che la famiglia non può trascurare o delegare».
Ci torna in mente quanto il medesimo Giovanni Paolo II diceva in apertura della Lettera alle Famiglie (1994: Anno della famiglia): «Quando manca la famiglia, viene a crearsi nella persona che entra nel mondo una preoccupante e dolorosa carenza che peserà in seguito su tutta la vita». Dal libro emerge con chiarezza un’idea molto importante per la presentazione della Dottrina sociale della Chiesa: il fondamento della verità cristiana è razionale.
Da un lato perché la Rivelazione e il diritto naturale sono verità che si comunicano all’intelletto umano attraverso la razionalità, dall’altro perché non è possibile prestare fede a tali fonti prioritarie se non ci sono prima delle verità umane che costituiscano, come diceva san Tommaso, i preambula fidei, ossia le premesse razionali della fede, i motivi di credibilità.
L’ormai famoso discorso di Ratisbona, di Benedetto XVI, spiegava che ciò che caratterizza il cristianesimo è il fatto che non si appella al sentimento o alla tradizione o all’appartenenza etnica, ma si appella alla razionalità. In altre parole, si può dire che la fede cristiana è il massimo di razionalità possibile e che va accolta solo da chi comprende che risponde alle domande della metafisica, alle domande esistenziali dell’uomo: chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Queste cose, come ben sappiamo, vengono messe in dubbio dallo scientismo, dal neopositivismo e dal razionalismo critico del nostro tempo.