Juan Donoso Cortés,
Marchese di Valdegamas
Maestà,
la franca e generosa libertà che V. M. si è sempre degnata di concedere a coloro che hanno avuto la fortuna di starle accanto, ed a me in particolare, mi dà l’audacia necessaria per sottoporre all’alta saggezza di V. M. alcune osservazioni, in occasione del prossimo avvenimento che avrà una influenza fortissima sull’avvenire della nazione spagnola.Il felice giorno del parto di V. M. si avvicina, e tale giorno sarà lieto per tutti, compatrioti e stranieri, perché con esso una delle più belle monarchie d’Europa avrà un erede.
Un tale evento sarebbe stato fausto in ogni altra circostanza ed in ogni tempo: ma particolarmente fortunato e memorabile sarà oggi, che tutte le monarchie vanno perdendo terreno, e che le più stabili e potenti o sono già crollate o vacillano sotto la violenza delle tempeste.
I giornali della capitale hanno già annunciato parte dei grandi festeggiamenti che per tale ragione si preparano; e benché nessuna cosa sembri più di questa naturale e conforme alle antiche usanze, di celebrare con feste e divertimenti un sì fausto evento, V. M. mi permetterà, tuttavia, di farle osservare che la diversità dei tempi esige una analoga diversità nei costumi, e che i tempi odierni non ci consentono di continuare le usanze dei nostri padri senza introdurre le necessario modifiche. I nostri avi vissero in periodi di grande calma per le Nazioni, e di splendore e grandezza per le Monarchie; noi. invece, viviamo in tempi di così grande desolazione e angoscia che nessuno ormai sa più dire se Monarchia e Nazioni non corrano il rischio di naufragare insieme.
Poiché, nello scrivere a V. M., non ho intenzione di fare una dissertazione sulle vie attraverso le quali l’Europa è giunta a sì deplorevole situazione, mi limiterò solamente a far rilevare un fatto notorio.
L’Europa non è tormentata da molte e differenti malattie, ma da una sola, epidemica e contagiosa, che, dopo aver presentato dappertutto lo stesso complesso di sintomi, porta ovunque allo stesso esito.
L’unica differenza tra le varie Nazioni consiste nel fatto che alcune sono ancora nel periodo di incubazione, altre invece hanno raggiunto l’ultimo stadio; le prime cominciano a soffrire per il male cui soccomberanno, le altre stanno morendo. Tale è oggi lo stato dell’Europa.
Questa malattia, che è contagiosa, epidemica, unica, si compendia nella sollevazione universale di coloro che soffrono la fame contro i ricchi. Se si arriverà a un conflitto, V. M. non potrà aver dubbi sull’esito, ove consideri da una parte il numero degli affamati, e dall’altra quello degli abbienti.
Sembrerà certamente a V. M., come sembra a me, stravaganza e follia credere che questa generale tendenza alla rivolta, che affligge tutti i Paesi e contemporaneamente tutte le classi indigenti, non derivi da una causa altrettanto generale. Poveri e ricchi sono sempre esistiti, nel mondo: ma finora non v’era mai stata una simile guerra, universale e simultanea, dei poveri contro i ricchi. Le classi povere, Maestà, si sollevano oggi contro quelle ricche perché la carità di queste verso quelle sì è raffreddata.
Se i ricchi non avessero perduto la virtù della carità, Dio non avrebbe permesso che i poveri perdessero la virtù della pazienza. La perdita simultanea di queste due virtù cristiane spiega i grandi sconvolgimenti che turbano le società e le gravi scosse che il mondo sopporta. La pazienza non tornerà nel cuore del povero se la carità non tornerà nel cuore del ricco. Oggi, Signora, questa è la più imperiosa di tutte le necessità sociali; soddisfarla, o adoperarsi perché sia soddisfatta, deve essere oggi il compito più proprio e più nobile dei re.
Non ignoro che l’augusta figlia di V.M., seguendo le orme della sua eccelsa madre, considera perduto quel giorno in cui non ha soccorso una sventura. E come potrei ignorarlo, avendo avuto la fortuna e l’onore di vedere coi miei stessi occhi nascere, crescere e rinvigorire nel suo nobile e gentile cuore la più pura e ardente carità?
Ma non basta che io non lo ignori ne che gli sventurati che ella soccorre le sappiano; è necessario qualcosa di più, è necessario che lo sappia tutta la Nazione, e che non l’ignori l’Europa. Quando il Signore, rivolgendosi ai suoi discepoli, insegnò loro che conviene fare l’elemosina in modo che una mano non sappia ciò che ha dato l’altra, parlò così perché tra i suoi discepoli non c’erano re.
Un re non è una persona privata, è una persona pubblica, la quale non fa il bene solamente per santificare se stesso, ma anche perché gli altri imparino col suo esempio a santificarsi. La nazione spagnola è perduta se non si argina con decisione la rovinosa corrente che trascina le classi ricche e le spinge tutte verso l’abisso.
Questa, Signora, non è una vana declamazione. La Spagna è agli ultimi anni del regno di Luigi Filippo e alla vigilia del cataclisma di febbraio. Io chiedo che si faccia qui ciò che non si fece lì; un grande esempio dato dal trono alle classi ricche. Io chiedo che non ci siano feste : o. se debbono esserci, siano poche ed esclusivamente per i poveri; che invece di grandi e costosi ricevimenti per i ricchi, si facciano grandi elemosine, più grandi di quelle che furono elargite nei tempi passati, e più generose di quelle che si è stabilito di dare per seguire la tradizione, in favore dei bisognosi.
Forse questo altissimo esempio di disinteresse e di virtù contribuirà a far retrocedere le classi ricche dalla cattiva strada su cui sono avviate, e a farle ritornare virtuose e disinteressate. In ogni caso, Maestà, se pure dovranno soccombere, almeno il Trono, seguendo la via che indico, potrà resistere felicemente all’impeto dei furiosi uragani. I poveri sono amici di Dio, e Dio non permetterà che cada un trono su cui è assisa una regina madre e amica dei poveri.
Le Monarchie cristiane hanno raggiunto la prodigiosa durata di quattordici secoli solo perché Dio pose in esse una segreta e misteriosa virtù, in forza della quale si sono adattate, attraverso lente e progressive trasformazioni, al variato corso dei tempi. Quando ancora erano deboli tutti i vincoli sociali, la Monarchia si presentò ai popoli come un vincolo di forza.
Quando gli insolenti baroni del feudalesimo mettevano a sacco le città, i popoli videro nei re il simbolo della giustizia. E poiché in entrambe le epoche le Monarchie seppero soddisfare tutte le necessità sociali, dapprima con la forza e poi con la giustizia, le nazioni, riconoscenti, giunsero progressivamente a fare dei propri sovrani dei re assoluti.
Oggi, Maestà, comincia per i sovrani una nuova epoca, e guai a coloro che ne disconoscono i bisogni! Non si tratta ormai di unire con un vincolo forte varie tribù nomadi e guerriere, poiché le nazioni sono già definitivamente costituite. E nemmeno si tratta di togliere l’amministrazione della giustizia dalle mani di quegli insolenti baroni che chiamavano diritto il saccheggio e giustizia la vendetta; l’amministrazione della giustizia fu loro tolta per sempre e posta nelle mani dei tribunali incaricati di applicare rettamente e imparzialmente la legge.
Oggi si tratta solo di distribuire convenientemente la ricchezza, che è molto mal distribuita. Questa, Signora, è l’unica questione che oggi si agita nel mondo. Se i governanti non la risolvono, ci penserà il socialismo e la risolverà mettendo a sacco le nazioni. Orbene: il problema non ha che una soluzione, buona, pacifica e conveniente.
È necessario che la ricchezza, accumulata da un gigantesco egoismo, sia distribuita in elemosina su grande scala. Io ho ancora fede nelle Monarchie europee, e particolarmente in quella spagnola. Io non posso credere che nella presente occasione vengano meno, per la prima volta dopo tanti secoli cattolici, al mandato speciale che hanno ricevuto da Dio; e cioè di sopperire meglio e più compiutamente di qualsiasi altra istituzione, nella sua prodigiosa flessibilità, a tutte le necessità sociali.
Non bisogna, tuttavia, abbandonarsi a pericolose illusioni. Il compito di re va facendosi ogni giorno più difficile e penoso; e ora più che mai può dirsi che regnare è un grandioso atto di abnegazione e un sublime sacrificio. Per regnare non basta essere forte e giusto; per essere veramente giusto e veramente forte è necessario essere caritatevole: e la carità, Signora, è la virtù dei santi. Solamente i santi possono oggi salvare le nazioni, che non hanno altra malattia, a guardar bene. se non la mancanza delle virtù cristiane. Dio permette la condannabile impazienza dei poveri per castigare l’insolente egoismo dei ricchi; e il colpevole egoismo dei ricchi per castigare i poveri, trascinati dalle loro condannabili impazienze.
Postomi ormai a scrivere questa lunga lettera, non lascerò la penna se non dopo aver esposto a Vostra Maestà tutto il mio pensiero. Non sono così insensato da dare a ciò che propongo una importanza che non ha. Se la Monarchia spagnola è inferma (e lo è gravemente, senza alcun dubbio) la sua guarigione non le verrà certo perché la regina di Spagna, invece di dar feste, elargisce elemosine reali. – Non mi sfugge – e come potrebbe, essere altrimenti? – che tra quella malattia e questo rimedio non c’è la debita proporzione.
La Monarchia non si salverà con l’essere splendida e generosa coi poveri in una occasione solenne; i ricchi non perderanno di colpo il loro egoismo perché la regina da loro l’esempio di una grandiosa munificenza in un giorno memorabile. Tutta l’importanza di questo magnifico esempio è che esso divenga un punto di partenza per una nuova epoca sociale e per un nuovo sistema di governo. Tutte le grandi istituzioni del Cattolicesimo sono lentamente venute meno, una dopo l’altra, sotto la spinta delle rivoluzioni: che tale esempio sia il punto di partenza della completa restaurazione in Spagna di tutte le istituzioni cattoliche.
La rivoluzione ha scacciato dalla nostra legislazione politica ed economica lo spirito del cattolicesimo; che questo esempio sia il punto di partenza verso la completa restaurazione dello spirito cattolico (nella nostra legislazione economica e politica. Il diritto di parlare e insegnare alle genti, che la Chiesa ricevette dallo stesso Dio nelle persone degli apostoli, è stato usurpato, a danno della grandezza spagnola, da un branco di oscuri giornalisti e di ignorantissimi ciarlatani. II ministero della parola, che è allo stesso tempo il più augusto e il più invincibile fra tutti, dato che per esso fu conquistata la terra, ovunque s’è tramutato da ministero di salvezza in desolante ministero di rovina.
Così come nulla e nessuno potè contenere i suoi trionfi nei tempi apostolici, nulla e nessuno potrà contenere oggi le sue distruzioni. La parola è stata, e sarà sempre la regina del mondo. La società perisce perché ha tolto alla Chiesa la sua parola, che è parola di vita. Le società sono sfinite e affamate da quando non ricevono da Essa il suo pane quotidiano. Ogni proposito di salvezza sarà vano se non verrà restaurata in tutta la sua pienezza la grande parola cattolica. L’ultimo concordato fu un eccellente punto di partenza per questa restaurazione, ma tale rimane, e nient’altro.
Io non debbo nascondere a V. M. la verità, cioè che è necessario rimuovere e cambiare tutto, e non lasciare dell’edificio rivoluzionario pietra su pietra.
In definitiva la rivoluzione è stata fatta dai ricchi per i ricchi, e contro i re e i poveri. Lascio tale dimostrazione da parte non perché sia difficile, ma solo troppo lunga. Mi contenterò solo di osservare che, per mezzo del censo elettorale i ricchi hanno relegato i poveri nel limbo sociale; e che, per mezzo delle prerogative parlamentari, hanno usurpato le prerogative della Corona. Saldi su questa posizione inespugnabile, si sono impudentemente divisi il bottino tratto dai conventi; vale a dire che, dopo aver reclamato il Potere esclusivamente per sé in qualità di ricchi, hanno fatto in qualità di legislatori una legge che raddoppia la loro ricchezza.
Dal giorno della Creazione ad oggi, il mondo non ha mai visto un esempio più vergognoso di audacia e di cupidigia. Ciò serve, Maestà, a spiegare questi grandi e improvvisi scompigli a cui tutti guardiamo con occhi spaventati. Ciò che vediamo non è quello che crediamo di vedere, è un’altra cosa; è l’ira di Dio che passa, e al suo passaggio fa tremare le nazioni.
Tra gli errori il più funesto è quello di affermare, come fanno alcuni, che questi timori sono prematuri in Spagna, perché in Spagna, non ci sono socialisti. Perché in Spagna non vi fossero socialisti sarebbe necessario che le medesime cause non producessero gli stessi effetti e che il socialismo non fosse una malattia contagiosa; sarebbe necessario, soprattutto, che la Spagna non fosse una società cattolica, perché il socialismo è un male che aggredisce inesorabilmente, e per un alto disegno di Dio, ogni società che essendo stata cattolica ha cessato di esserlo.
Tale osservazione è nuova, ma Vostra Maestà mi permetta di dirle che è vera e profonda. Dio è misericordioso con coloro che lo seguono, blandamente giusto con coloro che lo ignorano, spietato con coloro che, conoscendolo, lo disprezzano; per questo pose nelle nazioni cattoliche i tabernacoli della sua gloria; per questo condannò le nazioni pagane agli eventi della loro alterna fortuna; per questo riserva il socialismo, la più grande delle catastrofi sociali, alle nazioni apostate. La Spagna, o tornerà ad essere cattolica o sarà infine socialista. Che dico? Sarà? Lo è già, Signora; solamente non pare che lo sia, perché essa stessa non lo sa. Il tisico è corroso dalla tubercolosi, anche se ignora il nome della sua malattia.
In fondo al cammino che ora le ho indicato, e solo in fondo ad esso, sta la salvezza della Spagna e della sua gloriosa Monarchia. Che un Ministero resti o cada, che comandi il partito puritano o il conservatore, che il nome di qualcuno risplenda o si eclissi, che un generale sguaini la spada o la rinfoderi, che in questa lotta di Ministeri la fortuna sia per gli uni o per gli altri, tutto ciò non serve che a far cadere l’edificio con maggior fracasso e ignominia. Dio ha fatto le nazioni curabili; ma non sono gli intrighi, bensì i princìpi, quelli che hanno la divina virtù di curare le nazioni inferme.
Vostra Maestà è degna di comprendere l’importanza di questi grandi princìpi. Vostra Maestà che non domanda, né può, né deve per norma generale intervenire nelle questioni di Stato, non può tuttavia. né vuole, né deve consentire a che la verità non si incammini verso le alte regioni politiche, e che lo Stato perisca miseramente.
Nelle crisi supreme, e suprema è quella che attraversa l’Europa, non c’è nessuno che in date circostanze, e con la debita circospezione, non abbia il diritto, e fino ad un certo punto il dovere, di dire francamente e liberamente la verità con voce a un tempo stesso rispettosa e austera. Vostra Maestà è stata sempre così buona con me, che non ho esitato un solo istante ad esporle, e, sia pure debolmente, ciò che penso sulle cose di Spagna, di cui Vostra Maestà, per bontà e affetto, è protettrice e madre.
Nello scrivere questa lettera non mi prefiggo un fine determinato; questa lettera è una conversazione che, senza la distanza, sarebbe stata verbale e non scritta. Nei mesi scorsi credetti di poter parlare con il duca; ma, privato di quest’ultima risorsa, ho deciso di scriverle questa lettera che pongo sotto la protezione della Sua benevolenza.
Dio conceda a Vostra Maestà molti e felici anni di vita.
Ai regali piedi della Maestà Vostra,
JUAN DONOSO CORTES.
NOTE
* Maria Cristina dei Borboni di Napoli (1806-1878) fu reggente di Spagna dal 1833 al 1840. Alla morte di Ferdinando VII (1833), che modificando le norme della successione, aveva lasciato erede la figlia Isabella II, il fratello di lui, don Carlos, si levò a contrastare il trono alla piccola nipote e fu appoggiato dalla nobiltà, dal clero e da tutto l’elemento conservatore. La reggente, Maria Cristina (che aveva sposato morganaticamente in seconde nozze F. Munoz), cercò allora il favore dei liberali, concedendo nuovamente la costituzione e alleandoli con la Francia e con l’Inghilterra. Dopo fiera lotta tra “carlisti” e “cristini” don Carlos dovette esulare. Donoso Cortés fu uno dei consiglieri di Maria Cristina; i documenti conservati nell’archivio di Don Benito lo provano. Tuttavia, dopo la conversione del Cortés i rapporti con la regina andarono raffreddandosi, a misura che Donoso Cortés si allontanava dal liberalismo