Studi Cattolici n.650 Aprile 2015
Ciro Lomonte
L’architettura dei nostri giorni pare interamente ispirata da quella che potremmo definire «l’estetica dell’aeroporto»: «non luoghi» studiati dai progettisti per passaggi fugaci, con un’attenzione tutta speciale dedicata a incorniciare il paesaggio con materiali innovativi traslucidi e gigantesche vetrate.
Ammesso e non concesso che questa sia la forma migliore per un’aerostazione, è mai possibile che si debba applicare la stessa poetica anoressica alle case, agli uffici, agli ospedali, ai teatri, alle università, agli asili nido? Tutti uguali, peraltro.
Qualcuno sostiene che gli stilemi minimalisti non siano affatto ripetuti. Ci sono infinite declinazioni degli assoluti razionalisti, nella versione decostruttivista o supermodernista attuale. Sarà vero?
A sfogliare le riviste patinate degli architetti viene da pensare all’opera di Raymond Queneau, Esercizi di stile, novantanove modi diversi per raccontare la stessa storia banale. Come banali sono le città, replicanti, senz’anima, che si stanno costruendo in ogni angolo del pianeta. Proviamo a passare in rassegna alcune opere contemporanee. Le aule della scuola materna Hakemiya, in Giappone (fìg. 1) sono le sale d’attesa del film The Terminal, nelle quali intrappolare i poveri bambini, che, per quanto orientali, non sono insensibili al calore di decorazioni e colori.
Esterni e interni della cantina Antinori, a San Casciano in Val di Pesa (fìg. 2), sono ambienti in cui far galleggiare nella luce e nell’alcol i visitatori. La corte interna e i disimpegni del ricco Rijksmuseum di Amsterdam (fìg. 3 a p. 306) sono trasformati, sotto nuove coperture in ferro e vetro, nelle banchine di una stazione ferroviaria. Nella pensilina del vecchio porto di Marsiglia (fìg. 4 a p. 306), sir Norman Foster cerca di ottenere direttamente un effetto di straniamento: riflessi nello specchio, i passanti non sono dove sono, sopra o sotto, diritti o capovolti.
La Casa dell’Infinito, realizzata a Cadice da Alberto Campo Baeza (fìg. 5 a p. 307), è la dimora algida di sentinelle bioniche del pianeta, spoglia di aggettivazioni, ricordi e simboli che possano relazionare la personalità degli abitanti con quella che dovrebbe essere la pelle architettonica della loro anima.
Omologazione virale
L’omologazione architettonica è virale. All’apparenza si tratta di un fenomeno culturale, è l’evoluzione naturale dei linguaggi dell’arte. A ben guardare si scopre che in realtà la componente affaristica è prevalente e la finanza si serve delle giustificazioni della critica architettonica ufficiale per battere cassa. La griffe è strumentale. Basti pensare, per fare un esempio recente, al degrado indecente in cui è piombato uno dei quartieri più rinomati di Roma da quando i dirigenti di Eur SpA si sono affidati alle archi-star.
C’è chi sostiene che il fenomeno riguardi più che altro l’Italia. In altre nazioni si trovano quartieri residenziali molto più belli e confortevoli dei nostri, perché qui siamo riusciti a deturpare persino i centri storici, vale a dire le città più ricche di opere d’arte del mondo, e abbiamo costruito periferie incredibilmente brutte.
Bisognerebbe allora definire se le casette del Surrey o quelle di Poundbury o i condomini di Le Plessis-Robinson siano architettura dei nostri giorni o passatismo. Perché la cultura accademica internazionale ostracizza quei modelli, spingendo gli studenti a moltiplicare i «non luoghi» anche nei centri storici, per farvi dialogare dentro i nuovi «non uomini»; un’estensione terribile dei concetti espressi nel 1992 dal sociologo Marc Augé nel libro Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità.
Chiese non chiese
Le autorità ecclesiastiche si sono adeguate all’andazzo corrente, affidandosi agli star-architects e ai loro emuli. Risultato? Chiese che non sembrano chiese. La situazione è desolante. Ne abbiamo parlato in Nuove chiese: fuochi fatui nella notte fonda, articolo apparso su II Covile n. 835. In quel contesto segnalavamo l’importanza del lavoro silenzioso svolto negli ultimi anni dal Master in Architettura, Arti sacre e Liturgia dell’Università Europea di Roma, che sarebbe opportuno trasformare in un vero e proprio corso di laurea in Architettura.
Paradossalmente, in città come Los Angeles, gli atei hanno cominciato a costruirsi «mega-chiese atee». Hanno mantenuto tutto: la chiesa, l’omelia, la questua, i dieci comandamenti, i canti, la comunità, la funzione domenicale e l’idea del servizio ai più svantaggiati. L’unica cosa che manca è Dio.
L’iniziativa è bizzarra e suscita stupore, ma in fondo dimostra che anche gli atei hanno i loro idoli, più o meno consapevoli. Hanno sostituito Dio con un surrogato, preferendo trovare dentro di sé una verità che va cercata al di fuori e al di sopra di loro.
Che forma avranno questi templi dell’ateismo? Forse finiranno con l’adottare linguaggi classici e neostili, a differenza delle chiese cattoliche che hanno assunto configurazioni sempre più secolarizzate e adatte a visioni orizzontali, quelle della morte di Dio. Non sono più luoghi sacri, dell’incontro con il trascendente. Sono «non luoghi», degni di una società liquida. Sono pensate per essere luogo di incontro dei cristiani fra di loro, non con Dio, e sono invece ambienti in cui ci si sente straordinariamente soli e abbandonati.
Prendiamo il caso della chiesa madre di Menfi (fìg. 6), ricostruita da Vittorio Gregotti nelle forme scatolari da lui predilette, dopo il terremoto del Belice, che non aveva compromesso del tutto l’edificio classico. La nuova «facciata», un muro quasi impenetrabile e muto, allontana i fedeli piuttosto che attrarli. È sormontata da un telaio di cemento a faccia vista, che dovrebbe incorniciare il mare per chi lo osservasse dalla pretestuosa «cavea» sul tetto. L’interno è come un’arnia, disarmonica e labirintica. Distrutta l’abside della chiesa antica, i banchi sono stati ruotati verso un altare laterale, in un’aula tormentata da sgraziati piedritti cilindrici e un graticcio di travi disadorne.
Rieducazione del gusto?
Alla presentazione del concorso di idee per una nuova chiesa in un altro paese siciliano, dal pubblico si è levata una lamentela sull’inadeguatezza dell’arte sacra contemporanea rispetto alle richieste di bellezza manifestate dai fedeli. I responsabili dell’iniziativa hanno risposto che sarebbero stati organizzati seminari appositi per aiutare i parrocchiani ad apprezzare gli orientamenti più aggiornati. Ormai siamo arrivati a questo, ai campi di rieducazione di coloro che ancora conservano un briciolo di buon senso.
Un popolo che è ancora una maggioranza, per quanto silenziosa, tiranneggiata da una minoranza clamorosa. Serve urgentemente un cantore del nuovo Arcipelago Gulag, immenso, in cui è stato trasformato il mondo occidentale. Chi l’avrebbe detto che la democrazia avrebbe sortito effetti architettonici peggiori delle dittature post hegeliane del Novecento?