«Ci vorranno anni per radicare la democrazia, a breve ci sarà un’ascesa dei fondamentalisti». Il filosofo Henri Hude spiega le conseguenze dell’operazione Nato
di Rodolfo Casadei
È l’uomo giusto per commentare il come e il perché del protagonismo francese nella crisi libica che tante critiche e sospetti malevoli ha suscitato fuori dai confini dell’esagono, soprattutto in Italia. Quando gli si riferiscono le tesi degli analisti italiani, che attribuiscono a Sarkozy il gigantesco disegno di essere intervenuto in Libia per sostituire la Francia agli Stati Uniti nell’alleanza con l’Arabia Saudita e attraverso ciò restaurare l’egemonia francese sul continente africano in funzione anticinese, sorride.
«De Gaulle aveva una statura politica superiore a quella di Nicolas Sarkozy, eppure un disegno così non l’ha pensato né realizzato. In Francia crediamo piuttosto che quello che il presidente sta facendo abbia prevalentemente motivazioni di politica interna: la fiducia in Sarkozy da tempo è precipitata, non ha semplicemente delle difficoltà, ma la sua credibilità e la sua serietà stesse sono messe in discussione. Non gli è sembrato vero di poter cogliere l’occasione, con la crisi libica, di poter compiere degli atti suscettibili di restaurare la sua statura di uomo di Stato. Tenete presente che il ministro degli Esteri Alain Juppé ha saputo dai dispacci d’agenzia che Sarkozy aveva riconosciuto gli insorti di Bengasi come nuovo governo della Libia, e che in tutta la faccenda il parlamento non è stato mai consultato. Con tutto questo non voglio dire che il presidente non possa avere agito come ha fatto anche perché credeva che fosse nell’interesse della Francia. Ma il disegno di cui mi parlate è smisurato».
Hude non è affatto scandalizzato dalla linea di condotta dell’Italia, che prende parte alla coalizione ma tende a frenare politicamente l’impeto della Francia. «L’Italia è il paese europeo più vicino all’area di Crisi e quello che ha più interessi in gioco. È legittimo che segua una linea politica che le consenta di gestire entrambi gli eventuali esiti della crisi: la permanenza di Gheddafi al potere o la vittoria degli insorti.
Trattandosi di una situazione estremamente incerta, con un leader con le spalle al muro costretto a lottare per la sua sopravvivenza, un’opposizione di cui non riusciamo ancora a valutare appieno le caratteristiche e un paese che con l’uscita di scena del leader sprofonderebbe nel caos perché quello stesso leader ha disarticolato da tempo tutto il sistema amministrativo, la condotta italiana è giustamente prudente.
C’è anche un’altra ragione molto profonda che giustifica la prudenza italiana. Le democrazie fanno fatica a rendere ragione, davanti alle loro opinioni pubbliche, la decisione di andare in guerra. La correttezza politica impone loro di essere pacifiste. Allora non è possibile per esse giustificare un intervento militare se non demonizzando l’avversario. Questo però innesca un meccanismo infernale: se l’avversario è diabolico, si può soltanto distruggerlo. Una volta presa la decisione di intervenire, ogni soluzione diplomatica diventa impossibile, perché un regime diabolico può solo essere abbattuto. Allora la guerra sfugge alla politica e alla diplomazia».
Qui viene fuori lo Hude pensatore, con le sue riflessioni franche e stimolanti. Come quella sugli interventi militari “umanitari”. «L’ipocrisia non sta nel fatto che si decida di fare un intervento militare umanitario in Libia ma non in Iran. Noi non abbiamo i mezzi per fare la guerra a tutti i regimi che non rispettano i diritti umani.
Non è ipocrisia astenerci dall’intervenire contro la Cina o l’Iran, perché le decisioni devono essere commisurate ai mezzi di cui si dispone. L’ipocrisia sta in un’altra cosa: che gli interventi sono decisi per ragioni di Stato o di politica interna, ma poi vengono rivestiti di spiegazioni e giustificazioni mediaticamente attraenti. La politica in epoca democratica ha il problema dei media: non si può più governare o fare diplomazia senza considerare gli interessi e i sentimenti dell’opinione pubblica che intervengono nelle determinazioni degli uomini di Stato».
La traiettoria delle rivoluzioni
Hude s’è fatto un’idea della traiettoria che le rivoluzioni arabe percorreranno e dell’atteggiamento occidentale.
«L’Occidente ha fatto la scelta di favorire le rivoluzioni e di abbandonare i vecchi regimi autoritari. La decisione di intervenire in Libia a favore degli insorti è coerente con questa scelta, sarebbe stato incoerente permettere a Gheddafi di riprendere il controllo. Ora si tratta di valutare se questa opzione a favore delle rivoluzioni, di cui l’intervento in Libia non è che un corollario, sia stata prudente. Se soppesiamo i rischi, vediamo che sono notevoli. Io penso che nel lungo termine questo processo di democratizzazione condurrà alla de-islamizzazione del mondo arabo, ma nel breve termine quello che vedremo sarà soprattutto l’ascesa al potere degli islamisti.
Le democrazie che nell’immediato si instaureranno non potranno durare, perché avrebbero bisogno, per stabilizzarsi, di creare decine di milioni di posti di lavoro, e questo appare del tutto impossibile. Perciò è abbastanza probabile che, con la disarticolazione delle strutture tradizionali e l’erosione in profondità dell’islam nel cuore dei giovani, si verifichi una semi-occidentalizzazione che favorirà la lotta di classe e l’apparizione di regimi democratico-autoritari.
Per regimi “democratico-autoritari” intendo quelli in cui il leader gode di un vasto consenso popolare e insieme esercita il potere in un modo semi-dittatoriale. Gli esempi storici potrebbero essere Napoleone III, Mussolini, Rugo Chavez. I dirigenti dei futuri regimi arabi, che siano democratici o autoritari, non potranno più sottrarsi all’influenza dell’opinione pubblica, e si troveranno davanti a richieste contraddittorie, islamiste da una parte, democratico-socialiste dall’altra. In una tale congiuntura posizioni anti-occidentali e anti-capitaliste metteranno d’accordo tutti. Ecco perché dobbiamo temere di trovarci di fronte, fra non molto, a regimi autoritari che saranno meno amichevoli con noi di quelli del passato, e dunque più pericolosi».
Sul lungo termine Hude è convinto che tutto questo sfocerà in una de-islamizzazione del mondo arabo: «Mi sembra una possibilità quando guardiamo la demografia di quei paesi, la velocità della loro transizione demografica e il modo in cui la gioventù ha familiarizzato con le tecniche della comunicazione, e perciò col pensiero moderno che c’è dietro, con le strutture del razionalismo e dell’individualismo. Credo che l’islam non potrà sopravvivere che come ricordo identitario».