Aldo Ciappi (Scienza&Vita)
Come vorrei anch’io poter aderire all’esultanza del relatore (Di Virgilio -PDL) della proposta di legge sulle D.A.T. di imminente approvazione con modifiche alla Camera dei Deputati e rinvio al Senato per la definitiva conferma, nell’intervista su Avvenire di lunedì! Ma non ci riesco.
La maggior parte del mondo cattolico, ma anche esponenti di altre culture anch’essi, dopo aver dovuto assistere inermi alla condanna a morte per sete e fame di Eluana Englaro, animati dal desiderio di scongiurare altri casi del genere, hanno finito per cadere nel tranello loro teso proprio dalla navigata rete radicale, formata da giuristi, intellettuali, magistrati ecc., i quali, pur restando infima ma agguerrita minoranza, passo dopo passo sta portando l’Italia al livello del peggiore relativismo etico e giuridico di paesi come l’Olanda, il Belgio, il Regno Unito, da tempo avviati verso la piena legalizzazione dell’eutanasia.
E’ avvilente constatare come l’esperienza recentissima della demolizione per via giurisprudenziale della L. 40/04 sulla procreazione artificiale – una legge, si badi bene, in qualche maniera resasi necessaria in assenza di qualsiasi precedente regolamentazione della materia – non abbia insegnato niente ai rappresentanti politici (e, purtroppo ma lo devo dire, anche a certo clero) che si richiamano ai principi della difesa della vita senza se e senza ma.
Infatti, la sentenza che aprì all’uccisione di Eluana rappresenta un precedente, pur molto grave, in questa materia tuttavia non in grado di scalfire norme giuridiche solide come quella che punisce l’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.). Si è trattato cioè di un (gravissimo) errore giudiziario che non va oltre il caso concreto. Vi sono, infatti, molte sentenze della stessa Cassazione che ribadiscono principi contrari per cui, p. es., che il consenso, o il dissenso, informato a determinati trattamenti sanitari deve essere sempre attuale e mai tratto (come nel caso di Eluana) da elementi presuntivi, o che non si può “aiutare” le persone che chiedono di essere uccise.
Ciò che invece si va ad introdurre con la nuova legge è il principio, in sè molto rischioso, di riconoscere una qualche validità, seppure circostanziata, a dichiarazioni, positive o negative, relative ad ipotetici trattamenti sanitari rese da soggetti di regola non dotati di particolari competenze e in normali condizioni di salute per l’ eventualità, futura ed incerta, in cui essi, venissero a trovarsi in uno stato di incapacità di esprimere tale consenso o dissenso.
Rischioso perché non vi è alcuna certezza che ciò che si dichiara oggi corrisponda alla propria effettiva volontà nel momento in cui si avverasse la condizione. Ci sono casi noti all’esperienza clinica (cfr: http://www.webmm.ahrq.gov/case.aspx?caseID=25) di persone che essendo scampate per puro caso alle proprie D.A.T. hanno dichiarato che non le avrebbero mai scritte se avessero potuto rappresentarsi correttamente la situazione concreta in cui si sono in seguito trovati.
La nuova legge sulle D.A.T. (di cui nessuno sentiva veramente il bisogno) servirà soltanto come tiro al bersaglio da parte della ormai ben nota schiera di magistrati per demolirne, come già avvenuto per la L. 40, gli aspetti inevitabilmente contraddittori di essa (da una parte si vorrebbe ristabilire la sacralità della vita, anche la più debole, ma dall’altra si afferma il diritto, sebbene circoscritto, all’autonomia soggettiva del paziente contro un presunto accanimento terapeutico posto in essere da parte della classe medica, di cui, tuttavia, non si riesce pressoché a trovare traccia nella prassi) per far prevalere, alla fine, il secondo, ossia il principio dell’autodeterminazione sopra ogni altro fino all’estrema, coerente conseguenza rappresentata dal “diritto” al suicidio e, dunque, alla legittima soppressione dei malati che “chiedono” (!?) di essere eliminati.