Giuseppe Brienza
Nel febbraio scorso il ministro dell’interno islandese, Ögmundur Jónasson, ha istituito un gruppo di lavoro che sta lavorando ad un progetto di legge con l’obiettivo dì bandire totalmente la pornografia online dall’isola nordica, in Islanda, una legge in vigore già da diversi anni proibisce la stampa e la distribuzione di materiale pornografico ma il divieto, finora, non è mai stato esteso anche ai contenuti digitali.
Lo stesso governo a guida socialdemocratica al quale appartiene Jónasson aveva due anni fa convinto il Parlamento islandese a dichiarare fuorilegge i locali al luci rosse (c.d. “strip-club”), colpevoli di violare i diritti civili delle donne che vi “lavorano”. La legge era stata fortemente voluta dal Primo ministro in persona, la sessantenne Jóhanna Sigurðardóttir, primo capo di governo al mondo dichiaratamente omosessuale.
La palla è ora in mano al nuovo governo islandese di centrodestra. II fatto è che, dal 23 maggio scorso, un nuovo governo di centro-destra è subentrato a quello a guida Siguróardóttir, formato da una coalizione fra il liberal-centrista “Partito Progressista” e l’euroscettico “Independence Party”, dal quale proviene il sostituto di Jónasson al Ministero dell’interno, la giovane (45enne) politologa Hanna Birna Kristjànsdóttir. Come si legge sul sito ufficiale del governo islandese, il punto centrale della politica del nuovo esecutivo consisterà nel «miglioramento della condizione della famiglia islandese» che, unitamente alla «promozione del commercio e dell’occupazione, creerà un valore aggiunto per il benessere della nazione nel suo complesso» (cit. in “New Icelandic Government takes office”, 23.5,2013).
Paiono quindi esserci, da queste premesse, forti possibilità per il proseguimento del lavoro del precedente governo con l’introduzione a breve del bando alla pornografia on line, provvedimento che non potrebbe lì essere accusato di favorire l’industria pornografica “tradizionale” perché, come detto, nel Paese nordico esiste anche il contemporaneo divieto della pornografia tout court.
Altrove, se l’esempio islandese si concretizzasse e fosse imitato, ne guadagnerebbero invece realmente i produttori dì riviste e dvd hard che, da tempo, vanno lamentandosi della mancata convenienza di comprare film e affini dal contenuto pornografico da quando su internet circola la grande messe di materiale gratuito di facile accesso. E, fra l’altro, per la “legge dell’estremizzazione” che connota tali “appetiti”, si tratta di materiale molto più attraente di quello commerciabile poiché totalmente privo di controlli.
Quanto succede in Islanda è osservato con grande attenzione da una parte non irrilevante dell’opinione pubblica britannica, Paese con il quale come noto l’isola nordica è strettamente collegato dal punto di vista sia culturale sia economico. Infatti, se il bando al porno on line fosse approvato dal Governo islandese, non è improbabile che anche nel Parlamento britannico possano farsi avanti proposte del genere, dato che, nell’aprile 2012, quando fu approvata la relazione finale dell’Inchiesta Parlamentare sulla “Child Online Protection”, fu pressoché unanime fra gli operatori del settore e l’associazionismo la conclusione è che i Provider di Servizi Internet (ISP) e il governo avrebbero dovuto fare di più per tenere al sicuro i bambini durante la navigazione in rete (cfr. John Flynn, Internet e pornografia. Un rapporto britannico richiede nuove misure, in “Agenzia Zenit”, 30 aprile 2012).
In Italia calo dì attenzione pubblica sui pericoli della pedopornografia E in Italia? Il problema della pornografia minorile, dopo l’ubriacatura sessantottina, è ritornata all’attenzione dell’opinione pubblica negli anni Ottanta. Nel 1984 viene ad esempio pubblicato il primo Rapporto sulla Pornografia in Italia dell’Eurispes, la prima ricerca del genere nel nostro Paese, realizzata dall’Istituto di ricerca diretto da Gian Maria Farà con il patrocinio del Pontificio Consiglio per le Comunicazioni sociali. Purtroppo, dopo la pubblicazione nel 2005 del 5° Rapporto, non ne sono più usciti e, l’argomento, è oggetto solo “di passaggio” negli studi delt’Eurispes, nell’ambito dei Rapporti Nazionali sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza.
Anche la rappresentanza della Santa Sede negli organismi internazionali, da qualche anno a questa parte, sembra abbia “mollato l’osso”. Non si ricordano, infatti, successive importanti prese di posizioni ufficiali da quando, nell’ottobre 2010, la consulente della Missione vaticana presso le Nazioni Unite, Cathy Murphy, davanti al Terzo Comitato dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite durante una discussione generale sul progresso delle donne, invocò «leggi contro la prostituzione, la pedopornografia e lo sfruttamento sessuale devono essere rafforzare per proteggere meglio donne e bambini» (cit. in La Santa Sede esorta a un maggior rispetto per le donne. Chiede leggi contro prostituzione e pornografia, in “Agenzia Zenit”, 13 ottobre 2010).
A questo calo generale (o quasi) di attenzione non corrisponde però una diminuzione del fenomeno che, come documenta il Rapporto sulla criminalità in Italia, negli anni 2000 rimane stabile sia per quanto riguarda il numero di delitti denunciati dalle Forze di polizia all’A.G. per i reati strettamente connessi dello sfruttamento della prostituzione e della pornografia minorile (tasso del 2,2% per 100,000 abitanti, cfr. p, 33 del Rapporto, pubblicato dal Ministero dell’interno nel 2008), sia per quelli relativi al diretto sfruttamento e favoreggiamento della pornografia minorile 2004, attestatosi al 0,2% per 100,000 abitanti (ibidem,), e sia, infine, per i casi di produzione pedopornografica minorile, che registra circa un’incidenza dello 0,3% di casi ogni 100.000 abitanti (cfr. p. 34 del Rapporto cit,).
Il “decreto Gentiloni” del 2007 contro la pedopornografia in Rete Nel gennaio 2007 è stato l’allora ministro PD delle Comunicazioni Paolo Gentiloni ad approvare un decreto per il diretto contrasto del fenomeno della pedopornografia in Rete, il provvedimento, realizzato di concerto col ministero per le Riforme e le Innovazioni nella Pubblica Amministrazione, stabiliva che entro 90 giorni dalla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, i fornitori di connettività c.d, internet Provider – avrebbero dovuto dotarsi di sistemi in grado di oscurare entro 6 ore dalla comunicazione ricevuta, i siti che diffondano, distribuiscano o facciano commercio d’immagini pedopornografiche.
Nel decreto era anche disposto che il “Centro nazionale per il contrasto della pedopornografia” comunichi ai fornitori di connettività alla rete Internet la lista dei siti cui applicare gli strumenti di filtraggio in maniera da garantire l’integrità, la riservatezza e la certezza del mittente del dato trasmesso. Con tale provvedimento si completava il percorso delineato fin dal 1998, con la legge n. 269/98 “Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù”, successivamente integrata dalla legge n. 38/2006 “Disposizioni in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo internet”.
Quest’ultima in particolare aveva previsto l’istituzione, da parte del Ministero dell’Interno, del citato “Centro nazionale per il contrasto della pedopornografia, sotto la responsabilità della Polizia Postale e delle Comunicazioni, con il compito di raccogliere tutte le segnalazioni, provenienti anche dagli organi di polizia stranieri e da soggetti pubblici e privati impegnati nella lotta alla pornografia minorile, riguardanti siti che diffondono materiale concernente l’utilizzo sessuale dei minori avvalendosi della rete, il lavoro della Polizia postale, però, nonostante la buona volontà degli operatori e la collaborazione prestata dall’associazionismo, non si dimostra più in grado di arginare il fenomeno, sia per carenza di risorse sia per la “desensibilizzazione” della politica.
Lo denuncia ad esempio chi, come don Fortunato di Noto, presidente di “Meter onlus”, collabora istituzionalmente all’interno del Centro nazionale. Oltre all’azione di repressione penale ed amministrativa, che sicuramente andrebbe incentivata oltre che associata ad un’opera educativa e culturale preventiva, il caso islandese dovrebbe indurre a riconsiderare il tanto deprecato “potere di censura” che, ci insegna la storia, deve essere impiegato con molta cautela, ma forse va ripristinato nei casi dove e’ dimostrabile un danno per la collettività e, soprattutto, su quella parte della società che è più vulnerabile perché meno dotata di maturità e mezzi di difesa come i minori.