ROMA, Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato da monsignor Rino Fisichella, Rettore della Pontificia Università Lateranense, nell’intervenire il 12 febbraio a Roma al XV Convegno Nazionale Teologico Pastorale dell’Opera Romana Pellegrinaggi dal titolo “Cammini d’Europa. Romei, Palmieri e Giacobei”.
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“E’ sentimento del poeta divulgare il mistero e confidarcelo ancora prima dell’azione o almeno di certo durante… Il mistero deve venir fuori, dovessero pure annunciarlo le pietre” [1]. Questa citazione del grande poeta tedesco sono riuscita a farla mia sapendo dove andare a coglierla quasi una pietra preziosa da innestare in questa riflessione.
Non posso dire la stessa cosa per la citazione che mi è stata affidata come titolo. Essa appare suggestiva, profondamente veritiera e coerente con la storia, ma come spesso avviene anche caduta nell’oblio per la volontà di imporre modelli di pensiero e stili di vita che rifiutano il valore della ricchezza di una tradizione che ci ha preceduto e senza della quale non potremmo vivere il nostro presente né pensare di costruire alcun futuro. Se, quindi, non posso dare coerente citazione al titolo, che costituirà comunque l’oggetto della mia relazione, almeno posso immettermi con lo sguardo fisso sul mistero che, afferma Göthe deve emergere sempre, fossero anche le pietre, paradossalmente, ad esprimerne la necessità.
Il mistero di cui parliamo è quello dello svolgersi della storia e delle vicende che in essa avvengono. La maggioranza delle volte queste prescindono dal volere degli uomini perché c’è sempre qualcosa che regola in maniera autonoma e previdente porta a compimento nonostante noi un piano che è carico di salvezza. Da dove è sorta l’unità di queste terre che ora chiamiamo Unione europea e cosa ha spinto uomini e donne ha mettersi in cammino sfidando tutto e mettendo a rischio la propria vita?
Certamente delle spiegazioni logiche, veritiere e storiche le possiamo dare; eppure, alla base permane un qualcosa che non riusciamo a cogliere pienamente, che sfugge a ogni tentativo della ragione di farlo suo; è il mistero che ci viene incontro, che ci affascina e chiede di essere lasciato nella sua libertà di esprimersi e di agire così come spesso lo percepiamo nella nostra stessa esistenza personale. Il pellegrino che si mette in viaggio sa da cosa è mosso, può darne spiegazione con il desiderio di conoscere nuovi orizzonti, di dare forza alla propria fede e di vivere un’esperienza di comunione e partecipazione.
Nello stesso tempo, percepisce che qualcosa lo spinge ed egli non riesce a comprimere perché è più forte e più convincente; se non si oppone resistenza, questa forza è tale da trasformare e permette di percorrere sentieri che il vero pellegrino scopre come frutto della grazia e dell’amore gratuito dello Spirito che tutto rinnova.
Il lento cammino dell’unità
Esiste, purtroppo, una malattia che contagia non solo le singole persone, ma intere popolazioni, è l’oblio. Nulla, come la dimenticanza, annienta l’uomo e gli fa percepire la sua profonda contraddizione. Ne è testimonianza feconda un brano del Deuteronomio; al popolo che dopo il lungo peregrinare nel deserto sta per entrare nella terra promessa, viene chiesto di evitare la tentazione di dimenticare tutti i benefici ricevuti: “Il Signore tuo Dio sta per farti entrare in un paese fertile: paese di torrenti, di fonti e di acque sotterranee che scaturiscono nella pianura e sulla montagna; paese di frumento, orzo, fichi e melograni; paesi di ulivi, olio, miele; paese dove non mangerai con scarsità il pane, dove non ti mancherà nulla; paese dove le pietre sono ferro e dai cui monti scaverai il rame. Mangerai dunque a sazietà e benedirai il Signore Dio tuo a causa del paese fertile che ti avrà dato. Guardati bene dal dimenticare il Signore tuo Dio così da non osservare i suoi comandi, le sue norme e le sue leggi che oggi ti do. Quando avrai mangiato e ti sarai saziato, quando avrai costruito belle case e vi avrai abitato, quando avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento e il tuo oro e abbondare in ogni cosa, il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile… Guardati, dunque, dal pensare: La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze. Ricordati invece del Signore tuo Dio perché egli ti dà la forza per acquistare ricchezze… Ma se tu dimenticherai il Signore tuo Dio e seguirai altri dei e li servirai e ti prostrerai davanti a loro, io attesto oggi contro di voi che certo perirete” (Deut 8,7-20).
Come si nota, la sapienza antica è sempre maestra di vita. Se l’Europa non è capace di fare una memoria storica che le permette di mantenere viva la sua tradizione culturale e religiosa, non potrà pretendere di spiccare il volo. L’icona di Icaro dovrà essere presente per non illudersi che le ali con cui si sta volando sono di cera; dimenticare gli insegnamenti del padre Dedalo può far innalzare per un po’ oltre il labirinto, ma avvicinandosi al sole quelle ali si sciolgono e la caduta è inevitabilmente mortale. A poco possono valere le lacrime di quanti piangono per la morte se prima non ci si è preoccupati di dare solidità di insegnamento e far prendere coscienza dei propri strumenti.
Per alcuni versi, torna alla mente la grande unità che aveva segnato la stagione europea dopo la caduta dell’impero romano e nello stesso tempo balzano immediate le divisioni religiose e sociali che caratterizzarono l’epoca moderna, segnata dalla centralità della scoperta scientifica. Quando, di fatto, una legittima richiesta di autonomia della scienza divenne il pretesto per relegare nell’angolo Dio e i valori fondamentali che avevano segnato il sorgere stesso dell’unità europea. Diventava chiara così la crisi interiore e spirituale che mostra oggi i segni più marcati nella persistente convinzione che si possa facilmente sbarazzarsi del patrimonio culturale di millenni, senza nulla perdere della propria identità. Illusione devastante.
L’Europa è stata veramente se stessa e profondamente grande nel creare forme di autentica civiltà e progresso dei popoli a livello universale, solo nel momento in cui ha trasmesso quei valori costitutivi che le provenivano dalla fede cristiana, avendoli fatti diventare patrimonio di cultura e identità di popoli. Il ritorno di un’unità potrà essere tale solo nella misura in cui verranno poste come fondamenta una serie di valori che esprimono con evidenza l’identità dell’Europa, frutto della sua lunga storia che, nel bene e nel male, ci appartiene e di tradizioni culturali che hanno creato progresso e civiltà nel corso di questi secoli.
Di questo, la Chiesa si sente in prima persona responsabile perché il suo legame con l’Europa è intimo; per molti, i versi i due hanno un destino comune. Hanno percorso insieme un periodo scandito dallo scorrere dei secoli ed entrambe sono segnate dalla stesse vicende storiche. Il cristianesimo, infatti, è legato in modo del tutto peculiare alla storia dell’Europa e questa, da parte sua, ha nel cristianesimo le sue radici più profonde.
Certo, il cristianesimo nasce in quella terra santa che ha visto Gesù di Nazareth percorrere le sue strade e i suoi sentieri annunciando il Regno di Dio. Da quella terra è partito, portando con sé il carico di una tradizione che ben presto con l’acutezza di Paolo ha trovato la sua via maestra e ha esplicitato con un’originalità che non conosce confronti. E’ sufficiente riprendere tra le mani la lettera ai Galati per verificare direttamente cosa si è verificato nei primi anni di vita della Chiesa. La sfida più grande si è giocata proprio sulla forza dell’originalità dell’annuncio di Gesù Cristo che non poteva essere imbrigliato nella logica della legge mosaica, come a più riprese afferma l’apostolo.
La libertà che Cristo aveva portato nel mondo era di tale spessore che non trovava riscontro nel mondo giudaico né in quello greco e romano. Coniugando la libertà con la verità e questa ritrovata nell’amore, si veniva a porre nel mondo una miscela talmente esplosiva che solo le generazioni future avrebbero sperimentato nella loro profondità: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù.. In Cristo non è la circoncisione che conta o la non circoncisione, ma la fede che opera per mezzo della carità… Voi infatti siete stati chiamati a libertà… ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri” (Gal 51.6.13).
Nonostante questo, il cristianesimo ha trovato in Europa il suo ambiente vitale; ciò che le ha permesso di esprimere al meglio la sua novità con l’aiuto di uno strumentario concettuale e linguistico che alla luce dell’originalità dottrinale ha permesso uno sviluppo culturale senza precedenti. Il cristianesimo, infatti, si immette nelle culture e nelle società non distruggendo il bene di ciò che trova, frutto della saggezza e dell’intelligenza dei popoli, ma lo rinnova e indirizza, facendolo sfociare verso la pienezza di ciò che contiene in nuce. L’espressività più efficace dal punto di vista concettuale, linguistico e culturale è stato realizzato pertanto all’interno di quel tessuto territoriale e culturale che conosciamo come Europa.
Una memoria storica
L’Europa è nata cristiana e solo nella misura in cui rimarrà tale potrà pensare di conservare a pieno le proprie idealità e il proprio apporto originale alla costruzione di una civiltà post-moderna. La Chiesa, da parte sua, è stata davvero la comune e antica madre che ha dato vita all’unione di tanti popoli, che alcuni oggi sembrano voler dimenticare senza comprendere dove affondano le proprie origini. Per comprenderlo a fondo, è necessario ritornare al IV secolo per individuare la grave crisi dell’impero romano e il sorgere del nuovo soggetto storico, culturale e politico rappresentato dalla Chiesa.
Per capire cosa sia avvenuto bisogna partire da Roma e dalla sua storia. Un’immagine suggestiva è offerta nei Fori imperiali; a metà strada, procedendo verso il Colosseo, sono collocate quattro steli di porfido in cui si racconta l’estendersi di questa città. Nel primo riquadro, Roma è segnata con un puntino bianco che emerge solenne nel nero dello spazio intorno: è il tempo delle origini. Al quarto riquadro, ci si trova a spaziare nella grandezza dell’impero sotto Domiziano: è l’epoca d’oro; il porfido nero è costretto a lasciare il posto al bianco della massima espansione.
Roma è stata questa realtà che le ha permesso di essere definita con ragione caput mundi. La storia di Roma, tuttavia, va oltre la storia dell’impero. Il canto dei suoi ultimi poeti mostrano con evidenza che la sua grandezza era ormai al declino; certo, Claudiano poteva ancora scrivere versi quali:
“Haec est in gremium victos quae sola recepit
E Rutilio Numaziano poteva aggiungere:
Alcuni testi di s. Ambrogio, proprio verso la fine della Roma imperiale proverebbero che la presenza del cristianesimo non è stato per Roma un caso fortuito, ma una vocazione particolare che le ha impresso la grandezza che la rende fino ad oggi unica. Se dinanzi al mondo essa fu sempre ricordata come “caput mundi” per essere vero crocevia di incontro, di accoglienza e di convivenza tra i popoli, tanto da farla riconoscere come communis patria, questo è dovuto al cristianesimo che subentrò alla grave crisi di Roma.
Dimenticare in questo frangente il ruolo svolto da papa Leone Magno che nei pressi di Mantova incontra Attila re degli Unni (452), convincendolo a riprendere la via del ritorno o con Genserico re dei Vandali (455) che sulla sua parola non mise Roma a ferro e fuoco significherebbe non comprendere il lento ma inarrestabile imporsi di una nuova visione del mondo che veniva data dal cristianesimo.
Si può parlare di Europa, ma se lo si fa con memoria storica, allora si deve necessariamente parlare dell’opera di Gregorio uno dei primi grandi “europei”. Egli costituisce il vero baluardo non solo per la difesa di Roma da parte dei Longobardi, ma della loro stessa conversione e progressiva civilizzazione. La sua opera fu altamente politica; egli riuscì, infatti, ad imporsi nei confronti dei Longobardi come il vero mediatore con Bisanzio e comprese l’opera di trasformazione che si poteva realizzare mediando tra la lex romana e la cultura longobarda.
Non è forse sua l’azione di inviare 40 monaci in Gran Bretagna per riprendere dopo circa 150 anni il suo rapporto con l’Europa? Eppure quest’opera non gli sarebbe stata possibile se non fosse stato figlio di Benedetto. Ma è possibile pensare anche all’opera di Benedetto e alla sua Regola senza far riferimento alla tradizione romana che egli fu brillantemente capace di coniugare con i principi della fede cristiana?
L’intuizione di porre in giusta sintesi l’attività della contemplazione cristiana e l’agire tipico dell’uomo nel lavoro rappresenta la sinergia coerente che ha reso civili le popolazioni barbare, creando il presupposto indelebile per lo sviluppo della civiltà medievale e moderna. Il sorgere dei monasteri, la creazione delle università hanno permesso lo scambio fruttuoso tra i monaci e i primi maestri dell’epoca.
Anselmo d’Aosta poteva muoversi con facilità fino a Canterbury e divenire vescovo santo di quella città, scrivendo opere memorabili per i suoi monaci d’Inghilterra; alla stessa stregua, Tommaso d’Aquino poteva andare da Maestro Alberto, il grande di Colonia e ambedue insegnare a Parigi senza alcun problema di competenza territoriale. Come si può osservare da questa rapidissima sintesi, il cristianesimo si contraddistinse per conservare non per distruggere la ricchezza culturale e giuridica che aveva trovato a Roma. Il codex Iustinianum (525) solo per fare un esempio sintetico, raccoglie l’intero diritto romano; la Chiesa, però, lo ha gelosamente custodito, posto in atto e trasformato sulla base di quei principi fondamentali di dignità della persona e bene comune che provenivano dal vangelo di Gesù Cristo.
A tutto questo è necessario aggiungere il pellegrinare ininterrotto attraverso l’Europa che i cristiani realizzarono avendo come meta Roma e Santiago e le varie cattedrali che sorgevano dappertutto. Come si nota, la lingua madre era veramente il cristianesimo e il pellegrino sorgente di unità profonda. Muoversi da un Paese all’altro, conoscere differenti lingue e culture, usi e costumi, creando un confronto e una comunicazione che aggiungeva ricchezza a ricchezza è stato possibile perché il pellegrino trovava la forza antica di lasciare la sua casa e la sua terra per addentrarsi in luoghi che mediante lui sarebbero divenuti maggiormente uniti.
A fondamento di tutto, comunque, si ritrova la stessa fede. Le lingue potevano cambiare, le usanze erano certamente differenti tra loro, ma ognuno comprendeva la madre lingua della fede. Questa creava unità, comunicazione, cultura e progresso. Dimenticare questo aspetto potrà certamente sollevare l’anima di qualcuno, ma non consentirà di rispettare la verità storica.
Ripartire dalla centralità della persona
Questa memoria deve riprendere posto ai nostri giorni, non per vanagloria né per trionfalismo alcuno, ma solo ed esclusivamente per permettere un salto qualitativo nell’attuale momento di passaggio culturale. Vorrei solamente accennare al ruolo determinante che l’occidente ha avuto nel momento in cui ha compreso l’originalità del concetto cristiano di persona. Se si vuole, è intorno a questo termine che si può rileggere la storia del progresso e della maturazione religiosa, civile, culturale, sociale e politica.
Fino al IV secolo, il termine è soggetto a una lunga discussione sul suo significato più coerente. Nell’accezione latina – che risentiva dell’origine etrusca – il termine persona va ricondotto allo spazio del teatro; indica la maschera che copriva il volto dell’attore. Nella semantica greca, il termine pròsopon indica ugualmente la maschera teatrale, ma insieme ad esso anche “che cade sotto gli occhi”, “ciò che si vede”.
La diatriba sul termine nasce proprio nel momento in cui si vuole esplicitare la fede nella Trinità e la presenza di tre persone con un’unica natura; alla stessa stregua, i primi cristiani dovevano esplicitare nei confronti di Gesù Cristo, sul fatto che la sola persona divina era presente nella natura umana e in quella divina. Si deve alla grande intelligenza di Agostino la soluzione più adeguata che rimarrà fino ai nostri giorni.
Egli ha saputo armonizzare il termine con il concetto, mostrando che la persona è se stessa nella relazione con l’altro. Saranno i concili, in seguito a stabilire dogmaticamente l’esattezza della formula; ciò che importa, comunque, è verificare che sulla base della chiarificazione trinitaria e cristologia del concetto si viene a produrre una delle conquiste più rivoluzionarie della cultura universale. Persona è un’identità propria che si qualifica nella sua relazione con l’altro.
Per cogliere in profondità il valore semantico, è necessario comprendere la sua derivazione dalla sfera della fede nella Trinità. Nell’unità della natura divina, che non è divisa, ma partecipata totalmente, le tre Persone si qualificano e differenziano come Padre, Figlio e Spirito Santo; ognuna delle tre persone vive solo in relazione con l’altra in una forma di donazione e accoglienza totale che permette loro di essere identificate come Padre che tutto dona, Figlio che tutto riceve e Spirito Santo come Frutto del tutto dare e del tutto ricevere. La persona, insomma, si qualifica per la relazione d’amore che le permette di essere ciò che è.
E’ alla luce di questa prospettiva che possiamo comprendere il valore portante della persona nel mondo contemporaneo e lo sviluppo che essa ha avuto nelle diverse istanze scientifiche. Dal concetto di persona scaturisce come conseguenza quello della sua dignità e del suo valore universale e, quindi, l’attenzione che è dovuto per ogni persona, per tutta la persona e per il bene di tutte le persone.
Non è azzardato affermare che solo nella misura in cui si vuole salvaguardare il concetto di persona e la sua dignità è determinante che essa rimanga legata a Dio che ne garantisce l’esatta comprensione ed esplicitazione. Nella misura in cui si dimentica Dio si dimentica anche la persona che reca impressa in sé la sua immagine e somiglianza; nella misura in cui si dimentica la persona, si dimentica anche Dio che ne è la sua garanzia ultima.
La conseguenza inevitabile che sembra proiettarsi all’orizzonte è quella di un’ulteriore svolta; questa, tuttavia, non pone più al centro l’uomo, ridotto ormai a un ruolo marginale nei confronti della stessa natura, ma la tecnica. Se, d’altronde, la tecnica è in grado di determinare l’esistenza personale fin dai suoi primordi e neppure la scienza sente il bisogno di porre limiti alla sperimentazione perfino sull’embrione, scavalcando le stesse regole che si era data in precedenza, allora non si potrà che verificare le logiche conseguenze.
L’uomo, sulla scena del teatro di questo mondo, non potrà più giocare il ruolo di protagonista a cui si era abituato per secoli, ma deve necessariamente lasciare il posto a chi ora pretende di determinare la sua stessa esistenza. Si riaffaccia sulla scena del mondo la tetra figura di Medea che uccide i suoi figli; è proprio così, la tecnica creata dall’uomo per rendere più umana la sua esistenza, sembra respingere in un angolo l’uomo stesso quasi si trattasse di un nuovo e mai mutato complesso di Edipo.
E’ ormai condivisa l’analisi secondo la quale, il nostro contemporaneo ha talmente delegato la tecnica a produrgli ogni cosa, da non comprendere più il grave pericolo in cui è caduto. La tecnica, infatti, ha assunto il ruolo di padrona non solo della natura, ma anche dell’uomo riducendolo a un oggetto della sua sperimentazione senza curarsi più delle sue reazioni. Se cresce la tecnica, ma non aumenta di conseguenza anche l’orizzonte spirituale dell’uomo e la persona non permane in una dinamica di maturazione verso la trascendenza, allora si viene spogliati di ciò che possediamo come di più prezioso: la coscienza di sé, del proprio limite e dell’apertura infinita verso cui si è indirizzati.
Condizione mortale, perché in questo modo non solo cessa il vero progresso, ma l’uomo stesso muore per asfissia. Egli, infatti, non ha più uno spazio spirituale che gli consente di andare oltre se stesso verso quell’orizzonte di senso ultimo che da risposta alle sue domande fondamentali. Per paradossale che possa sembrare, la tecnica allontana anche ogni domanda sul limite, illudendo di una eternità che non può essere data dalla produzione dell’uomo.
Si dovrà guardare con occhio vigile a come il pensiero maturato in Europa si porrà nel prossimo futuro nei confronti della sofferenza e della morte. La morte non sarà più l’ultimo baluardo da affrontare nella libertà propria della decisione di vita, ma un evento da scongiurare per l’illusione dell’immortalità. La morte non sarà più interpretata come un accadimento naturale e inevitabile della vita, piuttosto una sciagura da evitare come qualsiasi altra malattia.
Come si porrà l’uomo davanti alla morte dopo l’illusione della tecnica di allontanarla per sempre da lui? Con la dignità propria della libertà cosciente o come una stupida conclusione che non si è potuto evitare? E se la vita sarà più o meno indefinita, ci sarà ancora qualcuno disposto a offrire la propria vita per gli altri? Le biotecnologie favoriranno un attaccamento alla vita oppure la renderanno insopportabile? Interrogativi non affatto ovvi e tanto meno inattuali; saranno sul tappeto nello sviluppo del pensiero a partire già da domani.
La crisi di identità che l’Europa vive è sotto gli occhi di tutti. Tolto il concetto di persona si allontana quello della sua sacralità e tutto cade nell’arroganza del più forte. Ne deriva la pretesa di imporre il diritto individuale sulla stessa legge naturale e senza alcun riferimento alla dimensione sociale e la conseguente distruzione di modelli sui quali l’occidente è fondato. Imporre l’esistenza del diritto individuale porta a imprimere nella società la volontà degli individui, spezzando in questo modo il concetto stesso di persona come relazione.
Contraddizione insanabile, frutto dell’individualismo che regna sovrano, avendo distrutto ogni possibile tensione verso il bene comune. La prima conseguenza di questo stato di crisi è la solitudine in cui è caduto l’uomo contemporaneo. Privo di una relazione salda che gli consente di comprendere se stesso, è diventato ormai estraneo a se stesso, incapace a doversi collocare e comprendere tende a rinchiudersi in sé con la conseguente mancanza di amore e donazione gratuita.
I rapporti diventano soggetti all’interesse individuale e la violenza dell’uno sull’altro ha la meglio. In questo contesto è necessario porre anche la crisi del matrimonio e della famiglia. Incapace a essere se stesso e colto dalla paura di una incapacità stabile alla relazionalità e all’amore, si apre la strada a modelli che contraddicono e distruggono ogni relazione sociale. Il tentativo di minare alla base anche lo stesso concetto di matrimonio monogamico e tra persone di sesso diverso non è che uno degli ultimi bastioni che una cultura in crisi intende abbattere per l’imposizione di un progetto, estraneo al mondo, alla natura e alla stessa cultura che ha il solo intento di eliminare l’uomo.
Recupero di responsabilità
La Chiesa ha una profonda responsabilità in questo momento. Senza alcuna forma di presunzione, a me sembra che sia rimasta solo lei a far sentire la sua voce per fermare questo insano desiderio di autodistruzione. E’ importante, quindi, che la Chiesa provochi a una riflessione che prendendo la ragione come compagna di strada, illumini anche i molti non credenti, che sparsi per le diverse strade del mondo hanno compreso i gravi rischi a cui l’Occidente è esposto.
Si tratta, in ultima analisi, di riprendere a cercare con maggior vigore e insistenza il bene dell’uomo, a quanto egli produce con sapienza e a farlo diventare responsabile del suo futuro. Tolta la parentesi in cui tutto gli viene concesso in forza di un diritto soggettivo che lo ha viziato facendolo sentire come figlio unico, è determinante recuperare il senso della relazionalità in quanto parte di un’unica famiglia.
L’assunzione del principio di responsabilità è una delle priorità che vediamo all’orizzonte; esso impegna a una fatica che sa rimettere alla base i veri diritti iscritti nel cuore di ogni uomo e per ciò stesso garanti dell’uguaglianza e della libertà a cui il legislatore deve ispirare la sua opera. Come credenti nella vittoria del bene sul male sempre e dovunque, noi lavoriamo perché la crisi che stiamo vivendo possa trasformarsi in un reale momento di confronto edi progresso per tutti.
L’Europa ha bisogno di credere ancora in se stessa, lo potrà fare con autentico e profondo significato, nella misura in cui porrà dinanzi a se stessa ciò che è stata e in ciò che dovrà essere. Sono convinto che solo mediante un recupero forte del concetto di tradizione questo sarà possibile. La tradizione, infatti, è forma di una trasmissione che inserisce in un processo più ampio e che genera conoscenza; a nostro avviso, esprime una risorsa di cui i credenti anzitutto dovrebbero farsi carico.
La tradizione per noi non significa soltanto il riferimento a una storia bimillenaria che, nel bene e nel male ci appartiene, indica, piuttosto, la partecipazione diretta a una viva trasmissione della fede che ispira e genera cultura. I cristiani dovrebbero ricuperare, in questo frangente, la memoria perenne dell’evento salvifico di cui sono responsabili nel mondo e, all’interno di questo momento, ripensare il ruolo della loro partecipazione alla missione evangelizzatrice della Chiesa in Europa.
Ogni azione credente, infatti, anche il pellegrinaggio ha una valenza sociale, politica e culturale oltre che religiosa; essa porta con sé la peculiarità di essere annuncio del vangelo che salva. Il recupero del senso della tradizione e del suo valore per la costruzione dell’Europa è una strada da percorrere. Essa non è semplice; richiede, infatti, uno sforzo di originalità e un recupero di spessore speculativo.
Se i credenti perderanno il senso e il peso della tradizione, il rischio per aver costruito un’Europa sulle fragili fondamenta di un interesse puramente economico sarà irreversibile ed essi ne saranno in parte responsabili. Se, invece, il recupero della coscienza storica farà da sostegno, allora anche le obiezioni e gli scetticismi di oggi potranno essere risolti e svanire alla vista della ricchezza che la tradizione ha saputo mantenere.
La Chiesa, in questo frangente, forte della sua storia di maestri e di santi che hanno reso queste terre fermento continuo di cultura e di civiltà, si sente interpellata direttamente ad assumersi le sue responsabilità. Essa dovrà instancabilmente riproporre la fede in Gesù Cristo morto e risorto come premessa per il riconoscimento pieno della persona, della sua dignità e dell’inviolabilità dei suoi diritti fondamentali che sono patrimonio di tutti.
Senza illusioni, se mi è dato di guardare con serenità al futuro, io intravedo l’opera dei credenti come un’azione convinta che saprà produrre nuova cultura sulla forza della fede di sempre. Non perderemo la nostra identità, perché non potremmo comprendere le nostre città senza un campanile che richiami a rientrare in noi stessi; non potremo mai assuefarci a un mondo dove non esiste l’amore che porta la nostra impronta.
Il rispetto che abbiamo verso tutti e verso chi non condivide la nostra scelta di fede, ci impone di qualificare sempre meglio la nostra identità per evitare di diventare erranti senza più una meta e cittadini senza più una patria. L’Europa, quindi, potrà essere davvero patria comune di popoli con lingue diverse e tradizioni differenti solo nella misura in cui saprà ritrovare il cristianesimo come lingua madre attraverso cui rinsaldare gli slanci per una nuova stagione di pace e di promozione umana.
Note
[1] Göthe, Shakespeare und kein Ende, citato da H. U. von Balthasar, in Teodrammatica I Introduzione al dramma, Milano 1980, 264.
[2] “Questa è colei che, sola, accolse nel proprio grembo i vinti e come madre non come signora, protesse il genere umano nel nome che tutti accomuna: cittadini chiamò quelli che lei aveva dominato, legando a sé con vincolo pio le genti lontane. Tutti siamo così un’unica gente”.
[3] Da tante genti diverse hai fatto una sola patria: ai popoli incivili giovò essere conquistati da te. E mentre offri ai vinti di partecipare alla tua legge, hai fatto di tutto il mondo una sola urbe”.