Articolo pubblicato su Il Timone febbraio 2004
Gerard-Francois Dumont (Sorbona): “La forte denatalità porta al declino della civiltà, passando dalla crisi economica e sociale. L’immigrazione non risolve il problema, anzi peggiora quello dei Paesi in via di sviluppo”.
Intervista condotta da Riccardo Cascioli
Nel 1991 scrisse un libro per mettere in guardia dal suicidio demografico dell’Europa. Gerard-Francois Dumont, economista e demografo, è professore all’Università La Sorbona di Parigi e fondatore nonché direttore della rivista Population et Avenir. Al suo attivo ha circa 150 pubblicazioni, tra cui il libro Il festino di Crono. Il riferimento è al dio greco Crono che giunse a divorare i propri figli pur di restare dominatore assoluto del mondo. Fatto è che, dati alla mano, chi divora i propri figli ha già segnato anche il proprio destino.
Professor Dumont, in che modo la denatalità porta al suicidio?
“Possiamo certamente imparare dalla storia una lezione crudele: Atene, Roma, Venezia, grandi civiltà scomparse la cui eredità ha potuto essere ritrovata con difficoltà, a volte dopo secoli. Lo schema è sempre lo stesso: denatalità, invecchiamento, declino e infine decadenza. Ciò che accade in Europa oggi, quindi, non è una novità. Ciò che è nuovo è l’intensità e la durata del fenomeno della caduta di fertilità, iniziato negli anni Sessanta. Dapprima, in modo graduale e costante nell’Europa del Nord, più tardi ma in modo molto brusco nell’Europa mediterranea. L’invecchiamento della popolazione, in ogni caso, porta a una difficoltà nella trasmissione dei valori culturali e a problemi di dinamismo economico.”
Lei sostiene che l’attuale difficoltà economica dell’Europa ha una componente demografica?
“Prima ho fatto riferimento a grandi civiltà del passato, però basta guardare all’Europa del XX secolo; i periodi d’oro del nostro continente, dal punto di vista economico e politico, sono quelli precedenti alla Prima Guerra mondiale e successivi alla Seconda Guerra mondiale, ovvero periodi segnati da una primavera demografica, con indici di fecondità che negli anni ’50 risalgono ad un livello compreso tra i 2,5 e i 3,5 figli per donna.
Tra le due guerre invece l’Europa è in crisi, ma è anche il periodo in cui si afferma il pensiero neomalthusiano e vale la pena notare come Hitler salga al potere nel 1933 in una Germania dove la fecondità (1,6 figli per donna) era di tre volte inferiore a quella di 30 anni prima. Ma guardando più vicino a noi possiamo notare l’evoluzione della Germania nell’ultimo ventennio: negli anni ’80 ha avuto un’importante perdita di popolazione e l’economia è entrata in crisi.
Poi negli anni ’90 ha ritrovato il dinamismo economico, ma soprattutto grazie all’immigrazione dall’Est europeo. Caso strano, quando nel 2000 la Germania ritorna in deficit demografico, l’economia si ammala di nuovo.”
Eppure dalle battaglie politiche di questo periodo siamo portati a pensare che da un punto di vista economico il problema riguardi soltanto le pensioni
“Le pensioni costituiscono forse l’aspetto più appariscente, ma il problema riguarda l’economia nel suo complesso. Se pensiamo all’Italia ad esempio potremmo facilmente dimostrare come l’invecchiamento della popolazione incide significativamente sulla crisi della Fiat. Il mercato dell’auto, infatti, ha bisogno dei giovani, la fascia sociale più propensa all’acquisto.
Ma questa fetta di consumatori si è molto ridotta e solo le persone agiate possono permettersi il cambiamento dell’auto, così che il mercato è molto meno dinamico. In realtà, l’invecchiamento della popolazione cambia l’intera struttura del consumo, non incoraggia di certo l’economia, e soprattutto non incoraggia la ricerca e gli investimenti in prodotti nuovi. Non è un caso che l’Europa investe pochissimo nelle nuove tecnologie, ad esempio l’e-commerce e i prodotti hi-tech. In questo settore importiamo praticamente tutto dagli Stati Uniti, che invece hanno una grande economia anche grazie al loro dinamismo demografico”
Lei ha fatto cenno anche ad un problema culturale.
“Anche questo è molto attuale perché in una società che non fa più figli tende a crearsi uno squilibrio nel rapporto tra il numero di bambini autoctoni e quelli immigrati, rendendo più difficile l’assimilazione dei valori e quindi l’integrazione.”
Quindi lei non crede che l’immigrazione, come alcuni sostengono, possa essere un rimedio alla denatalità dei nostri Paesi?
“Assolutamente no. Anzitutto per il motivo appena detto: per bilanciare la perdita di popolazione avremmo bisogno di attirare rapidamente decine di milioni di immigrati, cosa che creerebbe problemi culturali inimmaginabili. Ma c’è un secondo motivo molto importante: se l’Europa attira forza lavoro dai Paesi in via di sviluppo, questo significa anche che da quei Paesi attira anche le forze migliori, impedendo di fatto lo sviluppo di quei Paesi. Pensare perciò di risolvere i nostri problemi con l’immigrazione è un metodo molto egoista: se si vuole davvero aiutare lo sviluppo del Terzo Mondo, si deve anche trovare il modo di non danneggiarlo.”
E allora qual è la strada che deve intraprendere l’Europa?
“L’unica soluzione è quella di ritrovare in fretta un dinamismo demografico in grado di abbassare l’età media della popolazione. E in questa prospettiva sono allora importanti misure che aiutino la famiglia e i giovani.”
Di politiche per la famiglia si parla già da molto.
“Si parla, appunto. La questione è quello che si fa. Tra l’altro non condivido la tendenza di alcuni Paesi a confondere tra politica sociale e politica familiare. La prima è una politica di solidarietà momentanea per aiutare un soggetto a vedere soddisfatto un suo bisogno. La politica familiare è invece una politica di solidarietà fra le generazioni, un’affermazione di durata in una società dominata dal consumo immediato.
Considerare la famiglia un semplice oggetto di una politica sociale significa fare della famiglia un oggetto di pietà e trasmettere un’immagine molto triste. La politica familiare invece deve permettere alla famiglia di assumersi liberamente le proprie responsabilità. E ogni potere pubblico che influenzi la vita delle famiglie deve tendere a questo, dalla pubblicità al mondo del lavoro.”