di Giovanni Sale s.i.
Il pontificata di Leone XIII è stato molto studiato dagli storici cattolici, sia perché in quegli anni di fine secolo avvennero, in ambito culturale, sociale ed economico, cambiamenti rilevanti, a cui il Pontefice non era insensibile, sia in occasione del centenario dell’enciclica Rerum Novarum (1891), che ha dato agli studiosi la possibilità di studiare sulle fonti il pensiero e l’opera di Papa Pecci sotto diversi punti di vista.
Nel secondo centenario della sua nascita (2 marzo 1810), ci pare interessante ritornare brevemente su alcuni aspetti non troppo approfonditi di quel lungo pontificato, in particolare sul pensiero di Leone XIII circa la questione dell’unità d’Italia, oggi molto dibattuta, e circa il concetto di democrazia cristiana, in riferimento all’organizzazione dei cattolici militanti.
Con l’elezione al soglio pontificio di Leone XIII, dopo il lungo pontificato di Pio IX, molti, anche tra i cattolici moderati, si attendevano un cambiamento dell’indirizzo politico della Santa Sede nei confronti del nuovo Stato unitario, che, dopo i fatti di Porta Pia, aveva scelto come capitale del Regno la città di Roma.
I «papalini», infatti, consideravano una vera e propria offesa alla persona del Pontefice e a tutto il mondo cattolico l’aver trasferito la capitale del nuovo Stato unitario — nato dalla rivoluzione liberale, figlia legittima, si diceva, di quella francese — nel luogo in cui il Vicario di Cristo fin dall’origine della Chiesa aveva esercitato la sua autorità spirituale su tutti i popoli cristiani (1).
Su tale delicata materia il nuovo Papa si diceva pronto ad abbandonare, almeno per il momento, i progetti «rivendicazionisti» (tesi a recuperare almeno una parte dello Stato della Chiesa), che trovavano convinti sostenitori tra gli intransigenti, e, come scrisse Edoardo Soderini, per giungere «a un accordo con i poteri civili, ma su basi che rispettassero quei limiti che egli riteneva imprescindibili nell’interesse della religione e che non erano né quelli della stampa cattolica intransigente, né quelli preconizzati dal p.Tosti o da monsignor Bonomelli» (2).
Il programma politico che Leone XIII intendeva portare avanti può essere sintetizzato in pochi punti: fermezza sui principi; attenzione alle nuove emergenze sociali, sulle quali soprattutto il laicato cattolico era chiamato a lavorare; nessuna insistenza su atteggiamenti di ostentata ostilità nei confronti del nuovo Stato italiano.
Ciò però non significava che il nuovo Papa volesse semplicemente abbandonare le posizioni tradizionali della Santa Sede in materia di potere temporale, tanto meno abrogare il Non expedit, come gli era chiesto da più parti; invece egli pensava di dare ad esso un contenuto nuovo, moderno, non meramente rivendicazionista, e di farne una «forza costruttiva, vicina al popolo e sensibile alle sue vitali esigenze» (3).
Secondo uno storico francese (4), la perdita del potere temporale avrebbe indotto Leone XIII a adoperarsi con tutte le forze per «sostituire» a un temporalismo «démodé di una sovranità politica» un «temporalismo sociale» più in linea con lo spirito dei tempi: il Papa insomma, invece di un «territorio pontificio», avrebbe cominciato a rivendicare alla sua autorità la guida dell’intero «movimento cattolico», che si era organizzato appunto per difendere i diritti inalienabili del Papato contro lo Stato «usurpatore».
Questo punto di vista, anche se sintetizza bene il nocciolo del problema, a nostro avviso non coglie in pieno la complessità della realtà storica che gli stava dietro. Infatti, se è vero che il nuovo pontefice Leone XIII, come ha scritto Sederini, desiderava un accordo con i poteri civili allo scopo di instaurare con essi rapporti più distesi e cordiali, è anche vero che tale accordo sarebbe dovuto avvenire sulla base di un assoluto rispetto dei diritti inalienabili della Santa Sede. Questo, cioè, non significava affatto che il nuovo Papa non intendesse più rivendicare il potere temporale, ma soltanto che egli, per motivi di opportunità politica, voleva semplicemente rinviare a un tempo imprecisato la soluzione «pratica» di questo problema (5).
In quel momento infatti la società civile era scossa da problemi urgenti, anzi gravi, sui quali la Chiesa si sentiva chiamata a intervenire: in primo luogo la «questione sociale», diventata con il passare degli anni grave e improrogabile, e con essa anche la «questione operaia», minacciosamente agitata in quegli anni dai socialisti, soprattutto nelle zone industriali. La Chiesa infatti non poteva disinteressarsi di questi problemi che coinvolgevano direttamente buona parte delle masse popolari tradizionalmente fedeli a lei e alla causa papale, rischiando così di perderle definitivamente.
Per questo motivo sotto Leone XIII si assistette a una parziale sostituzione, nella strategia politico-sociale da lui adottata, del primato della «questione romana» con quello della «questione sociale». In tal modo l’attacco anti-liberale (che coinvolgeva innanzitutto l’establishment borghese al potere), condotto dal Papa con le sue encicliche sociali e, in particolare, con la Rerum novarum, usciva una volta per tutte dall’alveo ideologico-dottrinale nel quale era cresciuto, e dentro al quale si era sviluppato ai tempi del pontificato di Pio IX, e si caricava progressivamente di contenuti sociali di più ampia portata (6)
In questo modo lo Stato liberale, insieme con la sua classe dirigente, diventava oggetto di contestazione non più soltanto per i suoi tratti scopertamente anticlericali e antireligiosi, bensì in quanto espressione di interessi economici antitetici a quelli delle masse popolari. Così, anche dietro lo stimolo delle nuove encicliche sociali di Leone XIII, il movimento integralista cattolico guadagnava quei tratti popolari e sociali che sotto il profilo storico rappresenta la grande novità del movimento cattolico nel suo insieme. Si trattò insomma, scrive Francesco Traniello, «di riqualificare l’ideologia guelfa e integralistica dell’intransigentismo temporalista in senso popolare e, a suo modo, democratico.
Tale riqualificazione si fondava sulla considerazione dell’ineluttabile convergenza delle istanze e degli interessi popolari, e talora più specificatamente proletari, con le istanze e gli interessi della Chiesa e del cattolicesimo» (7). In tal modo la rivendicazione dei legittimi e inalienabili diritti della Santa Sede diventava solamente una parte (peraltro non più prioritaria e, soprattutto, non più condizionante) di un più vasto e articolato programma di azione politica, che aveva, certo, come fine ultimo la soluzione definitiva della «questione romana», sottratta però a ogni pregiudiziale di carattere meramente temporalistico.
Il nuovo Pontefice, inoltre, in tema di impegno dei cattolici nelle realtà «temporali», aveva idee nuove, completamente diverse da quelle del suo Predecessore: egli innanzitutto non voleva un laicato cattolico trincerato su vecchie posizioni intransigenti-rivendicazioniste e ostinato in una sterile opposizione di principio contro tutto e tutti, ma un laicato maturo, disponibile a lottare per la libertà della Chiesa e per il Papa; pronto cioè ad assecondare il suo grandioso programma di reinserimento della Chiesa nel mondo contemporaneo e di adeguamento del cattolicesimo militante ai nuovi metodi di aggregazione e di intervento propri delle moderne società civili (8).
In altre parole, ciò che sostanzialmente il Papa voleva sopra ogni altra cosa era la costituzione di un laicato cattolico disciplinato, attento e sensibile alle direttive pontificie, e dunque pronto in ogni momento, sia nell’azione sociale sia in quella politica, ad assecondare i suoi grandi disegni di riconquista cristiana del mondo moderno (9).
Nelle elezioni politiche che si svolsero nell’estate del 1900 il Non expedit (inteso come Non licet), fu, a parte qualche sporadico caso, pienamente osservato dagli elettori cattolici. La Civiltà Cattolica, che dai tempi di Pio IX era «l’organo teorico per eccellenza dell’intransigentismo cattolico» (10), nella sua «Cronaca Contemporanea» annotava in proposito: «Grazie al ciclo nelle ultime elezioni generali la maggioranza dei cattolici in Italia fu ossequente ai voleri del Sommo Pontefice, astenendosi dalle urne politiche.
Nobilissimi esempi di fermezza e di coraggio leggevamo nei giornali, di ragguardevoli persone che sdegnosamente a voce o per iscritto rifiutarono l’offerta candidatura in ossequio al veto pontificio» (11).
La stessa rivista in una sua «Rassegna della stampa» ritornava ancora sul tema del Non expedit e, facendo proprio il pensiero esposto su questo problema dal giornale italo-francese L’Italie, sosteneva apertamente che la riconciliazione tra il Quirinale e il Vaticano, da più parti attesa e auspicata, sembrava in questo momento non solo impossibile ma per i cattolici neppure desiderabile.
Non sarebbe possibile, scriveva l’articolista, perché tale riconciliazione richiederebbe da parte della Santa Sede l’abbandono di ogni sua pretesa sulla Città Eterna, cioè la rinuncia pura e semplice a qualsiasi rivendicazione territoriale, accettando così definitivamente l’iniqua politica dei fatti compiuti; e noi a questo «rispondiamo di no: quindi la riconciliazione non è possibile» (12).
Tale riconciliazione poi non sarebbe neppure desiderabile, continuava, perché essa provocherebbe confusione e sospetti da parte degli altri Governi e porrebbe tanto la Santa Sede quanto lo Stato italiano in una posizione falsissima rispetto ai cattolici degli altri Paesi. Teniamo dunque fermo il principio, concludeva la rivista dei gesuiti: «La conciliazione tra Quirinale e Vaticano non è né possibile né desiderabile [….] e il Papa ha ogni ragione di condursi come fa col Governo italiano, alla maniera di chi è in stato di ostilità» (13).
Leone XIII e la democrazia cristiana
Intanto, dopo le elezioni politiche del 1900, si faceva sempre più strada nella mente di alcuni esponenti del mondo cattolico impegnati nel sociale una nuova e più aperta interpretazione del Non expedit e, allo stesso tempo, la possibilità di una sua utilizzione strategica in campo politico. Cosa che trovava consenziente anche l’anziano Pontefice.
Alla rigida formula margottiana «né eletti né elettori» essi intendevano sostituire una nuova formula programmatica proposta dall’Osservatore Cattolico di Milano: cioè quella di «preparazione nell’astensione» alla lotta politica, quando «il supremo gerarca della Chiesa» lo avesse ritenuto necessario e opportuno. Anche se tra i capi del movimento cattolico italiano non c’era unanimità di giudizio sia nell’accoglienza sia nell’interpretazione di questa nuova formula (14).
Don Remolo Murri, che era il capo carismatico dei democratici cristiani, cioè della componente giovanile del movimento cattolico italiano, riteneva che il Non expedit non dovesse essere considerato semplicemente come una norma autoritaria dettata dalla suprema autorità ecclesiastica ai cattolici italiani al fine di limitarne l’azione politica, bensì come «una legge interna al movimento di azione cattolica», cioè come una decisione presa dalla Santa Sede «per una specie di rappresentanza e tutela provvisoria che essa si era assunta, fino a quando i cattolici italiani non fossero in grado di provvedere da se stessi alla vita pubblica» (15).
Ciò significava che tale provvedimento sarebbe dovuto rimane in vigore fino a quando i cattolici non avessero maturato una piena coscienza politica; ma che, una volta emancipati dalla tutela ecclesiastica, essi avrebbero dovuto agire autonomamente nell’ambito politico (16). In questi termini Murri fin da quei giorni lavorava per la creazione di un partito democratico cristiano indipendente dalle direttive della Curia vaticana circa l’azione politica.
Questa posizione, non gradita alla gerarchia ecclesiastica e neppure a quei numerosi cattolici che a livello amministrativo locale si erano ormai adattati a comode alleanze clerico-moderate, ebbe seguito soprattutto tra i sostenitori del movimento democratico cristiano, specialmente tra i giovani, e condusse alla creazione nel 1905 della Lega Democratica Nazionale. Questa nuova formazione politica però fu fortemente avversata sia dalla Curia romana sia dai vescovi.
Secondo la prospettiva murriana, insomma, il Non expetit, come del resto tutta la cosiddetta «questione romana», doveva essere utilizzato in modo strumentale per garantire la sopravvivenza e l’unità del movimento intransigente, e allo stesso tempo per spingerlo verso un’opposizione democratica e riformista nei confronti dello Stato liberale, cercando così di concretizzare in termini di lotta politica l’insegnamento sociale delle grandi encicliche leonine (17).
Questo indirizzo però non era gradito all’autorità ecclesiastica, la quale dopo la crisi del 1898 cercava in tutti i modi una via di dialogo e di distensione con le autorità civili (18). Queste a loro volta avevano bisogno dell’appoggio di tutte le forze conservatrici, particolarmente dei cattolici, per combattere il temutissimo «pericolo rosso».
Filippo Meda, invece, capo del movimento di azione cattolica milanese, diede all’astensione dei cattolici dalle urne politiche il valore di un semplice divieto pontificio, cioè di un divieto eccezionale, poiché «la norma comune sarebbe che i cattolici si recassero alle urne e votassero» (19). Per lui, cioè, come anche per tutto il gruppo milanese, il Non expedit non aveva carattere né dogmatico né assoluto, e la sua sopravvivenza era esclusivamente legata alla volontà «privata» del Pontefice, il quale poteva in ogni momento farlo cadere (20). Per questo motivo i cattolici, secondo Meda, avrebbero dovuto già da subito organizzarsi e prepararsi per la futura azione politica.
Ciò appare sorprendente se pensiamo che queste idee venivano in quegli anni espresse e divulgate dall’erede di uno dei capi più autorevoli del movimento intransigente italiano, cioè don Davide Albertario, fondatore e direttore del giornale integralista milanese L’Osservatore cattolico. Filippo Meda, infatti, si faceva propugnatore di un interventismo politico che non si muoveva più nella linea del semplice appoggio ai liberali né in quella del rifiuto a priori delle istituzioni liberali, ma preludeva alla richiesta di una libertà di azione politica più larga da conquistarsi «combattendo contro il Governo insieme ad altre forze politiche per lo svolgimento democratico delle istituzioni parlamentari» (21).
A differenza del prete marchigiano, insomma, per Meda l’astensionismo non era semplicemente un modo per custodire il voto cattolico, in attesa del momento opportuno per sconfiggere le forze conservatrici borghesi, bensì un vero e proprio divieto, strategicamente utilizzato dalla Santa Sede per una giusta composizione della questione romana, che il Papa poteva in ogni momento far cessare (22). Alla fine fu la posizione del teorico milanese che vinse e finì per imporsi come realtà politica al movimento cattolico (23). E sarà la posizione che in seguito, su suggerimento di Pio X, assumerà anche La Civiltà Cattolica.
Intanto il 18 gennaio 1901 appariva l’enciclica di Leone XIII Graves de communi sull’Azione cattolica. Lo scopo era chiaro: precisare il senso in cui la Santa Sede voleva che fosse intesa la democrazia cristiana, darne una definizione precisa e indicarne i limiti di azione. L’enciclica accettava, senza però imporlo, il nome di «democrazia cristiana» da dare all’azione sociale dei cattolici.
Con tale termine, affermava l’enciclica, non si vuole però approvare alcun «fine politico per portare al potere il popolo, promovendo questa forma di governo in luogo di altre, che per tal modo, mirando al bene della plebe, e mettendo in disparte gli interessi delle altre classi, sembri rimpicciolirsi l’azione della religione cristiana, e che finalmente sotto la speciosità del nome si voglia in certo modo nascondere il proposito di sottrarsi alle legittime autorità nell’ordine civile ed ecclesiastico».
Di fatto, tale denominazione, in alcuni settori del mondo ecclesiastico (anche gesuitico), veniva rigettata o guardata con sospetto in quanto considerata pericolosa e contraddittoria. Il gesuita Giuseppe Chiaudano, della Provincia Torinese, il quale aveva scritto un opuscolo contro il concetto moderno di democrazia, riteneva la denominazione di democrazia cristiana inutile ed equivoca, in quanto «minacciava la disgregazione del fascio dalle forze cattoliche» (24).
L’enciclica sottolineava, inoltre, che il movimento di democrazia cristiana doveva svolgere esclusivamente la sua azione in ambito religioso e sociale (non politico), sotto la direzione dei vescovi, cioè essere una actio benefica christiana in populum. In più, la direzione di tutto il movimento cattolico organizzato veniva affidata interamente al Comitato nazionale dell’Opera dei Congressi, fedele esecutore delle direttive papali, a quel tempo presieduto dal conte Giovanni Battista Paganizzi (25).
Questi era un uomo di spirito conservatore e «intransigente», e in diverse occasioni si dimostrò perfino più papalino del Papa stesso e osteggiò sempre all’interno del movimento cattolico le correnti più aperte e innovatrici, in particolare il movimento murriano (26).
La Civiltà Cattolica, dopo l’enciclica sulla democrazia cristiana, pubblicò una serie di articoli sulla cosiddetta Questione sociale e la democrazia cristiana. Seguendo le direttive della Graves de communi scriveva che il principio di democrazia cristiana non aveva un preciso significato politico e che quindi non comportava in alcun modo la sovranità del popolo; essa voleva soltanto promuovere l’ordine sociale cristiano, ossia «un organismo sociale tendente al vantaggio comune di tutti, in specie delle classi popolari secondo i principi banditi dal Vangelo» (27).
Poiché la democrazia cristiana non era legata a una forma particolare di Governo, essa non aveva preferenze politiche: «La sua azione — continuava l’articolista — è possibile sotto tutti i governi ed è indipendente da qualunque forma di potere civile, come la legge onde deriva e la Chiesa nel cui seno si svolge» (28).
La democrazia cristiana, a differenza di quella liberale o socialista, concludeva, è destinata a adattarsi a tutti i tempi e a tutte le vicissitudini politiche, perché essa non è fondata sull’egoismo borghese o sulla lotta di classe, ma «sull’amore e sulla concordia di classe». Il quarto e ultimo articolo sull’argomento aveva come sottotitolo La falsa democrazia cristiana (29), e trattava di quelle esperienze europee dove il movimento sociale dei cattolici si era organizzato non perfettamente in sintonia con le direttive di Roma, specialmente in Belgio e in Olanda.
I democratici cristiani di questi Paesi andavano dichiarando infatti, scriveva l’articolista della Civiltà Cattolica, che la Chiesa era infallibile soltanto in materia religiosa e che nulla aveva a che vedere nelle altre questioni, giungendo perfino ad affermare che era stato un bene per la Chiesa cattolica l’abolizione del potere temporale del Papa, perché essa non poteva esigere obbedienza in ciò che concerne questioni a lei completamente estranee. Insomma l’opposto di quanto era stato di recente affermato nella Graves de communi circa la soggezione del movimento di democrazia cristiana alle direttive pontificie.
Il Papa voleva che tutto il movimento cattolico europeo camminasse secondo le direttive da lui fissate, e che si presentasse ovunque come un fronte omogeneo e compatto, capace di sconfiggere, anche sul piano politico, i nemici della fede cattolica. La situazione italiana su questo punto presentava però caratteristiche particolari, a motivo dell’astensione dei cattolici dalla vita politica come mezzo per difendere, contro i cosiddetti «fatti compiuti», i diritti inalienabili del Romano Pontefice.
Un articolo della Civiltà Cattolica ancora del marzo 1901 insisteva nel difendere la posizione assunta dai cattolici italiani nelle precedenti elezioni politiche, ribadendo che l’astensione dei cattolici dalle urne era stata motivata non tanto da ragioni politiche quanto da motivazioni religiose.
La rivista insisteva nel dire che i cattolici scegliendo tale atteggiamento eseguivano semplicemente le direttive del Papa in questa materia, e che con ciò non intendevano avversare le istituzioni in quanto tali, ma esclusivamente lo spirito con cui i liberali le animavano volgendole contro le libertà della Chiesa. «Per i cattolici il contrasto con i liberali — si leggeva — non è nella forma di Governo, è nei principi» (30). La rivista in questo modo si difendeva dall’accusa spesso mossale dalla stampa liberale — che era poi l’accusa che veniva fatta in generale ai cattolici italiani e a tutta la stampa integralista — di mancare di «coscienza civile» e di complottare contro le istituzioni dello Stato.
La democrazia politica, insomma, era concepita dal magistero leoniano come una delle forme possibili di Governo; una forma lecita e in alcune specifiche situazioni perfino opportuna, ma in ogni caso non privilegiata sul piano dei valori e non necessariamente legata agli obiettivi di giustizia sociale che la Chiesa indicava come essenziali. Secondo Pietro Scoppola, la legittimità di un Governo era commisurata «sulla sua capacità di attuare il bene comune, concepito in termini astorici, deducibile da una natura anch’essa largamente astorica, definibile secondo criteri di razionalità astratta» (31), tipica della dottrina sociale tomista così cara al Pontefice.
Questa razionalità oggettiva inoltre, continuava lo studioso, non era affidata «alla ricerca individuale, alla dialettica, alla conflittualità, in qualche modo alla storia, ma interpretata e garantita dalla Chiesa» (32). In questa direzione si muoverà anche il futuro magistero papale in materia di democrazia. L’enciclica sodale Quadragesima anno (scritta da Pio XI nel maggio 1931 per commemorare i 40 anni della Rerum novarum], ad esempio, definirà alcuni princìpi sui rapporti tra le classi e i loro reciproci diritti e doveri, ignorando del tutto il problema della traduzione in termini politici di tali esigenze.
Bisognerà aspettare il radiomessaggio natalizio di Pio XII del 1942 su l’«Ordine interno delle nazioni», perché il magistero pontificio riconoscesse elementi valoriali al principio della democrazia rappresentativa; esso lo fece non direttamente (il che avrebbe creato discontinuità nell’insegnamento magisteriale della Chiesa), ma implicitamente, cioè ponendo come cardine e criterio di tutto l’ordinamento giuridico nazionale e internazionale il principio della dignità della persona umana, che in quel periodo era negata nei regimi totalitari e riconosciuta in quelli democratici.
Su tale base il pensiero politico dei cattolici fece passi significativi, superando la tradizionale diffidenza (se non proprio ostilità) nei confronti degli ordinamenti politici rappresentativi e accogliendo la democrazia politica come il sistema più idoneo a garantire i diritti della persona e delle comunità intermedie, nonché a promuovere rapporti di solidarietà e di amicizia tra gli Stati. Ciò di fatto, dopo la caduta del fascismo, fu realizzato da Alcide De Gasperi nella sua proposta politica volta a creare in Italia un grande partito interclassista di cattolici, fondato sul principio della libertà politica e sulla piena accettazione del sistema di democrazia rappresentativa.
Il recente Magistero degli ultimi Papi ha certamente aiutato i cattolici di tutti i Paesi ad appoggiare senza ambiguità il principio di democrazia politica e ad accettarne il suo articolato sistema valoriale, sottolineando però che alla fine è il riconoscimento e la tutela del «valori forti» (cioè quelli della persona umana e quelli riguardanti la giustizia sociale) che fonda e sostanzia un autentico ordinamento politico. Di fatto esistono Paesi che formalmente si dicono democratici, ma nei fatti non tutelano né i diritti fondamentali delle persone, né attuano politiche di equa distribuzione della ricchezza.
La recente enciclica sociale di Benedetto XVI, Caritas in ventate, che si muove nel solco tracciato negli anni del post-concilio dalla Popolorum progressio di Paolo VI, è prova del lungo cammino compiuto dal Magistero papale in materia sociale e politica; essa mette in evidenza la grande attenzione che ormai mostra la Chiesa nei confronti del problema dell’integrazione tra i diritti umani dei diritti personali, politici, economici e sociali in un contesto solidaristico e internazionale indirizzato alla realizzazione di un «nuovo ordine economico-produttivo» socialmente responsabile e a misura d’uomo.
Ciò che conta per la Chiesa, in una società complessa e globale, qual è quella attuale, non è la forma esterna che un ordinamento può assumere, ma il sistema di valori che esso promuove e tutela, e che sostanzialmente sono quelli di una democrazia compiuta.
Al paragrafo 41 l’enciclica recita: «Non è necessario che lo Stato abbia dappertutto le medesime caratteristiche: il sostegno ai sistemi costituzionali deboli affinchè si rafforzino può benissimo accompagnarsi con lo sviluppo di altri soggetti […]. L’articolazione dell’autorità politica a livello locale, nazionale, internazionale […] è anche a modo per evitare che essa mini di fatto i fondamenti della democrazia» (33).
Note
1) Sul Secolo di Milano nell’ottobre del 1900 il deputato socialista Gustavo Chiesi scriveva un articolo intitolato Le due Rome con il quale criticava l’inefficienza della capitale italiana rispetto alla perfetta organizzazione della Corte pontificia: «L’antitesi tra le due capitali che stanno al di là e al di qua del Tevere non potrebbe apparire più evidente come in questi giorni nei quali la capitale italiana è assente. Nel palazzo e nella basilica onde si compendia questa capitale spirituale, v’è una corte che non l’abbandona mai; v’è una mente, individuale o collettiva, il cui pensiero vibra riflesso in milioni e milioni di menti […]; v’è una organizzazione che non ha eguali per competenza ed esperienza».
2) E. Soderini, II pontificato di Leone XIII, Milano, Mondadori, 1923, 80.
3) Gabr. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, vol. I, Bari, Laterza, 1966,260.
4) Cfr E. Poulat, Catholicisme démocratique et socialisme, Paris, Casterman, 1977, 7
5) Per una bibliografia completa su questo tema vedi: D. Veneruso, «Stato e Chiesa», in Bibliografia dell’età del Risorgimento, vol. 2, Firenze, Olschki, 1971; C. A. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino, Einaudi, 1972; P. Scoppola, Chiesa e Stato nella storia d’Italia, Bari, Laterza, 1967; F. Traniello, Questione Romana, in N. Tranfaglia (ed.), 77 mondo contemporaneo, vol. 3° della Storia d’Italia, Firenze, La Nuova Italia, 1978.
6) Cfr F. Fonzi, I cattolici e la società italiana dopo l’unità, Roma, Studium, 1977, 79 s.
7) F. Traniello, «Movimento cattolico e questione romana», in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia: 1890-1980, vol. 1/2, Casale Monferrato (Al), Marietti, 1982, 48.
8) Cfr Gabr. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, cit., 260.
9) Cfr ivi, 262
10) Ivi, 253. Per avere un’idea dei rapporti che esistevano a quei tempi tra Pio IX e i gesuiti della Civiltà Cattolica basta leggere il diario delle consulte, dove annotazioni di questo tipo non sono affatto infrequenti (ricordiamo che ogni fascicolo della rivista prima di essere stampato veniva portato dal direttore, o da un altro padre, al Papa per la revisione finale): «II p. Piccirillo presenta al Santo Padre il fascicolo 303 e dopo Le origini della sovranità ecc. del p. Brunengo, uscite ultimamente in luce, che S. S. accolse con benigna soddisfazione. Nella medesima udienza il Santo Padre commise alla Civiltà Cattolica due lavori da farsi quanto prima, cioè 1° un articolo in cui si svolgessero i princìpi immutabili e le ragioni della politica della Santa Sede nella presente crisi della Questione Romana, affinchè sia con ciò risposto anticipatamente alle nuove proposte conciliatoriste che, dopo la recente mutazione del ministero francese e dell’ambasciatore, dicesi voler fare l’imperatore, e le quali altro non sono che un nuovo tranello, il quale articolo poi dovrebbe servire ai nunzi come di regola. 2°.Un catechismo popolare in cui si spieghino le varie questioni intorno al dominio temporale del Papa e si sciolgano le correnti obbiezioni. Questi due lavori, dopo stampati nella Civiltà Cattolica, dovrebbero stamparsi a parte. In una conferenza straordinaria si determinò chi doveva fare i due lavori predetti. Fu assegnato il primo al p. Liberatore, il secondo al p. Curci o al p. Oreglia, ma questi scusandosene, rimise subito al p. Curci» (Archivio della Civiltà Cattolica, Giornale della Civiltà Cattolica, 28 ottobre 1862). Dopo la caduta del potere temporale dei Papi, nel 1870, spettò ancora alla rivista dei gesuiti difendere con forza i diritti violati della Santa Sede e del Romano Pontefice; essa così divenne (più che altri giornali altrettanto impegnati in questo compito) il simbolo stesso della lotta dei cattolici intransigenti contro uno Stato che faceva aperta professione di liberalismo politico e ideologico e di laicità.
11) «Cronaca Contemporanea», in Civ. Catt. 1900 I 215. Essa così continua: «Anzi in alcuni luoghi non si trovò neppure uno tra i cattolici che ardisse frangere l’alto divieto; e a Carpineto, patria di Leone XIII, non si potè neppure formare il seggio, perché tutti quei bravi cittadini, nessuno eccettuato, furono un cuor solo nel sostenere intrepidi l’astensione». Più in là si legge: «Tuttavia, e con dolore lo dobbiamo registrare, tanto nel mezzodì d’Italia, quanto in qualche parte dell’Italia superiore, si videro dei cattolici non solo laici ma perfino ecclesiastici accorrere alle urne politiche con grandissimo scandalo» (ivi).
12) Civ. Catt. 1901IV 883.
13) Ivi, 885.
14) Cfr A. Fantetti, «La questione temporale: Murri, Toniolo e Meda» in Il movimento politico dei cattolici, Roma, Civitas, 1969.
15) La citazione è presa da Gabr. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, cit, 298; P. Scoppola, Dal neoguelfismo alla Democrazia Cristiana, Roma, Studiumi, 1979, 89. Anche don Luigi Sturzo condivideva in materia di Non expedit le idee di Murri. In proposito si veda L. Bedeschi, Murri Sturzo De Gasperi. Ricostruzione storica ed epistolario, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 1994.
16) Queste idee erano condivise anche dal giovane Alcide De Gasperi. Cfr L. Bedeschi, II giovane De Gasperi e l’incontro con Romolo Murri, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 1974, 110.
17) Cfr E Traniello, Movimento cattolico e questione romana, cit., 49.
18) In questa data in molte parti di Italia ci furono sollevamenti popolari; le autorità civili (e pare anche alcuni cattolici transigenti) pensavano che questi fossero alimentati non solo dai socialisti, ma anche dalle associazioni cattoliche integraliste, nemiche dello Stato liberale. Così essi furono duramente repressi.
19) Gabr. de Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, cit., 299.
20) Cfr ivi.
21) La citazione è tratta da O. Confessore Pellegrino, «Transigenti e intransigenti», in Dizionario Storico del movimento cattolico, cit., 25.
22) Ivi, 300. In proposito F. Meda, «Le elezioni politiche in Italia: la nostra astensione», in La scuola cattolica e la scienza italiana, marzo 1985, 227. L’articolo era pubblicato sotto lo pseudonimo di Civis; P. Scoppola, Dal neoguelfismo alla Democrazia Cristiana, cit., 90.
23) Gabr. De Rosa, Filippo Meda e l’età liberale, Firenze, Le Monnier, 1959.
24) G. Chiaudano, Democrazia cristiana e movimento cattolico, Torino, Bona, 1897.
25) II Papa sottopone tutte le associazioni cattoliche alla direzione dell’Opera dei Congressi, perché «vuoisi applicare piuttosto in concretare e promuovere opere vantaggiose al benessere religioso e sociale del popolo che in vane dispute e discussioni di teorie, le quale d’ordinario producono malintesi e disaccordi, rendono impossibile quella perfetta unità di sentimenti e di azione, che il Santo Padre ha più volte inculcato a coloro che dirigono il movimento cattolico»: E. Momigliano, Tutte le encicliche dei Sommi Pontefici. Graves de communi, Milano, dall’Oglio, 1990, 489.
26) Cfr F. Ponzi, I cattolici e la società italiana dopo l’unità, cit., 65 s.
27) Civ.Catt. 1901 III 657
28) Ivi 654
29) Ivi, 1901 IV 677-690
30) R. Ballerini, «Del voto obbligatorio nelle elezioni», in Civ. Catt. 19011 641.
31) P. Scoppola, La protesta politica di De Gasperi, Bologna, il Mulino, 1977, 47.
32) Ivi.
33) Benedetto XVI Lettera enciclica Caritas in veritate