Capitolo I del volume edito da Giovanni Volpe,Roma 1966
autore: Erik Von Kurhnelt – Leddihn
Traduzione di Carlo d’Altavilla dall’edizione inglese
Liberty of Equality – The Challenge of our Time
Confrontata con l’edizione tedesca: Freiheit oder Gleichheit? Die Schicksalsfrage des Abendlandes
CAPITOLO PRIMO
DEFINIZIONI E PRINCIPI FONDAMENTALI
Di fatto, nella democrazia si manifesta molestissima
e ingiustissima la tirannide della maggioranza.
A. ROSMINI, La società e il suo fine
II presente libro è un saggio nel senso proprio del termine, è un tentativo di gettare una qualche luce su alcune fasi e su alcuni aspetti della lotta secolare fra il principio della libertà e quello delle eguaglianza, fra le ideologie del liberalismo e quelle della democrazia, tali termini qui venendo assunti nel loro significato classico. Naturalmente il nostro studio non potrà esaurire l’argomento; tuttavia la materia non sarà scelta a caso ma in base a determinati criteri.
È ovvio che la libertà può venire brutalmente sacrificata alle esigenze di una piena efficienza o allo sforzo di raggiungere il massimo benessere materiale. Ma non si vive di solo pane. Come in altri problemi capitali, a tale riguardo la maggior parte dei lettori probabilmente converrà con noi, perché, anche se non è cattolica, almeno dal punto di vista spirituale e culturale essa in genere è stata formata dalla tradizione ebraico-cristiana e greca, per cui esiste sempre una specie di comun denominatore.
Nel parlare di eguaglianza (aequalitas) noi ci riferiamo a qualcosa di diverso dalla aequitas, cioè dalla giustizia. La stessa cosidetta “eguaglianza cristiana” non è nulla di meccanico, è la semplice sottomissione ad una stessa legge, è, quindi, una “isonomia”. Anche pel cristianesimo due neonati sono bensì spiritualmente uguali ma nelle loro qualità fisiche e intellettuali (sia pure potenziali) a partir dal momento della concezione sono diseguali.
Per ora non esamineremo le motivazioni psicologiche delle tendenze egualitarie e ” identitarie ” dei nostri tempi; su esse, torneranno più oltre. Qui basterà rilevare che la istituzione artificiale della eguaglianza non è compatibile con l’esigenza della libertà. Entro dati limiti è evidentemente legittimo far differenza fra l’innocente e il colpevole, fra l’adulto e il bambino, fra il soldato combattente e il borghese e così via. Il nostro concetto occidentale della giustizia non si basa sull’eguaglianza ma sul suum cuique di Ulpiano. Se la cupidigia, l’orgoglio e l’arroganza sono i fondamenti di ogni ingiusta diseguaglianza fra gli esseri, i moventi della tendenza egualitaria e identitaria sono l’invidia, la gelosia (1) e la paura.
La “natura” (ossia lo stato esistente prima di ogni intervento umano) è tutt’altro che egualitaria; se si vuoi creare un terreno completamente piano si debbono far saltare le montagne e colmare le valli. Così l’eguaglianza richiede un continuo impiego della violenza il che, in via di principio, è l’opposto della libertà. Libertà ed eguaglianza sono termini essenzialmente antitetici.
Fra tutte le etichette politiche, “liberalismo” e “democrazia” sono le più abusate. Il vero liberalismo tende a garantire ad ognuno un massimo ragionevole di libertà indipendentemente dalla forma costituzionale dello Stato in cui vive. Si deve riconoscere che le relazioni fra la libertà e l’una o l’altra forma politica non sono sempre le stesse; alcune istituzioni politiche aventi una spiccata impronta liberale possono celare, per una specie di dialettica, il pericolo di un asservimento. Così il vero liberale non si legherà ad una data forma di governo ma subordinerà la sua scelta al desiderio di veder godere sé stesso e i suoi concittadini della massima libertà. Se ritiene che una monarchia assicuri una libertà maggiore che una repubblica, egli la preferirà; in certe circostanze egli preferirà perfino le limitazioni materiali fattualmente imposte da una dittatura militare a ciò a cui potrà dar luogo nel futuro una democrazia.
Così ogni liberale condividente l’idea di Platone, che la democrazia è fatalmente destinata a sboccare in una tirannide (Repubb., libro VIII), respingerà questa forma di governo. In ogni discussione sulla libertà non si dovrebbe dimenticare, però, che la libertà più alta — e intangibile — è quella ” ascetica ” (2). Se riferito ad una ideologia politica, il termine “liberalismo” è di origine spagnola. Esso apparve per la prima volta dopo il 1812 nella penisola iberica e fu subito ripreso dai Francesi. Southey fu il primo a scrivere, nel 1816, sui British liberales (mantenendo la grafìa spagnola) nella Quarterly Review, e dieci anni dopo vediamo Scott usare l’espressione liberaux (3), però a designare l’ala radicale dei Whigs, quindi qualcosa di diverso da ciò che noi intendiamo per liberalismo.
Negli Stati Uniti l’abuso di questo termine è giunto al massimo: vengono chiamati “liberali” tutti coloro che amano i cambiamenti, spesso favoreggiando soprattutto le tendenze di un totalitarismo di sinistra. Non di rado nel continente europeo le cose sono andate in modo analogo: i “liberali” spesso si sono dati ad una vera persecuzione di tutti coloro che non condividono la loro ideologia. Assai giustamente Carlton J. H. Hayes ha chiamato costoro i “liberali settari” (4). In séguito il liberalismo settario ha fatto apparizione nella stessa Inghilterra: il suo più tipico rappresentante è stato Lloyd George.
Assai varie sono le motivazioni filosofiche e psicologiche della posizione liberale. Nel liberalismo ad orientamento cristiano l’impulso fondamentale sarà sempre l’affetto, la generosità, il rispetto per l’umana personalità. Però esiste anche un liberalismo derivante da quel fondamentale nichilismo filosofico che afferma che la verità è un mero pregiudizio, il prodotto di una presunzione intellettuale, una illusione sensibile, o che essa, pur esistendo, è irraggiungibile per l’uomo, è fuori della portata delle nostre capacità conoscitive. Una tale filosofia della disperazione — che noi respingiamo — non porta però necessariamente ad un atteggiamento liberale; anzi può aversi il contrario. Così ciò che viene dedotto da tale premessa nichilistica dipenderà unicamente dalle preferenze personali e dal proprio temperamento.
Il vero liberale, il liberale cristiano, può essere anche spinto da considerazioni che non hanno un carattere etico e religioso ma pratico, cioè dal convincimento che l’antiliberalismo è una cattiva strategia. Pur distinguendo la libertà dall’errore, e perfino aderendo al principio che l’errore non può pretendere di essere tollerato, il “liberalismo strategico” respinge ogni misura coercitiva solamente perché essa non condurrebbe al risultato desiderato. Ad esempio, è stato rilevato che il Medioevo morì per una specie di “avvelenamento uricemico”, per l’impossibilità pratica dell’individuo di staccarsi dalla Chiesa (5). Alla forte tendenza coercitativa affacciatasi nella Chiesa nel tardo Medioevo in parte seguendo l’esempio degli Stati (6), occorse un paio di secoli per affermarsi.
Già nel 1818 Pio VII si espresse energicamente contro il principio della coercizione (7) e il diritto canonico cattolico dice esplicitamente che nessuno (nessun adulto) deve essere costretto a divenire cattolico (8). Si deve riconoscere che nel Medioevo il basso clero aveva idee poco chiare su questo punto; vi furono casi in cui Ebrei adulti fatti battezzare per forza vennero posti sotto la giurisdizione della Chiesa. Tuttavia fu solo questione di tempo a che l’influenza, in fondo “personalistica”, della teologia cattolica si facesse sentire nelle discussioni intorno al problema della coscienza, della libertà e della coercizione: non solo la dottrina cattolica del primato della coscienza rispetto all’autorità secolare ma anche il precetto della carità si oppone alla linea seguita nel tardo Medioevo.
Così quando gli inquisitori consegnavano al potere secolare una persona giudicata colpevole, essi usavano una formula stabilita, chiedendo di non applicare la pena capitale: “Noi ti mettiamo fuori della nostra corte ecclesiastica e ti consegnarne o, meglio, ti lasciamo al braccio secolare e alla potestà del tribunale secolare, raccomandando una mite sentenza e che non vi sia spargimento di sangue o pericolo di morte ” (9).
Questo mutato atteggiamento non ha, però, relazione alcuna con la decisa affermazione dell’infallibilità della Chiesa nel campo dogmatico. Oggi la possibilità di un sincero, tragico conflitto fra coscienza e verità è senz’altro riconosciuta: l’attribuire senz’altro una cattiva volontà o una malvagità ad ogni eretico o dissidente è stato, peraltro, l’effetto più di una ottusità psicologica che non di una incomprensione filosofica.
In questo contesto si deve anche tenere presente che il vero liberalismo è ben poco compatibile col capitalismo senza freni della scuola di Manchester. Anche la proprietà è una condizione della libertà. Nel suo concentrare la proprietà in un numero sempre più ristretto di mani, il manchesterismo da un punto di vista automaticamente liberale rappresenta solamente un minor male rispetto al capitalismo di Stato (cioè al socialismo). Per una vera soluzione liberale del problema della produzione dobbiamo rifarci a ben altri profeti che non ad uno Adam Smith o a uno Stalin. La scuola neo-liberale (Röpke, Euken, Rüston, L. Einaudi) a cui si deve la ricostruzione dell’Europa, ha mostrato che talvolta l’intervento statale è necessario per tener viva la concorrenza, E la concorrenza è il principio vitale dell’economia libera.
I termini “democrazia” e “democratico” hanno una valenza puramente politica. Democrazia significa “potere (governo) del popolo”. In questa sede le accezioni sociologiche e sociali di tale espressione possono essere lasciate da parte. La mera simpatia per le classi inferiori non è democrazia ma ” demofilia “. Nel presente studio noi considereremo solamente il concetto politico della democrazia.
Vi è stata una concezione classica della democrazia che, con lievi varianti, si è continuata dal 500 a. C. fino alla metà del secolo scorso. Alcuni autori si attengono ancora a tale accezione perché solamente essa è sufficientemente chiara e precisa. Noi li seguiremo. Platone, Aristotele, Tommaso da Aquino, il Bellarmino, Juan de Mariana, Alexander Hamilton, John Marshall, James Madison, il governatore Morris, N. D. Fustel de Coulanges — tutti costoro convengono più o meno nell’interpretazione del termine “democrazia”.
Sembra che i Founding Fathers, i “Padri Fondatori” americani, tendessero a identificare senz’altro la democrazia con una delle possibili forme di essa, ossia con la democrazia diretta. Ciò appare chiaro se leggiamo la definizione data da Madison in The Federatisi (nn. 10 e 14) o se ricordiamo l’attacco contro la democrazia di John Adams nella sua Defense of the constitution of the United States of America (10)
Però il caso di Adams non è così semplice. Da una attenta lettura degli scritti di questo secondo presidente degli Stati Uniti risulta che egli si oppose decisamente al principio egualitario in tutte le sue forme (11); è anche noto che la coscienza gli rimordette pel suo aver partecipato alla guerra d’indipendenza americana nella misura in cui tale guerra fu la precorritrice della Rivoluzione Francese e del sanguinoso epilogo di essa (12). Non v’è dubbio che la maggior parte dei ” Padri Fondatori ” americani non solo odiava la democrazia diretta e vi si opponeva ma, in quanto repubblicana intransigente, manteneva un atteggiamento assolutamente critico nei riguardi di quasi tutti i principi del sistema rappresentativo egualitario della democrazia indiretta (13).
Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti, spesso è stato definito con leggerezza un “democratico”. Ma se consideriamo il significato che ha la democrazia sia nelle sue forme dirette che in quelle indirette dobbiamo constatare che egli non lo fu per nulla. Quali sono, in concreto, i principi della democrazia? Essa ha due soli postulati cioè: 1) l’eguaglianza giuridica e politica di tutti (14); 2) l’ “autogoverno”, il self-government, basato sulla Iegge della .maggioranzai degli uguali. A seconda che questo “autogoverno” è esercitato da tutto il “popolo” ovvero da suoi rappresentanti, la democrazia è diretta o indiretta.
Naturalmente, i rappresentanti di una democrazia indiretta hanno il dovere di rispecchiare e difendere le vedute del loro elettorato; altrimenti, più che una democrazia, si avrà una repubblica. Il rispetto delle minoranze, la libertà di parola, le limitazioni da imporre al governo delle maggioranze non hanno nulla a che fare con la democrazia in quanto tale: sono principi liberali, e possono essere o non essere seguiti in una democrazia.
Di fatto, Jefferson era un agrario romantico che sognava una repubblica governata da una élite definita dall’intelligenza e dal carattere, e appoggiata da un libero contadinato. Lo attesta una lettera da lui indirizzata il 28 ottobre 1814 a John Adams, dove si può leggere:
Considero l’aristocrazia naturale come il più prezioso dono della natura per l’istruzione, l’affidamento e il governo della società. Sarebbe stata una incoerenza della creazione aver formato gli uomini per la vita sociale senza fornirli di una saggezza e di virtù sufficienti per provvedere alle esigenze della società. Possiamo pur dire che la forma migliore di governo è quella che porta effettivamente ad una pura, reale selezione di questi aristoi, nati per occupare proprio loro le cariche pubbliche (15)
Nella stessa lettera si legge anche:
Per via delle sue proprietà o della sua posizione soddisfacente, ognuno ha interesse a sostenere la legge e l’ordine. E questi uomini possono riservarsi in modo sicuro di libertà, la quale nelle mani della camaille dell’Europa degenerebbe immediatamente portando alla dissoluzione e alla distruzione di ogni struttura pubblica (16).
Egli si oppose al proletariato urbano in modo così reciso che non si può capire come egli abbia potuto venire innalzato, sia pure temporaneamente, all’augusta dignità di Santo Protettore dell’uomo comune, del common man. Fra l’altro, egli scrisse:
La plebe delle grandi città può contribuire a sostenere un vero governo proprio quanto le malattie possono sostenere il vigore dell’organismo umano… Io considero la classe dei lavoratori come quella dei diffusori della corruzione e come lo strumento attraverso cui le libertà di un paese vengono, in genere, rovesciate (17).
Con l’andar degli anni le sue vedute si attenuarono alquanto, ma sembra che egli continuasse sempre ad opporsi alla concessione del voto alle donne (18). Non venne mai meno al suo amore per la terra anche se nella sua giovane età il suo agrariarismo aveva avuto espressioni più decise. In tale spirito, in una lettera inviata a Madison il 20 dicembre 1787 egli scrisse:
Penso che i nostri governi resteranno esenti da corruzione per parecchi secoli se essi saranno soprattutto agricoli; ciò accadrà finché esisteranno terre non ancora occupate in qualche parte dell’America. Quando si formeranno delle masse, come nelle grandi città europee, anche noi avremo governi corrotti al pari di quelli europei (19).
Le espressioni “democratico” e “democrazia” figurano nell’edizione Monticello delle opere di Jefferson. Il fondatore della democrazia americana fu indubbiamente Andrew Jackson, il cui monumento a Washington si erge di fronte alla Casa Bianca, circondato dalle statue dei quattro nobili europei che in America si batterono bensì per la libertà ma non di certo per l’eguaglianza e pel governo delle maggioranze: Tedeusz Kòsciunszko, il barone von Steuben, il marchese De Lafayette e il conte De Rochambeau (Pulaski e il barone De Kalb ebbero statue altrove). Armaud Tuffin marchese de la Rouëkie purtroppo non ha avuto una effige. De la Rouëkie, amico personale di Washington, in America combattè per la libertà, in Francia contro la democrazia. Morì dopo esser stato costretto a nascondersi e fu sepolto in segreto; ma i Giacobini ne riesumarono il cadavere per decapitarlo.
Chi desidera evitare le confusioni e ama la chiarezza nel pensiero politico, nel voler distinguere nettamente il liberalismo dalla democrazia e la democrazia dal repubblicanesimo probabilmente combatterà una battaglia perduta. In genere, i più non si rendono conto che una delle differenze più importanti fra l’orientamento continentale e quello anglosassone circa il governo rappresentativo è costituita dall’intima fusione dei due concetti che sono stati quasi inseparabili, nel secondo, nei termini di un “whiggerismo” (da Whigs) o liberalismo nel senso classico.
Indicherò nel capitolo seguente i nomi e le opere dei pensatori del XX secolo che hanno accuratamente distinto la democrazia dal liberalismo. La grande maggioranza degli Americani e degli Inglesi quando parla di democrazia include sempre il liberalismo nel concetto di essa, malgrado il fatto che democrazia e liberalismo si riferiscano a due ordini di problemi del tutto distinti. La democrazia riguarda il problema di chi deve governare” mentre il liberalismo considera la libertà del singolo, indipendentemente dalla figura giuridica di chi governa. Una democrazia può essere in alto grado antiliberale (20).
La legge Volstead, approvata in modo ineccepibilmente democratico negli Stati Uniti, che impose a tutti i cittadini il proibizionismo rappresentò anche una inaudita intromissione nella loro vita privata. Il fascismo e il socialismo nazionale e internazionale hanno spesso preteso di essere essenzialmente democratici, pretesa, questa, che da un punto di vista strettamente filosofico e storico appare assai più fondata di quanto molti possono credere. L’uso sovietico dell’etichetta “democrazia” non si riduce affatto ad una astuta manovra politica degli ultimi anni; questa terminologia si trova in Lenin ed è stata mantenuta da Stalin in tutti gli anni del ’20 (21).
Se noi accettiamo la definizione di democrazia data da Tommaso d’Aquino (De regimine principum, 1, 1 ), dobbiamo riconoscere che la “dittatura del proletariato” (dato che il proletariato formi la maggioranza) è più democratica della costituzione americana, nella quale, a differenza dei testi sacri del comunismo, la parola “democrazia” non figura nemmeno una volta.
D’altra parte possiamo immaginarci un sovrano assoluto — ad esempio, un imperatore autocratico — che sia decisamente liberale mentre è ovvio che egli non potrebbe essere democratico nel senso politico. Non solo teoricamente ma anche di fatto il 51% di una nazione può istituire un regime totalitario e opprimere le minoranze, eppure restare democratico, là dove un dittatore del tipo antico può anche riservarsi solo certi privilegi:astenendosi dall’interferire nella sfera della vita privata dei cittadini.
È incontestabile che il Congresso americano e le Camere francesi abbiano un potere, nelle rispettive nazioni, che avrebbe suscitato l’invidia di un Luigi XIV o di un Giorgio II. Non solo il proibizionismo ma anche la dichiarazione per le imposte sul reddito, i servizi speciali, l’istruzione obbligatorio, le impronte digitali di cittadini incensurati, i tests prematrimoniali del sangue e così via sono tutte misure “totalitarie” che nessun assolutismo dei re del XVII secolo avrebbe mai osato adottare.
Altri due concetti vanno definiti, il concetto di “destra” e di “sinistra”. Non v’è dubbio che essi si riducono a vuote parole d’ordine se osserviamo come tali termini oggi vengono usati nelle discussioni, nella stampa, al parlamento e alla radio. Sono noti gli stupidi slogan: “Noi siamo contro la tirannide, sia di destra che di sinistra”; “Gli estremi si toccano: l’estrema destra e l’estrema sinistra portano allo stesso punto”. Invece le posizioni veramente antitetiche non s’incontrano nemmeno nelle loro espressioni estreme. Ad esempio, il nazionalsocialismo e il comunismo possono anche essere simili senza però cessare di essere opposti.
Se certi termini del nostro simbolismo europeo debbono significare qualcosa di concreto, l’ideologia di sinistra ha nel suo vero aspetto normativo, un carattere apertamente satanico: tradisce un orgoglio quasi luciferino nell’assumere la causa dei dannati. Essa oppone un assoluto “no” alla creazione divina in genere e all’ordinamento cristiano in particolare. Du passé faisons table rase, è detto graziosamente nel testo francese originale del Manifesto della Prima Internazionale il quale si rivolgeva appunto ai dannati, ai “maledetti della terra”.
Questa rivolta della sinistra viene realizzata con un vero fanatismo nel segno della torre di Babele contro Dio, se non pure contro la stessa immagine di Dio. Il paradiso deve essere istituito sulla terra; per esso si traccia un piano utopico e si da inizio ad una regolamentazione meccanica: per questi apostoli del nulla l’uomo infatti è un semplice “numero” (l’ “elettore”), è il contribuente fiscale, il produttore, il consumatore, è un un portatore di cromosomi, il “compagno” che si diversifica solo per la lingua dai “compagni” di qualsiasi altro paese, il rappresentante di una classe, quando non sia un lavoratore coatto e la vittima destinata al colpo di pistola alla nuca.
Pertanto la controparte naturale della sinistra è la “reazione” come semplice negazione di essa. Da qui la miope attività di quei “conservatori” che prima del 1933 si erano entusiasmati per Hitler perché, a differenza dei marxisti, il suo orientamento era “nazionale”. La reazione non è altro che un sinistrismo invertito, il rovescio della medaglia della sinistra. La vera antitesi della sinistra, la quale è una via che attraverso l’asservimento conduce verso il nulla, è da vedersi nella destra. Ed essere di destra nel senso vero significa schierarsi pel diritto per ciò che è giusto e onesto, per quel che è davvero degno dell’uomo, per la libertà, la dignità e il rispetto dei valori perenni del retaggio dei nostri padri.
Non v’è dubbio che il cristiano non può che stare dalla parte della destra, nel senso ora dato al termine. Egli è con Dio contro il nulla, è con la libertà contro l’asservimento, è per la legge del molteplice e del vario vigente nella creazione contro la squallida uniformità del regno degli uguali e dei simili. (…)
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1) Cfr. Gustave THIBON, “L’inégalité, facteur d’armonie”, in Études Carmélitaines, v II (1939), p. 79
2) Pitirim SOROKIN, The crisis of our age (New York, 1941), da cfr. col detto di R. W. EMERSON: « Nulla è più ripugnante del gridare per la libertà da parte di quegli schiavi che sono, in generale, gli uomini, e il confondere leggermente con la libertà qualche preambolo cartaceo, come la dichiarazione [americana] d’indipendenza o la statuizione del diritto di voto per coloro che mai hanno osato pensare o agire “.
3) Cfr. l’Oxford English Dictionary alla voce “liberal”, B 1 (v. VI, parte 1. p. 238). Romàn OYARZUN (Historia del carlismo, Bilbao, 1939, p. 12, nota) afferma che il termine liberales era usato dai sostenitori della libertà di stampa nel 1810 (i loro avversati venivano chiamati serviles).
4) Carlton J. H. HAYES, A generation of materialism (New York, 1941). p. 49.
5) E’ noto che la persecuzione crea dei martiri. Spesso essa serve a soddisfare gli istinti sadici dei persecutori. Per un cristiano intelligente nulla dovrebbe apparire così diabolico quanto la mescolanza dell’errore con la virtù, della verità col vizio.
6) L’Inquisizione fu un tribunale ecclesiastico al servizio dello Stato. Essa poteva venir instituita soltanto a richiesta del governo e non esistette nella gran parte dei paesi europei prima o dopo la Riforma.
7) Cfr. George TICKNOR, The life, letters and journals of Gorge Ticknor (Boston, 1876), I, 174 (lettera a Elisha Ticknor, da Roma, in data 1° febbraio 1818): «II papa parlò molto sulla tolleranza universale e la lodò come se fosse la dottrina della sua stessa religione aggiungendo di aver continuamente ringraziato Dio per aver finalmente allontanato dal mondo tutte le idee di persecuzione perché la persuasione è il solo modo da usare per promuovere la religiosità mentre la violenza può favorire l’ipocrisia».
8) Codex luris Canonici, art. 1351: Ad amplexandam fidem catholicam nemo invitus cogatur.
9) Cambridge Mediaeval History, VI, 724. Questa formula non esonera dalla collaborazione in casi particolarmente dubbi ma fa apparire in modo chiaro la posizione fondamentale della Chiesa.
10) Cfr. John ADAMS, Defence etc. (nuova ed. London 1794) III pp. 493-495.
11) Cfr. The Works of John Adams, ed. Charles F. Adams (Boston, 1851), VI, 462, 472, 516 (lettera a John Taylor) — e anche X, 267-268 (lettera a James Madison in data 17 giugno 1817).
12) Ibid., IX 635-636 (lettera a Benjamin Rush in data 28 agosto 1811).
13) Cfr. Henry ADAMS, The formative years (Boston, 1947), I, 41-44; Arthur H. VANDENBERG, If Hamilton were here today (New York, 1923), pp. XXIV-XXVI; Nicholas MURRAY BUTLER, Why should we change our form of government? (New York, 1912), p. 6; Ralf ADAMS CRAM, The end of democracy (Boston, 1937), 20, 131-132; Andrew CUNNIGHAM Mac LAUGHLIN, “Democracy and costitution”, in Proceedings of the American Antiquariani Society, nuova serie, XXII (1912), 296, 310, 317.
14) Heinrich von TREITSCHKE, Politik (Leipzig, 1900), II, 6: «II principio fondamentale della democrazia è l’eguaglianza. Non solamente gli ideali ma anche le illusioni della democrazia si basano sulla supposizione dell’eguaglianza di tutti gli esseri umani».
15) T.JEFFERSON, The works of Thomas Jefferson, (New York, 1892), IX, 12.
16) Ibid., pp. 14-15.
17) JEFFERSON, Works, ed. Washington (New York, 1859), I, 409.
18) JEFFERSON, Collected writings (Washington, 1904), XV, 73
19) Secondo la citazione di J. T. ADAMS, Jeffersonian principles and hamiltonian principles (Boston, 1932).
20) Cfr MONTESQUIEU, De l’esprit des lois, XI, 2 e 4.
21) Y. STALIN, Ob osnavakh leninizma; k voprosam leninzma (Moscow, 1935), pp. 4, 31, 35, 50; V. I. LENIN, Sotchinenja (Moscow, 1926-1932), XXIV, 13; XII, 131. Cfr. anche M. I. KALININE, Que fait le pouvoir soviéliste pour réaliser la démocratie? (Paris, 1926); L. TROTZKI, Parlamentnaya revolutsiya (Berlin, 1930), pp. 164-170.