di Eugenia Roccella
Quando è stata resa nota la sentenza della Corte costituzionale sulla legge 40 per la procreazione assistita, non ci sono state reazioni indignate e allarmi eccessivi. Le modifiche al testo sono apparse molto contenute, e non hanno alterato nella sostanza l’impianto della legge.
Le motivazioni della sentenza, pubblicate pochi giorni fa, sono invece più preoccupanti. Si parla, per esempio, di “deroghe” al divieto di crioconservazione, ma nel testo della legge non ce n’è traccia. Una legge non può prevedere deroghe implicite e vaghe, ma solo esplicite e ben definite, e la Consulta, se avesse voluto inserire qualche precisa eccezione, avrebbe avuto tutto il potere di farlo.
Nelle stesse motivazioni la salute della donna è il criterio con cui misurare l’appropriatezza delle pratiche, ma poi si sostiene la necessità di “bilanciare” la tutela dell’embrione con “la tutela delle esigenze di procreazione”; senza considerare che questo, oltre a non essere previsto in nessuna parte della legge, può costituire un rischio per quella salute femminile che si vorrebbe proteggere.
Se si accettasse il principio, infatti, si potrebbero attuare stimolazioni ovariche pesanti e rischiose, come si fa in altri paesi; mentre con la legge 40 le sindromi da iperstimolazione ovarica (il pericolo più grave e comune per le donne che si sottopongono a Pma) in Italia sono crollate.
La sensazione è che la Consulta sia intervenuta sulla legge in modo misurato, ma abbia poi affidato alle motivazioni un’interpretazione sufficientemente ambigua da aprire la strada ad altri interventi della magistratura, e magari fornire a qualche centro di Pma l’alibi per avviare pratiche fuori dalla legge.
Basta verificare i dati dell’Istituto superiore di sanità, e paragonarli a quelli di altri paesi, per accorgersi che non solo la legge 40 funziona, ma protegge la donna e l’embrione, evitando il commercio di ovociti, le stimolazioni ormonali selvagge, la crioconservazione massiccia di embrioni, pratiche odiose come la riduzione fetale.
Ma questo non convincerà mai chi vuole cambiarla, magari smontandola a colpi di interventi della magistratura. La prospettiva a cui si mira è l’eugenetica, la selezione degli embrioni per arrivare a una procreazione sottratta il più possibile alla sua naturalità e ricreata in laboratorio.
Il primo obiettivo è la diagnosi preimpianto, con cui si scartano gli embrioni “difettati”, come fossero un semplice prodotto di fabbrica riuscito male. È iniziata oggi la discussione tecnica su una raccomandazione europea sulle malattie rare, le quali, proprio per la scarsità di pazienti in un singolo paese, hanno bisogno di superare un approccio esclusivamente nazionale.
Nel testo si parla di terapie, farmaci orfani, diagnosi tempestive e consulenze genetiche, insomma di cure. Ma il 13 aprile il Parlamento europeo ha votato un emendamento (che i ministri europei possono non accogliere nella raccomandazione) che invita alla “selezione degli embrioni sani” come forma di prevenzione.
Una precedente versione dell’emendamento, ancora più esplicita, indicava nella selezione embrionale il metodo per “eradicare” le malattie rare. Non la cura, dunque, ma l’eliminazione del malato, tanto più facile. L’idea che ispira i detrattori della legge 40 è questa: la possibilità di introdurre l’eugenetica, non più con l’autoritarismo statale ma grazie alla scelta individuale, accuratamente orientata dal marketing del figlio perfetto.
Le coppie, soprattutto le mamme, sono soggetti sensibili alle pressioni esterne quando è in gioco la salute del bimbo che deve nascere, e si fa presto a trasformare l’informazione sanitaria in pubblicità ingannevole o quantomeno non obiettiva.
La nostra legge è costruita per dare anche alle coppie infertili la possibilità di procreare, attraverso un aiuto medico, non per selezionare i bambini in base a criteri scientificamente discutibili.
Se vogliamo introdurre l’eugenetica in Italia, apriamo un vero dibattito: la cosa peggiore sarebbe se entrasse di soppiatto, camuffata da libera scelta, da tecnologia avanzata, attraverso le sentenze di qualche tribunale amministrativo, ignorando la volontà popolare espressa dal Parlamento e da un voto referendario. La cosa peggiore sarebbe se nemmeno ce ne accorgessimo, evitando di discuterne e confrontarci apertamente