Libero quotidiano.it 7 Agosto 2017
Intervista a Anna Bono
di Alessandro Giorgiutti
Tracciare l’identikit dell’ immigrato che arriva in Italia attraverso il Mediterraneo vuol dire confutare parecchi luoghi comuni. Ha i titoli (e il coraggio) per farlo Anna Bono, dodici anni di studi e ricerche passati in Kenya, già docente di Storia e Istituzioni dell’ Africa all’Università degli Studi di Torino, recente autrice del saggio Migranti!? Migranti!? Migranti!? edito dalla friulana Segno.
Da dove partono gli immigrati che sbarcano nel nostro Paese?
«Soprattutto dall’Africa subsahariana, in particolare dall’Africa Occidentale. Nigeria in testa, seguita da Senegal, Ghana, Camerun e Gambia. Africa a parte, un numero consistente viene da Bangladesh, Afghanistan e Pakistan. Siriani e iracheni in fuga dalla guerra sono una minoranza»
Si può farne un ritratto?
«Quasi il 90% sono maschi, hanno perlopiù dai 18 ai 34 anni, con una percentuale importante di minorenni (stando almeno alle dichiarazioni al momento dell’ arrivo). E viaggiano da soli. Pochissime sono le famiglie, a differenza di quanto accade per siriani e iracheni».
Quali sono le loro condizioni economiche?
«Per affrontare un viaggio clandestino – clandestino, va precisato, dalla partenza all’arrivo, e non soltanto nell’ultimo tratto via mare – bisogna affidarsi ai trafficanti. I costi sono elevati, nell’ordine delle migliaia di dollari. Ecco perché a partire sono persone del ceto medio (ormai più o meno un terzo della popolazione africana) con un reddito discreto».
Ma se hanno un reddito discreto perché partono?
«In Africa c’è una percentuale di popolazione giovane convinta che l’Occidente è talmente ricco che basta arrivarci per fare fortuna».
E non li frenano i rischi del viaggio, la paura di morire prima di arrivare a destinazione?
«Non so quanto sia chiara in Africa la consapevolezza di questi rischi. E in effetti un modo per diradare il flusso di partenze sarebbe promuovere campagne informative in loco sui pericoli e i costi del viaggio, e su cosa ci si deve aspettare una volta arrivati in Europa, in termini di disoccupazione giovanile e reali opportunità d’ impiego. C’era un senegalese che aveva una mandria di mucche e dei tori. Tutto sommato una buona posizione. Ha venduto tutto per venire in Europa ed è morto in mare. Ma se anche ce l’avesse fatta, uno come lui, un semplice possidente, senza esperienze lavorative e senza conoscere la lingua, quale lavoro avrebbe potuto fare?».
Chi dà queste informazioni sbagliate sull’Europa?
«C’è un’immagine positiva dell’Europa veicolata dai mass media. Ma pesano anche altri fattori. Gli europei, agli occhi dell’africano medio, sono tutti ricchi. L’europeo è il turista che frequenta alberghi di lusso, oppure il dipendente dell’azienda occidentale che frequenta buoni ristoranti, ha una bella casa, l’automobile, magari l’autista. C’è poi un altro elemento. Da decenni in Africa arriva dall’Occidente di tutto: medicine, cibo, vestiti. Le Ong scavano pozzi e costruiscono (ottimi) ospedali. Tutto gratis. Questo contribuisce all’idea di una prosperità senza limiti dell’Occidente. Per concludere, c’è il ruolo dei trafficanti, che per alimentare il loro business hanno tutto l’interesse ad illudere le persone sul futuro roseo che troveranno in Europa».
Non esiste una controinformazione?
«In Mali dal 2014 il governo tenta una campagna di sensibilizzazione, anche con cartelloni nelle città, per far capire ai giovani che l’emigrazione non è una soluzione. Altri governi fanno lo stesso. E le conferenze episcopali locali organizzano incontri con i ragazzi per dissuaderli dal partire, presentando le testimonianze di chi è tornato indietro. Un lavoro non semplice, ma i governi europei potrebbero collaborare, magari promuovendo spot o finanziando alcune iniziative. Anche se poi, se un giovane si mette in testa di partire. Lo scorso settembre è partita dal Gambia una ragazzina di 19 anni: era il portiere della nazionale femminile di calcio. È annegata nel Mediterraneo. Chi la conosceva era sconvolto: quella giovane donna aveva realizzato in patria il sogno di molte ragazzine, eppure se ne era andata lo stesso, senza dir niente a nessuno. Sempre dal Gambia, a novembre è partito un famoso wrestler. Anche lui è morto in mare. Eppure guadagnava bene, e aveva ammiratori anche fuori confine, in Senegal. Si vede che qualcuno gli avrà messo in testa che, se in Gambia era famoso, in Europa sarebbe diventato milionario».
Le istituzioni internazionali vedono un’economia africana in forte crescita.
«Da oltre vent’anni il Pil continentale cresce a medie altissime. Nel 2017 la crescita media sarà del 2,6%. Grazie al petrolio, l’Angola ha conosciuto picchi del 17% e vanta un record di crescita del Pil tra il 2003 e il 2013 di quasi il 150%. Ma la crescita economica di per sé non coincide con lo sviluppo. Scarseggiano ancora gli investimenti in settori produttivi, infrastrutture, servizi».
Cosa frena lo sviluppo?
«Prima di tutto la corruzione, presente a tutti i livelli sociali, non solo al vertice, che fa sprecare risorse enormi. Pensi che nel 2014 in Nigeria l’ente petrolifero nazionale avrebbe dovuto incassare 77 miliardi di dollari, invece ne ha incassati solo 60. I governi, inoltre, hanno puntato per convenienza politica su una crescita eccessiva del settore pubblico. A tutto questo si accompagna il tribalismo, altro freno allo sviluppo».
È giusto dire «aiutiamoli a casa loro»?
«Ma l’Occidente già lo fa: da decenni trasferisce grandi risorse finanziarie, umane e tecnologiche in Africa. Gli aiuti alla cooperazione internazionale nel 2015 hanno toccato i 135 miliardi di dollari. Ma la Banca Mondiale qualche anno fa, parlando della Somalia, aveva calcolato che su ogni 10 dollari consegnati alle istituzioni governative, 7 non arrivavano a destinazione».
Abbiamo parlato della maggioranza degli immigrati. C’ è poi la minoranza di chi fugge da guerre e dittature.
«Su 123 mila domande di status di rifugiato nel 2016 ne sono state accolte 4.940».
Da dove arrivano?
«Dalla Somalia, in preda alla guerra civile. Dall’Eritrea, dove c’è una delle dittature peggiori del pianeta. Un po’ dal Sudan. Ma in realtà dalle zone più in difficoltà non arrivano tante persone. Dal Sudan del Sud, in guerra dal 2013, arrivano in pochissimi. Dalla Repubblica Centrafricana e dalla Repubblica Democratica del Congo non arriva praticamente nessuno. Quanto alla Nigeria, gli immigrati partono dal Sud, dove non ci sono pericoli, e solo pochissimi dal Nord Est, dove imperversa Boko Haram».
Come si spiega?
«La maggior parte dei profughi non vuole allontanarsi troppo da casa, dove spera di tornare. Chi fugge dalla guerra in Somalia, per esempio, si sposta in Kenya o in Etiopia, e ci pensa bene prima di allontanarsi di più. Insistere sulla integrazione dei rifugiati significa dimenticare che chi scappa dalle bombe chiede una protezione temporanea. Centinaia di migliaia di profughi iracheni e siriani stanno tornando o sono già tornati alle loro case. Emblematico il caso di Mosul: non era ancora stata liberata del tutto dall’Isis, gli abitanti scappavano ancora da alcuni quartieri, ma già nelle aree sicure rientravano alcuni sfollati».
La sorprendono le notizie sulle complicità Ong-scafisti?
«Per niente. La prassi era nota da mesi. Indicativa è la qualità dei nuovi gommoni usati dagli scafisti: dovendo fare un percorso molto più breve di un tempo, si usa materiale di pessima qualità proveniente dalla Cina. Dopo il trasbordo degli immigrati, il gommone viene gettato via. Si conserva solo il motore, che poi si usa per altri gommoni».
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