Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân Newsletter n.716 del 27 giugno 2016
di Federico Cenci
La seconda metà del XIX secolo fu un periodo della storia turbolento. Dinanzi all’incedere del capitalismo, un ampio complesso di ideologie venne alla luce con l’intento di trasformare radicalmente la società. Il mondo cattolico fu investito dal flusso imponente del dinamismo sociale. Molti cattolici furono sedotti da sirene ideologiche che non avevano, tuttavia, lo scopo soltanto di correggere le ingiustizie sociali, bensì la pretesa di introdurre un’antropologia innovativa.
È in questo contesto che papa Leone XIII decise di promulgare l’enciclica Rerum Novarum. Era il 15 maggio 1891, 125 anni fa, quando con questo documento la Chiesa prende posizione in modo netto sui gravi problemi sociali del tempo, getta una luce di verità in un campo costellato di dubbi, si pone come guida delle coscienze.
Con la Rerum Novarum, il cattolico possiede finalmente una bussola da seguire per dirimere la confusione d’ordine sociale ed economico. Una “Magna Carta della Dottrina sociale della Chiesa che è ancora attuale”, per usare le parole di mons. Giampaolo Crepaldi, Arcivescovo di Trieste, che nella sua Diocesi guida una Scuola di Dottrina sociale della Chiesa per la Formazione all’impegno sociale e politico. Intervistato da ZENIT, mons. Crepaldi spiega la Rerum Novarum, il senso del dovere dei cattolici in politica, l’importanza della “militanza cattolica”, che moderne correnti teologiche che vorrebbero invece estinguere.
Eccellenza, in quale contesto storico viene promulgata laRerum Novarum?
Lo scopo della Rerum novarum non era solo di attrezzare i credenti ad affrontare le novità che la storia poneva loro davanti. Non è un elenco di sfide sociali, economiche o politiche, una specie di inventario delle cose da fare. L’enciclica di Leone XIII si inserisce nel complesso degli insegnamenti sociali di questo grande Papa. In un momento storico in cui la religione e la Chiesa venivano espulse dallo spazio pubblico, il Papa propose la Dottrina sociale come strumento per ridare a Dio il suo posto nella costruzione della società degli uomini.
Nella seconda metà dell’Ottocento gli Stati liberali – tali erano anche se le Costituzioni richiamavano espressamente l’origine divina dell’autorità politica – toglievano alla religione la materia matrimoniale, e quindi familiare, approvando il matrimonio civile e il divorzio, eliminavano dalla società civile tutte le forme di solidarietà gestite dalla Chiesa e animate dalla religione come le confraternite, le opere pie o le corporazioni, espellevano la religione dall’educazione chiudendo le scuole in mano alla Chiesa, concentrando l’istruzione pubblica nello Stato e animandola con una religione civile improntata al positivismo materialista. Si trattava di un progetto di secolarizzazione completa della società. La risposta di Leone XIII fu un insieme di documenti sociali, tra cui la Rerum novarum, tendenti a fornire il quadro dottrinale, etico e operativo per la resistenza e la ripresa.
Qual è l’attualità di questa Enciclica a 125 anni di distanza?
Certamente, il tema centrale della Rerum novarum è la questione operaia. Ma non dobbiamo ingannarci, quello che da ultimo stava a cuore a Leone XIII era che la Chiesa riconquistasse pienamente il proprio “statuto di cittadinanza” nella società e nella politica, come poi riconobbe, cento anni dopo, Giovanni Paolo II rileggendo l’enciclica leonina nella Centesimus annus. La Rerum novarum è stata definita la Magna Carta della Dottrina sociale della Chiesa. Essa ha il grande merito di aver costruito, in poche ed efficaci pagine, un quadro di pensiero e di azione che rimane insuperabile per chiarezza e lungimiranza. La famiglia, la società, i conflitti, il lavoro, il fisco, lo Stato, i corpi intermedi, i poveri, le associazioni di lavoratori, la carità cristiana, lo sciopero, la destinazione universale dei beni, l’uso dei beni materiali, il diritto di proprietà, la sussidiarietà, il bene comune, le virtù sociali e cristiane… nella Rerum novarum tutto è sistemato al suo posto in un quadro coerente.
In questo quadro si sono inserite le altre encicliche successive le quali, se è vero che hanno ampliato e sviluppato la Rerum novarum affrontando tanti temi che allora non erano percepiti, è altrettanto vero che l’hanno approfondita, non uscendo da essa, ma rimanendo al suo interno. Ecco perché è stata la Magna Carta e lo è tuttora. Tutto questo però va perduto se staccato dall’intento da cui sono partito. Leone XIII non esalta le cose nuove, ma lamenta che esse siano state adoperate per allontanare Dio dalla pubblica piazza. La Dottrina sociale della Chiesa doveva servire a correggere le tendenze in atto, non a sposarne le idee di fondo.
Leone XIII plaude all’associazionismo dei lavoratori, invitando tuttavia gli operai cattolici a creare associazioni di categoria proprie, per evitare di ingrossare le fila di “società rette da capi occulti”, nonché “pericolose per la religione”. Che valore assume, ancora oggi, questa indicazione?
Il valore di un monito e di una indicazione. I cattolici, quando si associano e si impegnano nella società, non possono collaborare con tutti, diversamente da quanto in genere si sostiene oggi. Ai nostri giorni prevale infatti l’idea che il cattolico debba aprirsi alla collaborazione generale, mentre invece, secondo Leone XIII, così facendo rischia di collaborare a finalità sbagliate, negative sia per l’uomo che per la religione cattolica. Non è sufficiente che una associazione persegua alcune finalità buone accanto ad altre cattive per meritare la collaborazione dei cattolici. Siccome non si può perseguire il bene facendo il male, il cattolico non può aderirvi, non potendo egli scorporare le finalità buone da quelle cattive e contribuendo quindi con la sua collaborazione e alle une e alle altre.
Sbagliano, dunque, quei cattolici che per iniziative nobili si trovano a braccetto con associazioni, Ong, partiti che perseguono anche obiettivi come aborto, eutanasia, gender, legalizzazione della droga..?
Faccio un esempio pratico. Nel campo dell’assistenza internazionale le Ong cattoliche si trovano a collaborare con altre Ong o con organismi e agenzie internazionali che non condividono la stessa antropologia. L’impegno per i diritti umani viene inteso da queste Ong anche come estensibile alla cosiddetta “salute riproduttiva”, che prevede sterilizzazione forzata e aborto. L’Onu ha associato il Consenso del Cairo, comprendente appunto la salute riproduttiva estesa anche al gender, al rinnovo degli obiettivi del Millennio per il periodo 2016-2030. Ciò significa che l’impegno per i diritti umani (accesso all’acqua potabile oppure accesso delle donne all’istruzione) sarà istituzionalmente collegato con la promozione dell’aborto, anche chimico: in questi casi si tratterebbe indifferentemente di promuovere dei diritti.
Si pone dunque il problema segnalato sopra: le Ong cattoliche possono collaborare? Ove il fine buono è scorporabile da quello cattivo sì, ma in altri casi no. Il cattolico è convinto che bisogna promuovere la parità di dignità tra uomo e donna, però non può collaborare con associazioni che stravolgono questo discorso con un femminismo ideologico o con l’ideologia del gender. Il cattolico sa di doversi impegnare nella lotta contro l’Aids, ma non aiutando associazioni che pensano di farlo distribuendo contraccettivi – compresi quelli cosiddetti di emergenza che possono risultare abortivi – facendo gli interessi dei grandi gruppi farmaceutici. L’antropologia cristiana non glielo permette.
È un problema, questo, che ravvede anche nel contesto politico?
Certo. È possibile per una associazione cattolica gestire un progetto di intervento sociale in convenzione con un Comune, ma se poi questo comporta di sostenere una giunta comunale che con le sue politiche distrugge la famiglia, la cosa diventa illecita. A quanto detto si può poi aggiungere un altro aspetto, oggi particolarmente evidente. I cristiani danno la loro collaborazione a tante iniziative di solidarietà e di umanesimo orizzontale senza portare il loro contributo per innalzarle al livello verticale e trascendente. È il caso della militanza cattolica per l’ambiente o per la pace, anche in collaborazione con altre organizzazioni che dell’ambiente danno una versione solo naturalistica e della pace danno una versione solo sociologica. Ci si chiede: i cattolici non dovrebbero collaborare? Bisogna dire che in certi casi l’impegno per l’ambiente e la pace è talmente carico di significati panteisti, naturalisti, animalisti, ideologici che la collaborazione risulta improponibile. In qualche caso essa è possibile, a patto che i cattolici non dimentichino di apportare la loro specificità. Per l’ecologia questa specificità consiste nel parlare non della natura ma del creato, per la pace questa specificità consiste nel dire che il mondo non se la può dare da sé.
Papa Pecci chiedeva inoltre ai lavoratori cattolici di “infondere speranza e facilità di ravvedimento a quegli operai ai quali o manca la fede o la buona condotta secondo la fede”. Un appello al proselitismo?
Nel passaggio della Rerum novarum da lei ricordato, Leone XIII presenta già la Dottrina sociale della Chiesa come “strumento di evangelizzazione”, come dirà poi Giovanni Paolo II. Certamente, non si tratta di fare proselitismo, ossia di scambiare la solidarietà sociale, che va data a tutti, con l’adesione alla religione cattolica, ma di dare testimonianza e di annunciare, anche all’interno dell’azione sociale, economica e politica, la fede cattolica in tutte le sue esigenze. Lavorare nella società solo per i cattolici, dare assistenza solo ai cattolici e indurre a farsi cattolico per usufruire di aiuti e benefici sarebbe una inaccettabile forma di proselitismo. Se una associazione cattolica che distribuisce pasti ai senza tetto lo facesse solo per chi si dichiarasse cattolico, sarebbe meschino proselitismo.
Aprirsi alla carità per tutti non vuol dire però censurarsi dall’esprimere la propria identità cattolica. Quella associazione che distribuisce pasti ai bisognosi non deve nascondere di essere cattolica e di farlo perché è cattolica, non deve tirar via dalle pareti i simboli cattolici e non deve tirarsi indietro, una volta stabilito un rapporto umano con i beneficiati, di fare loro anche la proposta cattolica, non come condizione per usufruire di servizi ma come frutto e sviluppo di un incontro.
Alla luce di questa sua considerazione, ritiene allora che il concetto di proselitismo venga oggi malinteso?
Pensare di influire sui costumi e le leggi di una società, sui provvedimenti e le scelte politiche viene interpretato spesso come proselitismo, nel tentativo di accaparrarsi fette di potere “cattolico” trasformando però la fede in ideologia. Più in generale ogni pretesa della Chiesa di portare al mondo una luce che non nasca dal mondo stesso si ritiene sia un proselitismo, non un annuncio, ma una conquista. Sappiamo però che così non è. Diffondere l’annuncio della liberazione di Cristo nel mondo non è indice di proselitismo ma di evangelizzazione, di cui la Dottrina sociale della Chiesa è strumento ed espressione.
I cosiddetti “corpi sociali intermedi”, promossi dalla Rerum novarum, sono oggi in pericolo?
Se la sua domanda si riferisce all’Italia, direi di sì. Questo è dovuto al fatto che il principio di sussidiarietà proposto dalla Dottrina sociale della Chiesa non è stato compreso bene e fino in fondo. Per esempio, quando negli anni scorsi è stato cambiato il titolo V della Costituzione proprio per far entrare la sussidiarietà nel testo costituzionale, si parlava di federalismo e di devolution. Il progetto fu quindi concepito per decentrare, trasferendo dallo Stato agli enti locali, soprattutto le regioni, alcune funzioni. Il processo corretto però era il contrario: non chiedersi cosa lo Stato avrebbe potuto decentrare (partendo quindi dallo Stato) ma chiedersi cosa possono fare i comuni e le regioni e, partendo dal basso e non dall’alto, ridefinire le funzioni di ogni livello. In questo modo i corpi intermedi sarebbero stati maggiormente valorizzati, tenendo sempre presente, tra l’altro, che la sussidiarietà non è solo quella verticale ma anche quella orizzontale, non solo delle istituzioni della repubblica ma anche dei corpi sociali attivi dentro la comunità.
A ottobre il popolo dovrà pronunciarsi con un referendum su una nuova riforma della Costituzione…
Questa riforma, al contrario di quella sull’articolo V, riaccentra molte funzioni nel governo centrale, togliendole alle regioni e soprattutto senza distinguere le regioni che si sono comportate in modo “virtuoso” da quelle che invece hanno alimentato sprechi e clientelismo. È in pratica lo stesso errore di allora rovesciato: allora si voleva decentrare ora si vuole riaccentrare, ma senza mai percorrere la strada corretta, ossia dal basso verso l’alto. Con la vecchia riforma costituzionale sono state devolute funzioni importanti alle regioni, funzioni legislative o nel campo della sanità per esempio, ma le regioni a loro volta si sono spesso trasformate in piccoli Stati, attuando un accentramento altrettanto forte. In altri casi si sono devolute competenze senza accertarsi che ci fossero le capacità e le condizioni per poterle esercitare. Con lo stesso pressapochismo oggi si riaccentra.
Quanto alla cosiddetta sussidiarietà orizzontale va lamentato che non c’è stata una valorizzazione dell’associazionismo familiare o cooperativo. Basti pensare, per esempio, a come il sistema scolastico sia ancora molto chiuso e fortemente dipendente dalle istituzioni, tramite le quali e in dispregio della partecipazione dei genitori, spesso vengono impartiti insegnamenti – si pensi alla questione gender – tanto sbagliati quanto imposti con pervicacia. C’è molto da fare perché i corpi intermedi vengano veramente valorizzati come chiedeva Leone XIII.
Nel suo libro A compromesso alcuno. Fede e politica dei principi non negoziabili, scrive che “nella mente di tanti cristiani” non esiste più il concetto di militanza cattolica. LaRerum Novarum è minata dunque a causa di una certa ritrosia del mondo cattolico a promuovere la dimensione pubblica della fede?
Il concetto di “militanza” sembra appartenere all’epoca delle ideologie e delle grandi contrapposizioni di paradigmi sociali che abbiamo vissuto ma che ora sono superate. Anche allora, però, i cattolici non combattevano tanto contro le ideologie o contro i paradigmi sociali del tempo quanto contro il male. Si opponevano al male e alla sua istituzionalizzazione politica tramite le leggi e le politiche appunto. Ora, le ideologie possono essere finite, almeno nella forma di macrovisioni della realtà che abbiamo conosciuto in passato, ma il male non è finito. Non è più portato avanti da eserciti di militanti, sotto bandiere e striscioni, con marce, simboli, adunanze oceaniche, stampa organica, gerarchie rigide e così via. Ma è ugualmente portato avanti. Sembra quasi che la fine delle ideologie dispensi i cattolici dall’impegno non tanto contro le ideologie quanto contro il male che in altre forme continua ad essere promosso. E, ciò che conta per il nostro discorso, che continua a venire istituzionalizzato in leggi e politiche.
Qui si inserisce il discorso della dimensione pubblica della fede. Molti la riducono ad una testimonianza personale con la quale i cristiani dovrebbero “animare” la società e la politica. Vivendo una vita spirituale personale religiosa intensa e autentica, i cattolici indirettamente animerebbero anche gli ambiti sociali della loro presenza, dal lavoro alla scuola, dalla famiglia alla politica. Ma questa è una concezione debole della dimensione pubblica della fede. Partendo da qui si capisce che il concetto di militanza sia messo da parte, sgradito perché ritenuto troppo invasivo e prepotente. Non ci sarebbero più mali da combattere ma solo beni da testimoniare personalmente.
Bisogna però chiedersi se le esigenze della dimensione pubblica della fede non siano anche altre. Il Concilio non si limita a chiedere ai laici una testimonianza personale di fede vissuta, ma chiede loro anche di ordinare a Dio le cose del mondo. Ordinare a Dio vuol dire ordinare al fine ultimo, perché il senso delle cose deriva loro dal fine cui sono ordinate e ciò vale anche per la società, la quale è ordinata sì all’uomo, ma non come fine ultimo, come tale essa è ordinata a Dio. Ordinare vuol dire mettere in ordine, disporre secondo un ordine. Questo ordine è quello della creazione ed è quello della ricapitolazione di tutte le cose in Cristo. Questo richiede non solo una testimonianza personale per essere “sale”, ma un impegno ad ordinare, anche con le leggi e le politiche, la comunità degli uomini a Dio. La Dottrina sociale della Chiesa è in fondo lo strumento per collaborare alla realizzazione del progetto di Dio nel mondo. In questo senso il concetto di “militanza” non è superato.
Ma ravvede la volontà di rendere vivo e concreto questo concetto?
Come ho già accennato, se partire dal progetto di Dio sull’uomo e sul mondo viene inteso come proselitismo, violenza, occupazione di spazi, lesione della laicità e dei diritti della secolarizzazione, allora l’atteggiamento cambia. Ci si limiterà ad una testimonianza personale in un mondo pluralista, senza più pretese di ordinamento e di militanza. Per alcuni teologi che non si rifanno ai presupposti filosofici e teologici a cui si rifaceva di Leone XIII, il mondo è il luogo in cui Dio si rivela nel cammino della storia dell’umanità a cui anche la Chiesa appartiene. Questa deve, quindi, stare pienamente nel mondo, imparare dal mondo, camminare insieme con tutti sapendo che in questa storia non ci è mai dato di vedere pienamente la verità.
Per questo motivo sparisce la stessa necessità espressa da Leone XIII di avere delle associazioni cattoliche a difesa della prospettiva cattolica considerata nella sua completezza e sparisce quindi anche il concetto di “militanza”. A ciò si aggiunge un altro elemento. Siccome ogni persona – si dice – è una realtà molto complessa e nessuna è completamente santa o peccatrice, bianca o nera, buona o cattiva, ci si deve accompagnare con tutti, discernendo nel dialogo le vie da seguire e le cose da fare. Credo che sia per questi due motivi che la militanza oggi viene intesa come atteggiamento settario e quindi inopportuno.