II 1° ottobre 1946 venivano condannati a Norimberga 17 generali nazisti, accusati di avere partecipato alle azioni di sterminio di massa nei confronti degli ebrei. Ancora, il 22 febbraio 2003, a Regensburg, a distanza di 40 anni dalla sua morte per mano del regime nazionalsocialista, veniva ufficialmente annoverata «tra le glorie della Baviera» (1) una giovane studentessa universitaria appartenente al Gruppo della Rosa Bianca.
Anne Sophie Scholl veniva innalzata agli onori della patria proprio per avere violato gli ordini e le leggi che i generali nazisti, condannati a Norimberga, avevano invece fedelmente eseguito.
Questi casi ci mettono chiaramente di fronte all’evidenza che esistono valori superiori al rispetto delle leggi positive. Valori per cui vale certo la pena sacrificare la vita, ma soprattutto valori che la stessa legge positiva dovrebbe veicolare, pena la perdita della sua legittimità.
Questi valori meta-positivi, nel pensiero antico, sono stati indicati con il nome di valori o precetti della legge naturale. Non è il cristianesimo, come comunemente si pensa, ad avere coniato per primo questo termine, né ad averne affermato per primo l’esistenza. Infatti, l’idea risale piuttosto agli Stoici, a Cicerone, e ai grandi poeti dell’epoca classica, tra cui Sofocle. Famoso è il suo personaggio dell’Antigone, da molti considerata la prima eroina del diritto naturale, non avendo accettato di piegarsi ai decreti del Re Creonte, in nome di una legge superiore, iscritta nella sua coscienza (2).
Anche Aristotele, nell’erica Nicomachea, parla dell’esistenza di un giusto naturale, misura del giusto legale, che «non dipende dalle opinioni degli uomini», «ha ovunque la stessa validità» (3) e può dunque fungere da punto di incontro tra le diverse culture.
La dottrina della legge naturale, tuttavia, si scontra, come ha di recente affermato il Papa, con altre concezioni. Prima tra cui la corrente del relativismo, ovvero l’ideologia secondo la quale «non esiste nulla che abbia carattere di assolutezza e di immutabilità» (4). Questa corrente sostiene piuttosto che tutto sia «relativo» al tempo, ai luoghi, alle persone nelle concrete situazioni in cui si trovano (5).
In realtà, il relativismo è sempre esistito. Basti pensare a Protagora, filosofo presocratico secondo il quale «l’uomo è la misura di tutte le cose». Oppure si può ricordare il celebre motto di Eraclito, secondo cui «tutto scorre», tutto è in divenire, così come sostiene appunto il relativismo.
Ciò che tuttavia conferisce al relativismo moderno un carattere nuovo è la preminenza che esercita in ogni ambito della cultura, a causa del diffondersi della mentalità scientista, o immanentista (6). L’influenza del relativismo è così capillare che l’allora card. Ratzinger nell’omelia della Messa Pro eligendo Romano Pontifice, ne ha parlato in termini di una vera e propria «dittatura» (7).
In àmbito etico, per esempio, il relativismo si manifesta nell’«indifferentismo» morale, secondo il quale non è possibile giudicare oggetti-vamente il bene e il male (8). In àmbito giuridico, invece, il relativismo si manifesta nelle concezioni positiviste del diritto, secondo le quali «le leggi hanno forza obbligante nella misura in cui si conformano alle volontà del legislatore» (9). Legislatore che di volta in volta può assumere il volto della maggioranza parlamentare, della tradizione, o dell’autorità religiosa (così come accade in alcune comunità islamiche).
Il Multiculturalismo li giuridicoUna forma particolarmente insidiosa di concezione positivista del diritto è la corrente del «multiculturalismo giuridico» (10). Secondo il quale si dovrebbero adottare tanti codici giuridici differenziati quante sono le culture rappresentate all’interno di un singolo Stato. Un fenomeno che negli Stati Uniti è conosciuto sotto il nome di strategia della «difesa culturale» e che prevede persino la possibilità di giudicare la responsabilità penale di un individuo secondo i princìpi culturali dell’imputato stesso.
Gli esiti drammatici della strategia della difesa culturale sono stati messi bene in luce dalla Coleman, una studiosa di diritto della Duke University (11). La Coleman ricorda, tra gli altri, il caso di una madre americana di origine nipponica che, in California, dopo avere tentato vanamente il suicidio, venne assolta dall’omicidio dei suoi due bambini, in quanto «le sue azioni sarebbero state considerate conformi al costume giapponese […] del suicidio genitore-figlio indotto dall’infedeltà del marito» (12).
Oppure ancora, narra, per esempio, del caso di un marito di origine cinese assolto a New York dall’omicidio della moglie in quanto le sue azioni sarebbero state ammesse dal costume cinese per cancellare l’offesa arreca-tagli dal tradimento della moglie. Casi di questo genere si verificano e si potranno verificare anche in Europa, in nome del relativismo.
Basti pensare alla proposta avanzata da Rowan Williams, primate della Chiesa anglicana, il quale ha di recente suggerito di introdurre nel sistema giuridico britannico alcuni precetti della Shari’a che regolano i rapporti familiari, per soddisfare le esigenze dei cittadini musulmani che vivono nel Regno Unito. È noto, tuttavia, che il diritto di famiglia islamico subordina la donna all’uomo nei diversi àmbiti della vita privata.
Nel rendere giustizia alle tradizioni di una cultura, dunque, il «multiculturalismo giuridico» corre il rischio di avallare l’ingiustizia commessa nei confronti delle vittime appartenenti alla medesima cultura. In secondo luogo, esso priva di autonomia i singoli membri, imprigionando gli individui all’interno della cultura intesa come un sistema uniforme e impermeabile alle influenze esterne (13).
Sono almeno due gli errori su cui poggia la dottrina del relativismo. In primo luogo, il relativismo erige la realtà del pluralismo culturale — del politeismo dei valori e dei costumi – a evidenza della inesistenza di princìpi unitari, comuni alle diverse culture. In secondo luogo, esso confonde l’innegabile limitatezza della nostra conoscenza della legge naturale con la contingenza della legge naturale stessa.
Per quanto riguarda questo secondo aspetto, può essere utile fare un esempio pratico, che tra l’altro fu dello stesso Cartesio. Quando noi vediamo un bastone nell’acqua, molto spesso, per uno strano effetto ottico, possiamo pensare che sia storto, o piegato. Ma quando lo tiriamo fuori dell’acqua ci rendiamo conto che è dritto.
In questo caso noi non diciamo che il bastone è dritto o storto a seconda delle nostre preferenze, ma diciamo che, per un errore della nostra percezione, lo avevamo visto piegato, mentre è sempre stato dritto. La stessa cosa dovrebbe applicarsi alla nostra conoscenza della legge naturale. Il fatto che la nostra conoscenza della legge di natura sia spesso offuscata da abitudini e tradizioni sedimentate nel tempo e nella storia non ci legittima a concludere, come invece fa il relativista, che non esistano valori universali. Piuttosto ci legittima a concludere, come il filosofo francese Jacques Maritain, che la nostra conoscenza della legge naturale abbisogna di un lento e graduale processo di purificazione (14).
Per quanto riguarda il primo errore, ossia la confusione tra pluralismo culturale e inesistenza di princìpi unitari, emblematico è l’aneddoto erodoteo, in cui Erodoto narra delle pratiche funerarie vigenti al tempo del re Dario. Se i Greci usavano bruciare i corpi dei loro defunti, gli Egiziani usavano invece divorarli, e sarebbero inorriditi al solo pensiero di cremarli.
Un po’ troppo frettolosamente, Erodoto trae la conclusione che «tutto sia relativo». Dalla ineliminabile, ed evidente, pluralità delle usanze di inumazione dei morti, egli desume cioè che non esistano princìpi comuni alle diverse culture. Invece, come osserva acutamente Francesco D’Agostino, da un’attenta analisi dei dati riportati nell’aneddoto emerge come le diverse norme veicolino almeno un principio comune: quello del rispetto per i propri defunti (15).
Più in generale, ai tempi nostri, i relativisti fanno leva sull’esistenza in certi Paesi di pratiche anti-egualitarie, quali la poligamia, per asserire la non universalità del valore della pari dignità tra i generi. Ma questa analisi fallisce di prendere in considerazione tante altre pratiche che in realtà confermano, invece che negare, il comune riconoscimento della pari dignità tra i generi.
Negli stessi Paesi in cui è permessa la poligamia (per esempio l’Algeria), le donne occupano dei posti istituzionali di grande prestigio, e vengono loro affidati compiti che richiedono grande responsabilità e spirito critico. Molti avvocati e giudici sono donne, così come ci sono anche donne ministro nel governo algerino.
In secondo luogo, se si va a scavare nella storia, si può costatare come originariamente lo stesso istituto della poligamia (che ammette la possibilità di sposare fino a un massimo di 4 mogli) ha avuto proprio il ruolo di difendere la pari dignità tra uomo e donna, in un mondo ove gli uomini usavano ammogliarsi a un indefinito numero di donne, senza alcun obbligo di cura nei loro confronti.
Con questo non si vuole naturalmente dire che la poligamia sia un istituto giusto (in senso assoluto). Esso costituisce piuttosto una manifestazione od un riconoscimento parziale, imperfetto, della pari dignità uomo-donna (che contrasta, come dicevo, con altre pratiche già diffuse nella stessa cultura poligamica).
Contro il relativismo
Per facilitare il graduale e lento processo di disvelamento della legge naturale, di cui parlavamo prima, sono almeno due gli strumenti che abbiamo a disposizione: da una parte il dialogo interculturale, dall’altra l’osservazione «non ideologica», priva di «pregiudizi» delle realtà umane. In entrambi i casi, non si tratta di fare conoscere i precetti della legge naturale, in modo deduttivo, così come si fa per i teoremi della geometria o per le verità logiche. I precetti comuni della legge naturale, infatti, sono naturali proprio in quanto innati: l’uomo non li crea, non li «deduce», ma li scopre dentro di sé, o nelle creazioni della propria coscienza (16).
Nel dialogo, allora, si potrà fare emergere «la legge di cui in un certo senso l’uomo già partecipa», a partire da valori o verità che sono ammesse dal proprio interlocutore (17). Questo è il metodo adottato da Socrate nel Filebo di Platone, Nel Filebo, Platone immagina un dialogo tra Socrate e Protarco, un giovane seguace dell’edonismo, secondo il quale il valore massimo della vita starebbe nel godere dei piaceri, piuttosto che nel vivere una vita regolata dalla ragione. In questo dialogo, Socrate, molto sapientemente, dimostra a Protarco quanto la virtù del sapersi godere la vita (da lui percepita come importante) necessiti della capacità «raziocinante» di calcolare e prevedere la quantità dei piaceri (18).
Non riconoscere questa virtù vorrebbe dire negare al contempo la possibilità di vivere una vita edonistica. Nel nostro dialogo con il relativista, per ritornare al nostro tema, si tratta di evidenziare le contraddizioni in cui egli cade quando, per esempio negando che non esistano verità comuni e universali, assegna tuttavia valenza universale alla propria verità che «non esistono verità comuni». E, dunque, in un certo senso, nega implicitamente gli assunti del relativismo.
Nel dialogo con il musulmano, invece, si tratta di evidenziare quanto le pratiche poligamiche, o altre pratiche di sottomissione della donna all’uomo, in àmbito privato, familiare, contrastino con il pieno riconoscimento della dignità della donna, in àmbito pubblico.
Al metodo dialettico ora citato, può essere poi affiancato il metodo fenomenologico, che risale a Husserl. Metodo che si basa sull’analisi «non-ideologica», priva di pregiudizi, della realtà: giuridica, o umana in senso lato.
Questa è la strada imboccata, per esempio, da C.S. Lewis, nel breve saggio L’Abolizione dell’Uomo, ma anche da Maritain, in Nove lezioni sulla legge naturale, o da Sergio Cotta, in Il diritto in prospettiva onto-fenomenologica. Questi autori non prendono solo in considerazione la realtà del pluralismo dei costumi o del politeismo dei valori (come fanno i relativisti), ma anche la realtà degli istituti giuridici comuni (come per esempio il divieto dell’incesto o del cannibalismo) (19).
La stessa Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo può essere annoverata tra le realtà condivise che manifestano l’esistenza di princìpi universali di giustizia. Come scrive Maritain, infatti, il soggetto non potrebbe essere considerato universalmente detentore di diritti, se non esistesse la legge naturale che ingiunge di rispettare la dignità della vita umana in tutte le sue sfaccettature (20).
Universalità, non univocità
Va infine sottolineato che l’universalità della legge naturale non implica l’uniformità della sua applicazione. Spetta a ogni cultura dare contenuto ai princìpi universali nei limiti consentiti dal comune rispetto della dignità umana. Così come esistono diverse forme, tutte legittime, di manifestare l’amicizia, ci possono essere tante forme legittime di rispettare la dignità della vita umana (che è uno dei princìpi fondamentali della legge naturale) (21).
Confondendo l’universalità della legge naturale con l’univocità delle sue espressioni culturali, si cade nell’errore opposto a quello del relativismo. Si adotta, cioè, un universalismo «etnocentrico» insensibile alle differenze, complice di quel processo di globalizzazione distruttivo, in base al quale l’ideale è che «ce ne andiamo tutti insieme da McDonald’s» (22). Seguendo questo modo di ragionare, tutte le differenze culturali o religiose dovrebbero essere bandite, anche quando non ledono minimamente la dignità dell’uomo.
Note
1) P. Orezzi, Sophie Scholl e la Rosa Bianca, Morcelliana, 2003, p. 186.
3) Aristotele, Etica Nicomachea, 1134b, 19-21.
4) «Discorso di Sua Santità Benedetto XVI ai Membri della Commissione Teologica Internazionale», 5 ott. 2007, p. 2.
5) G. De Rosa, Il relativismo moderno, in «La Civiltà Cattolica», 17 settembre 2005, p. 1.
6) Secondo la filosofia dell’immanenza, tutto è immanente all’uomo, alla sua storia. Non esiste nulla che trascenda l’uomo o, comunque, la mente umana è necessariamente rivolta al contingente, che è di per sé in continuo divenire. G. De Rosa, Il relativismo moderno, cit., p. 4; J. Królikowski, Dialogo con le culture. Attualità e criterì alla luce della Fìdes et Ratio, in «Annales Teologici» 15, 2001, p. 171.
7) J. Ratzinger, Omelia della Messa Proeligendo Romano Pontifice (18 aprile 2003).
8) G. Samek Lodovici, La dittatura del relativismo, in «il Timone», n. 46 (2005), pp. 32-33.
9) G. De Rosa, Il relativismo moderno, cit., p. 3.
10) A. Shachar, Multicultural Jurisdictions. Cultural Differences and Women’ s Rights, Cambridge University Press, 2001.
11) D.L. Coleman, Indìvidualizing Justice through Multiculturalim: The Liberate’ Dilemma, in «Columbia Law Review», 1996.
12) S. Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nell’era globale, II Mulino, p. 123.
13) C. Cardia, Le sfide della laicità. Etica, multiculturalismo, islam, San Paolo, 2007, pp. 185-186.
14) J. Maritain, I diritti dell’uomo e la legge naturale, cit., pp. 57-59.
15) F. D’Agostino, Lezioni di filosofia del Diritto, Giappichelli, 2006, p. 257.
16) J.1 Maritain, I diritti dell’uomo e la legge naturale, cit., p. 163.
17) J. Krolikowski, Dialogo con le culture. Attualità e criteri alla luce della Fìdes et Ratio, in «Annales Teologici» 15 (2001), p. 178.
18) M.C. Nussbaum, Aristotle on human nature and the foundations of ethics, in J.E.J. Altham – R. Harrison, World Mina and Ethics, Cambridge University Press, 1995, pp. 98-100, 117.
19) J. Maritain, Nove lezioni sulla legge naturale, Jaca Book, 1985, pp. 185-202; R,D’Agostino, Lezioni di Filosofia del Diritto, cit., pp. 260-261.
20) J. Maritain, I diritti dell ‘uomo e la legge naturale, cit., p. 60.
21) Giovanni Paolo II, Dialogo tra le culture per una civiltà dell’amore e della pace, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, 1 gennaio 2001.
22) M.C. Nussbaum, Diventare persone. Donne e universalità dei diritti, II Mulino, Bologna 2001, p. 46.