Studi Cattolici n.653-654 luglio-agosto 2015
di Matteo Andolfo
Domandarsi se l’embrione sia qualcosa o qualcuno non dovrebbe interessare solo gli antiabortisti, che necessitano di dare alla propria posizione un adegualo fondamento filosofico, scientifico e giuridico, ma tutti gli uomini, nessuno escluso. Per comprenderlo basta pensare che l’interrogativo è così riformulabile: quando ho iniziato a esistere? Da quando sono diventato una persona umana?
È evidente che dalla risposta a questa domanda dipende la disamina dei diritti che mi spettano in quanto persona. Il tema dell’identità individuale dell’embrione umano è oggetto di vivace discussione non solo tra gli specialisti di biologia e di bioetica, ma anche da parte dell’opinione pubblica all’interno del dibattito, fortunatamente sempre vivo in Italia, sull’aborto (la legge 194), sulla fecondazione extracorporea, sulle diagnosi prenatali (la legge 40) e sulla clonazione.
Recentemente è stato pubblicato uno studio di padre Giorgio Mariti Carbone, domenicano, docente di Bioetica alla Facoltà di Teologia di Bologna, il quale, attraverso un’esposizione che cerca di essere quanto più agile e chiara e nel contempo precisa e completa, ricerca la risposta a tale domanda muovendosi con competenza multi e interdisciplinare su tre piani: scientifico, filosofico e giuridico. Il libro si intitola: L’embrione umano. Qualcosa o qualcuno? (ESD, Bologna 2014. pp. 128, euro 10). Siccome si tratta di tematiche che, da un lato, richiedono una preparazione non superficiale nei tre ambiti suddetti per poter essere affrontate con rigore e oggettività, ma che, dall’altro si prestano facilmente a essere ricondotte in modo semplicistico a prese di posizioni pregiudiziali, è importante poter fare riferimento a testi affidabili che suppliscano la mancanza, nei più, di tale formazione specialistica.
La lettura filosofica dei dati della scienza
In primo luogo, l’autore ripercorre il processo di fecondazione nelle sue diverse fasi biologiche, della durata complessiva di circa 12 ore, individuando nella sesta fase, in cui avviene la fusione del citoplasma (nucleo, mitocondri e centriolo) dello spermatozoo con quello dell’ovocita femminile, il salto qualitativo irreversibile da due sistemi cellulari indipendenti (i due gameti genitoriali) a un nuovo organismo della specie umana definito zigote o embrione unicellulare (come prova la sequenza del suo DNA che lo accomuna a tutti gli altri uomini e lo distingue dalle altre specie), che è morfologicamente, geneticamente e citologicamente differente dai gameti.
Quest’ultimo inizia una catena di attività molecolari e cellulari rivelando di essere intrinsecamente determinato a un preciso processo di sviluppo e di differenziazione finalisticamente orientati, in cui ogni stadio è totalmente dipendente da quello precedente, senza soluzione di continuità. Infatti, il corredo cromosomico o genoma o genotipo dello zigote è totalmente distinto da quello dei genitori e conserverà la propria singolarità genetica nelle successive fasi del suo sviluppo sia prima sia dopo la nascita.
Ciò significa che tale corredo, sorto con la sesta fase, funge da disegno-progetto che contiene tutta l’informazione essenziale per lo sviluppo dello zigote e ne dirige tutte le funzioni vitali, ossia l’embrione unicellulare non si comporta come un mero aggregato di cellule (per esempio un grumo di sangue), ma come il primo stadio ilei ciclo vitale di un individuo, nel nostro caso umano, anche se non ha ancora l’attività cerebrale. In secondo luogo. Carbone interpreta questi dati biologici sul piano dell’antropologia filosofica rispondendo alle obiezioni di ehi nega che l’embrione sia un individuo umano nonostante il suo nuovo patrimonio genetico e il suo svilupparsi conformemente a questo mediante attività chimico-molecolari strettamente coordinate e continue che esigono l’unità e unicità del soggetto che si sta sviluppando.
L’embrione non sarebbe un individuo, sostengono alcuni, perché le cellule embrionali sono totipotenti e permettono la scissione dall’embrione di un embrione gemello monozigote, che è un nuovo individuo. Chi asserisce questo trascura, però, il fatto che il distacco dell’embrione gemello non muta l’identità fisica, organismica, biologica e ontologica di quello originario e semmai ne conferma il carattere di organismo vivente in grado di riprodursi per gemmazione. E’ vero che senza l’annidamento dell’embrione nell’utero (tra il sesto e il quattordicesimo giorno dopo la fecondazione), l’individuo non sopravvive, ma non bisogna confondere una condizione indispensabile alla sopravvivenza dell’embrione già costituito (così come lo è l’alimentazione nel caso del neonato) – che perciò non incide sul suo status di essere umano (si è uomini in qualsiasi luogo si viva) – con la condizione del formarsi di un individuo.
C’è chi collega l’individualità all’attività cerebrale (che compare nell’ottava settimana), dato che la morte dell’individuo è connessa alla morte cerebrale, ma in tal modo si dimentica che la nascita cerebrale consiste in un incremento graduale e progressivo dell’interazione neurologica, connessa alla comparsa del sistema nervoso centrale, che è programmata e guidata sempre dall’embrione stesso in quanto potenzialità già inscritta nello zigote, mentre la morte cerebrale è la cessazione irreversibile dell’unità morfologica e funzionale coordinata dell’organismo. Non si può comparare la differenziazione delle strutture cerebrali quale parte integrante di un processo dinamico unitario di sviluppo del soggetto umano con la disintegrazione dell’individuo.
Alcuni studiosi sostengono, invece, che l’embrione è uomo solo in potenza e che perciò apparterrebbe a una categoria intermedia tra le cose e gli individui umani, godendo di minore dignità rispetto a questi ultimi. Il loro errore, rileva Carbone, consiste nel confondere la potenzialità attiva intrinseca all’embrione, ossia la sua capacità di svilupparsi, con la potenzialità del suo essere individuale. L’embrione ha già il patrimonio genetico di 46 cromosomi che caratterizza indiscutibilmente la specie umana, sicché il suo essere individuale (il suo essere uomo) è già in atto e pertanto gode degli stessi diritti dell’uomo appena nato. Mentre una statua è solamente in potenza in un blocco di marmo, poiché quest’ultimo resta inerte se una causa estrinseca non trae da esso la statua, l’embrione è causa intrinseca del proprio sviluppo, ossia ha in sé in atto il potere di l’arsi passare dalla potenza all’atto.
Altri studiosi considerano l’embrione un individuo della specie umana, ma non una persona in quanto ancora incapace di esercitare le funzioni umane superiori. Si tratta di un concetto funzionalista di persona, che ne limita l’attribuzione solo a chi esercita le funzioni superiori (razionalità, memoria, giudizio morale ecc.), ma lo stesso Comitato nazionale per la Bioetica nel 1996 «ha riconosciuto all’unanimità che individuo umano e persona umana sono concetti che si identificano e ha scartato le varie concezioni funzionaliste della persona umana proprio perché introducono di fatto, surrettiziamente, la legittimità di una discriminazione fra gli esseri umani, sulla base del possesso di certe capacità o funzioni» (p. 58).
L’individuo è un’unità ontologica
La massima parte di queste obiezioni si fonda, rileva Carbone, su una concezione semplicistica dell’individualità: essa non è sinonimo di indivisibilità, perché anche l’individuo adulto, in quanto corporeo, è divisibile, né di mera unità numerica e neanche di mera identità genetica (del genotipo), che è solo una nota individuante, effetto dell’individuazione. Non solo occorre riconoscere costitutivo dell’individuo umano anche il fenotipo, che ne manifesta il genoma e che proprio nel caso dei gemelli monozigoti, aventi il medesimo DNA, permette di distinguerli in quanto l’uno ha cellule, tessuti e organi inconfondibili con quelli dell’altro gemello, ma si deve riconoscere che l’individuo è un’unità ontologica e perciò è una nozione primariamente filosofica anziché biologica.
Si giunge, così, a quello che io considero il «cuore» del libro, in cui si richiama come la definizione filosofica di persona sia in ragione di quello che essa è, ossia di membro della specie umana. Solo su questa base ontologica, secondo cui ogni essere umano è persona, diviene evidente l’errore delle tesi funzionaliste, che confondono le facoltà o atti primi (secondo la terminologia aristotelica) della persona con quest’ultima nella sua sussistenza ipostatica o sostanziale e con la sua natura-essenza, e riceve piena giustificazione il tanto declamato principio di uguaglianza tra gli esseri umani con l’annessa titolarità dei diritti inalienabili, tra i quali, è bene non dimenticarlo, vi è quello alla vita. Inoltre, trattandosi di concezioni filosofiche, ossia conseguibili con la sola ragione, cade anche l’opzione semplicistica di metterle da parte in quanto scaturenti dalla fede in una religione rivelata non accolta da tutti.
Dato che l’antropologia filosofica a cui l’autore si riferisce è quella aristotelico-tomista, che concepisce l’anima quale principio formale animante la corporeità, Carbone si sofferma su una teoria sostenuta proprio da Aristotele e da Tommaso d’Aquino: quella animazione ritardata o successiva, secondo cui l’anima razionale verrebbe infusa nel coipo soltanto quando quest’ultimo è sufficientemente organizzato, mentre prima sarebbero presenti solo l’anima vegetativa (al momento della fecondazione) e poi quella sensitiva. Tuttavia, Carbone osserva come i due filosofi suddetti affermino che l’anima umana è una sola, quella razionale, che esercita anche le funzioni sensitivo-vegetative, e che essa è forma sostanziale del corpo, ossia è il principio che determina e struttura il corpo vivente (nozione eminentemente filosofica senza connotati religiosi).
Infatti, queste tesi conducono direttamente a sostenere l’animazione immediata dell’embrione, che è e vive in ragione della sua unica anima, quella razionale. Ora, mentre il concetto di forma sostanziale è ontologico, quello di animazione ritardata dipende dalle evidenze scientifico-sperimentali possibili nelle epoche dei due pensatori, sicché, mentre il primo mantiene il suo valore, il secondo é superato dalle attuali evidenze scientifiche.
L’ultima sezione del libro studia se il concepito possa essere titolare di diritti non in astratto, ma in riferimento agli ordinamenti giuridici sia italiani sia internazionali. A proposito dei primi Carbone rileva come il Codice Civile del 1942 abbia un’impostazione patrimonialistica (considera l’uomo soprattutto come titolare di diritti patrimoniali e commerciali), mentre la Costituzione della Repubblica del 1948 si ispira a una concezione personalista del diritto (considera l’uomo in quanto uomo), e pone in evidenza l’atteggiamento contraddittorio della Corte costituzionale che, da un lato, sottolinea come la discrezionalità del legislatore in materia di bioetica trovi dei limiti nei dati scientifici (così come in materia di costruzioni edilizie non può prescindere dalle leggi della statica), mentre, dall’altro, deroga a questo suo stesso richiamo quando si tratta dell’identità dell’essere umano di vita embrionale o fetale.
Riguardo ai secondi (raccomandazioni, risoluzioni, dichiarazioni e convenzioni sia internazionali sia europee) Carbone rileva come le loro determinazioni siano incoraggianti, ma ancora insufficienti, anche perché non basta l’intervento legislativo, bensì ci vuole un «cambiamento di civiltà» (p. 116): bisogna educare le coscienze al rispetto assoluto della dignità umana attraverso l’assunzione di uno «sguardo contemplativo» sulla realtà quale antidoto a considerare tutte cerne un mero artefatto producibile o trasformabile a piacimento.
Essere & persona
In conclusione, vorrei evidenziare che l’esame dell’aspetto giuridico della questione e delle basi biologiche obsolete della teoria dell’animazione ritardata inducono a cogliere come alla filosofia resti un ruolo imprescindibile: se la politica non può arbitrariamente stabilire quando inizi la vita e che cosa sia un embrione, ma deve riconoscere i risultati delle scienze sperimentali (biologia e medicina) competenti in proposito, il ritmo elevato di progresso di queste ultime, strutturalmente confutabili, dovrebbe indurre alla cautela e manifestare la necessità che sia la filosofia a interpretare razionalmente i dati offerti dalla scienza in tali àmbiti, tanto più in rapporto a temi così complessi, oltre che eticamente sensibili e socio-politicamente rilevanti.
Inoltre, la scienza si serve di nozioni (come quelle di individuo e di persona) che sono metascientifìche, perché riguardano l’essere dell’uomo, su cui proprio la filosofia, quale scienza dell’essere in quanto essere, ha competenza. Del resto, anche la filosofia parte dall’esperienza, pur considerandola nella prospettiva dell’essere, ossia dell’intero, sicché ha titolo a interpretare i dati scientifici mantenendosi fedele all’esperienza, tanto più qualora con questi si vogliano o debbano trarre conclusioni su questioni (come quella della definizione di individualità) anche filosofiche.
A questo stesso esito perviene la riflessione esposta nella miscellanea La vita e l‘essere. L ‘embrione: grumo di cellule o persona’? (Marcianum Press, Venezia 2013, pp. 128, euro 13), frutto del confronto tra vari studiosi, filosofi (Enrico Berti. Vittorio Possenti, Leopoldo Sandonà) e non (Giovanni Cappellari, Renzo Pecoraro, Remo Realdon): non è sufficiente la biologia a stabilire se l’embrione sia persona, perché è necessario riferirsi all’indagine sulla vita nella prospettiva dell’intero, ossia dell’antropologia filosofica nel suo nucleo metafisico. Infatti, la stessa esistenza di enti indipendenti da noi richiama la nozione dell’essere come intero di cui essi sono parte con noi.
Ciò significa che «il rapporto tra la persona e l’essere è fondativo dell’identificazione tra uomo e persona» (p. 18). Inoltre, l’esperienza che abbiamo della realtà implica la conoscenza immediata anche delle dimensioni metafisiche (l’esistenza, l’individualità sostanziale, la natura e le relazioni) degli enti percepiti dai sensi, ossia della struttura razionale, di senso, dell’esperienza che si offre alla comprensione umana. Questa si traduce nella determinazione delle cause delle realtà, sino alla Causa prima a cui rinvia il concetto di intero dell’essere, superando l’impostazione scientista che riduce la scienza alla mera verificabilità dei fatti empirici