Il ritorno a una corretta definizione del rapporto tra aggressione e difesa implica che sia riguadagnato un appropriato concetto antropologico dell’uomo, come soggetto attivo di moralità e di giuridicità, e non semplice destinatario passivo delle norme penali.
di Mauro Ronco
(Ordinario di diritto penale Università degli studi di Padova)
Quando l’autore dell’assalto criminale riporti ferite o addirittura venga ucciso, il cittadino che si è difeso è immediatamente sottoposto a indagini per il delitto di lesioni o di omicidio volontario e il suo nome viene iscritto nel registro degli indagati. Inizia un procedimento che si sviluppa nei tempi, nei modi e secondo le procedure di ogni processo penale. Le vicende giudiziarie così aperte si chiudono talora con un provvedimento di archiviazione.
Un numero non irrilevante di casi, però, trova soluzione soltanto a conclusione di un itinerario più tormentato, in cui la vittima è costretta a difendersi in giudizio dall’accusa di omicidio volontario o di lesioni gravi. Spesso l’imputato viene assolto, sul rilievo che ha agito nell’esercizio di una facoltà legittima; talora, invece, è condannato a titolo di omicidio o lesioni colpose per avere ecceduto nella difesa. Una trafila processuale analoga subiscono in non rare occasioni gli esponenti delle forze dell’ordine, quando, operando nell’esercizio delle loro funzioni, abbiano ferito o ucciso il rapinatore o il ladro colto nella flagranza o quasi/flagranza del delitto.
Ribellarsi contro la parificazione di trattamento, all’inizio delle indagini preliminari, tra aggressore e difensore, non significa misconoscere il diritto/dovere di sottoporre al controllo di legalità anche il comportamento di colui che si è difeso dall’aggressione altrui. In tale contegno possono infatti annidarsi eccessi e patologie e, dunque, momenti di ingiustizia. Ma è incongruo che profili meramente ipotetici di antigiuridicità vengano, in assenza di concreti e precisi indicatori, utilizzati allo scopo di vanificare, nell’immediata considerazione giuridica, la differenza qualitativa tra i due tipi di condotte. Ciò determina nell’opinione pubblica un sentimento di sospetto verso il diritto di difendersi contro l’aggressore, contrastante con una equilibrata visione della giustizia penale.
Non v’è dubbio che nel diritto vivente si è affievolito il ruolo della legittima difesa, pur essendo rimasto invariato il dato giuridico formale. Per comprenderne le cause, è opportuno considerare che l’attuazione delle norme giuridiche è influenzata dai modelli antrolopogici in ordine al fondamento della dignità pertinente alla persona umana. Il diritto alla legittima difesa esprime un’idea nobile dell’uomo, come ente intrinsecamente capace di giustizia, portatore di un valore attivo, inteso alla realizzazione della giustizia nella società.
Esemplare è l’insegnamento di Rudolph von Jhering in ordine all’origine dell’antico jus romano. Il diritto non nasce dallo Stato come regola oggettiva posta autoritativamente dal sovrano, bensì dalla inclinazione virtuosa alla giustizia insita in ogni singolo uomo. Colui che difende il proprio o altrui diritto è latore non soltanto di un interesse individuale, ma anche di un valore generale, che lo pone in comunione con tutti gli altri, perché, difendendo il diritto particolare, egli contribuisce altresì a conservare il bene superiore della giustizia.
E anche se è vero che, per meglio garantire la pace sociale, la comunità politica riserva ordinariamente a sé l’esercizio della potestà punitiva, sottraendola alla disponibilità dei singoli, non è men vero che, quando è assente la possibilità di ricorrere allo Stato, ogni persona è legittimata ad agire in difesa del proprio e dell’altrui diritto.
Questa idea attiva ed energica dell’uomo, centro di moralità e di giuridicità, è oggi quasi completamente sfumata a favore dell’idea per cui l’uomo sarebbe esclusivamente portatore di interessi economici o, al massimo, di utilità attinenti alla sfera fisico-emozionale. Questo tipo di uomo è mero destinatario della norma creata dal sovrano; e anche se egli partecipa, in tesi, almeno nei regimi democratici, alla creazione della legge, ciò fa in quanto componente del corpo elettorale. Egli non partecipa, però, realmente, alla creazione del diritto, in virtù dei suoi comportamenti concreti, mosso dall’inclinazione buona a realizzare la res iusta.
L’idea impoverita di uomo che si è venuta affermando nell’universo giuridico impedisce la valutazione appropriata dell’importanza cruciale della legittima difesa nell’ordinamento. La precomprensione ermeneutica positiva che l’idea nobile dell’uomo dovrebbe indurre a formulare nei riguardi del comportamento tenuto in difesa dello iustum lascia il posto a una precomprensione di segno opposto, evocante un apprezzamento negativo verso il contegno che, rivolto a difendersi, ha provocato oggettivamente un danno.
Né va trascurata, a riguardo della precomprensione della cifra espressa rispettivamente dalle due condotte contrapposte, la diffusione, in dipendenza di ormai desuete ideologie, che pure ancora operano nella sfera psichica inconscia di molti, di un atteggiamento di tolleranza verso il contegno deviante serbato dall’offensore, visto non come consapevole violatore della pacifica convivenza civile, bensì come vittima incolpevole di una società tendenzialmente oppressiva. Sì che, non appena l’offensore esce soccombente dallo scontro scaturito dalla sua volontà di ingiustizia, scatta una reazione psico-sociale, alimentata irrazionalisticamente dai mezzi di comunicazione di massa, che inverte il ruolo delle parti e induce a ravvisare nello scacco dell’aggressore non la conseguenza appropriata di un contegno nichilista, bensì l’effetto di un bisogno prevaricante di sicurezza della parte forte del conflitto sociale.
Un altro rilevante fattore di corrosione del diritto alla legittima difesa riguarda specificamente la tutela dei diritti patrimoniali. La dottrina penalistica, che ha influenzato ampiamente la giurisprudenza, ha progressivamente delegittimato, nel corso degli ultimi trenta anni, la tutela penale del patrimonio su due distinti versanti, del soggetto offensore e del bene oggetto di tutela.
Sul primo terreno si è guardato con benignità al soggetto che la sociologia criminale qualifica appartenente alla categoria della microcriminalità. Costui, pur delinquendo incessantemente contro il diritto di proprietà, sarebbe soltanto blandamente colpevole, perché non agirebbe per un disegno di accumulazione capitalistica, limitandosi a protrarre indefinitamente uno stile di vita asociale.
Egli dovrebbe, pertanto, attirare su di sé una reazione di tipo non punitivo, bensì comprensivo. Nei suoi confronti dovrebbe applicarsi una terapia di mantenimento che, evitandogli la restrizione della libertà, valga a garantirgli lo status di deviante, sottoposto al controllo tollerante dei servizi sociali. I cittadini dovrebbero imparare a convivere con i suoi comportamenti asociali.
Sul versante relativo al patrimonio, si è diffusa una nozione di tipo dinamico/funzionale, al posto di quella tradizionale in senso statico/strutturale. La mutazione imporrebbe la fuoriuscita dalla tutela penalistica tutte le volte in cui l’offesa sia diretta esclusivamente contro gli oggetti economici in quanto attribuiti a un soggetto determinato. La tutela si giustificherebbe soltanto quando sia lesa, insieme con la proprietà individuale, altresì la sfera di libertà della vittima e la sua potenzialità di sviluppo come soggetto socialmente utile.
Ciò ha provocato pesanti ricadute sulla ridefinizione degli estremi della legittima difesa nella concreta applicazione a tutela dei beni economici. Quest’ultima presenta al suo centro il requisito della proporzione tra l’offesa ingiusta e la reazione difensiva. Nel fuoco del giudizio di bilanciamento, previsto all’articolo 52 del codice penale, cadono non soltanto i beni in conflitto, ma altresì le condotte in contrasto tra loro.
La condotta reattiva è di valore qualitativamente superiore a quella offensiva, perché realizzata, oltre che per la tutela di un bene particolare, altresì per garantire validità e stabilità all’ordine giuridico. La mentalità attualmente dominante ha offuscato questa realtà, imponendo una valutazione imperniata quasi esclusivamente sul rapporto tra il bene minacciato e il bene sacrificato dalla reazione difensiva.
Per un giudizio di questo genere, però, ogni reazione a difesa di un bene patrimoniale, che metta in pericolo l’incolumità o la vita dell’aggressore, rischia di essere vietata, atteso il rango superiore del bene personale rispetto al bene patrimoniale. Tale soluzione, pur non essendosi ancora definitivamente affermata, costituisce, tuttavia, il limite verso cui tende la giurisprudenza dominante, in uno sforzo delimitativo che erode via via i margini di applicazione dell’antico istituto del moderamen inculpatae tutelae.
Contro la deriva descritta occorre considerare, sul piano dell’interpretazione sistematica, che la legge contempla la riferibilità della difesa legittima a ogni tipo di delitto, senza restrizione di sorta, a differenza della riferibilità dello stato di necessità ai soli diritti personalissimi.
La dottrina più autorevole riconosce che il giudizio di proporzione deve tener conto non dei beni in astratto, ma di essi in relazione a tutte le circostanze oggettive contingenti e quindi delle caratteristiche concrete dell’offesa, nonché dei mezzi a disposizione della vittima per contrastarla (Mario Romano, Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 1995, 524).
Il punto cruciale del giudizio di proporzione è la focalizzazione, alla luce del testo normativo e della ratio intrinseca cui risponde l’istituto della legittima difesa, dei termini da porre in confronto. Se la proporzione corresse tra i beni, astrattamente considerati a priori come di rango diverso, e non tra le condotte considerate nella loro dimensione qualitativa, la difesa a tutela dei beni patrimoniali non sarebbe mai legittima, in contrasto con ciò che prescrive il disposto normativo.
Il requisito della proporzione postula che il sacrificio imposto all’aggressore non sia superiore a quello necessario per l’impedimento dell’ingiustizia, secondo un giudizio obiettivo condotto alla stregua dell’id quod plerumque accidit. Se la ratio dell’istituto difensivo sta nell’esigenza che il diritto non soccomba all’ingiustizia, la proporzione corre tra il sacrificio recato all’offensore con la difesa concreta e il sacrificio normalmente necessario, con riferimento a quel tipo di condotta offensiva, a vincere l’aggressione. Se il primo è superiore, la difesa è sproporzionata, in quanto contenente un’eccedenza rispetto all’ingiustizia dell’offesa.
Sul piano operativo, il ritorno a una corretta definizione del rapporto tra aggressione e difesa implica che sia riguadagnato un appropriato concetto antropologico dell’uomo, come soggetto attivo di moralità e di giuridicità, e non semplice destinatario passivo delle norme penali, perché il diritto, per poter costituire strumento efficace di regolazione delle vicende umane, deve in precedenza imporsi come modello vivente nella coscienza dei cittadini e dei giudici che applicano la legge.
Ciò non toglie che possano essere utili interventi legislativi volti a precisare l’effettiva portata della legittima difesa. Spetta anche al legislatore rimarcare, contro scelte giurisprudenziali corrosive, il primato della difesa legittima contro l’ingiusta aggressione, soprattutto allorché l’aggressore ha dimostrato concretamente di voler acquisire l’ingiusto profitto patrimoniale pure a costo di provocare danno alla sfera personale della vittima.