Francesco D’Agostino
1. Sono evidenti le difficoltà di chi voglia riflettere sull’Europa: comunque la si voglia considerare, l’Europa non è un evento storico ormai chiuso nel passato, ma rappresenta una dinamica storica tuttora aperta, sì che la difficoltà del parlarne può essere paragonata alla difficoltà di chi è chiamato a recitare una commedia, mentre l’autore deve ancora finire di scriverne il testo e soprattutto di decidere l’esito della trama.
Quanto appena detto non va inteso però nel senso che si debba postulare un primato epistemologico della teologia su ogni altra forma del sapere. In una preziosa intervista apparsa nell’ormai lontano 22 febbraio 1992, sul giornale italiano Il Sabato, il futuro Papa, alla pag. 89, dopo aver ribadito come sia “del tutto evidente che ‘Europa’ non è un concetto geografico, ma una grandezza storica e morale” aggiungeva però con fermezza, per evitare di essere frainteso, il monito “a non dare adito all’’ illusione che la teologia abbia una risposta per ogni cosa”.
Se dobbiamo ritenere un’illusione che la teologia abbia una risposta per ogni cosa, resta però vero che l’Europa si è affermata nella storia in qualche senso come una costruzione teologica, perché la grande sintesi in essa attuata tra la tradizione ebraica, quella greca e quella greco-romana è stata resa possibile da quel peculiare fatto storico-teologico che conosciamo come Chiesa cattolica (non a caso spesso altresì denominata — attraverso un dato geograficamente inoppugnabile — quale Chiesa romana, in modo formalmente non del tutto corretto, ma ermeneuticamente rivelatore).
Infatti, la cattolicità della Chiesa possiede intrinseche corrispondenze con l’ universalità che dell’Europa è una specifica caratteristica; e che quel fenomeno conturbante dell’ odio dell’Occidente verso se stesso che Ratzinger ha individuato e denunciato con parole estremamente lucide e ferme (4), indicando nel declino demografico il fattore in cui meglio si manifesta la perdita di fiducia dell’Europa verso il futuro, trova una sua (misteriosa?) corrispondenza nel fenomeno della secolarizzazione, quale dinamica che va certamente descritta come di negazione della dimensione religiosa dell’esistenza, ma va anche riconosciuta come dinamica tipicamente interna alla cristianità.
E’ solo la tradizione ebraico-cristiana, infatti, a fondare il carattere profano del creato, svuotandolo di tutte quelle forze demoniche e esoteriche che lo caratterizzano nelle prospettive religiose politeistico-animistiche, e ad aprire di conseguenza la strada alla lettura empirica, cioè scientifica, del mondo.
2. Per gli antichi l’Europa era solo un concetto geografico, peraltro di limitata rilevanza. Perché l’Europa giunga storicamente a prendere coscienza di se stessa bisogna attendere due eventi decisivi: la frattura dell’unità del contesto mediterraneo (che nell’antichità possedeva una valenza analogabile a quella di un vero e proprio continente), frattura prodotta dall’ avanzata dell’Isiam nell’antica Africa romana, e la scomparsa del limes, inteso nell’antichità da generazioni e generazioni come una invalicabile linea di confine tra civiltà e barbarie.
Se i Romani accettarono e, per dir così, cristallizzarono l’idea del limes, è perché vedevano al di là di esso territori che ben poco li affascinavano, per la loro scarsa attrazione sia economica, che climatica ed etnica. È solo l’impulso missionario posseduto dalla cristianità, che nell’alto Medioevo spinge le energie del mondo civilizzato alla conquista religiosa, e quindi alla civilizzazione, delle terre germaniche, delle terre slave, delle terre scandinave.
“In questo processo di spostamento dei confini, la continuità ideale con il precedente continente mediterraneo, misurato geograficamente in termini differenti, venne garantita da una costruzione di teologia della storia: in collegamento con il libro di Daniele, si considerava l’impero romano rinnovato e trasformato dalla fede cristiana come l’ultimo e permanente regno della storia del mondo in generale e si definiva perciò la compagine di popoli e di stati che era in via di formazione come il permanente Sacrum Imperium Romanum…
Nell’autocomprensione che andava così formandosi è espressa parimenti la consapevolezza della definitività così come al tempo stesso la consapevolezza di una missione” (5). L’Impero carolingio costituisce per Ratzinger il primo, chiarissimo esempio di questo duplice tema. Seguono, nella sua analisi, considerazioni ulteriori e sottili.
Esse investono in primo luogo il formarsi delle specifiche peculiarità dell’Europa orientale di fede ortodossa, tanto simile a quella occidentale nella prospettiva della spiritualità, ma tanto dissimile per le tensioni cesaro-papistiche che in essa si sono instaurate e successivamente la crisi indotta nell’Occidente dalla Riforma e dall’Illuminismo: due dinamiche ovviamente molto diverse tra loro, ma analogabili per il loro comune portato di lacerazione a carico della coscienza europea.
Questa lacerazione manifesta i suoi più paradossali risultati quando, nel pieno della modernità, la cultura europea acquista una pretesa planetaria e dilagando oltre i propri confini prima lambisce, poi occupa pressoché tutto il mondo — a volte ponendo in essere pratiche caratterizzate da abominevoli violenze: questo processo, estrinsecamente trionfalistico, si unisce prima al consolidarsi delle dinamiche della secolarizzazione e poi (ed infine) a una sorta di svuotamento inferiore della coscienza europea, che lascia il continente assolutamente spossato dal punto di vista valorìale.
Il Novecento è secolo di contraddizioni: le grandi dinamiche dei diversi totalitarismi novecenteschi si manifestano accanto all’affermarsi dei modelli politici socialdemocratici e al consolidarsi della dottrina sociale cristiana; il quadro socio-politico che ne risulta è profondamente ambiguo. Certo, nazismo e fascismo sono stati sconfitti, ma da una guerra che ha visto l’incredibile alleanza delle democrazie occidentali e del regime sovietico.
Se il totalitarismo comunista è stato a sua volta sconfitto, ciò non è dipeso tanto da una vittoria spirituale e morale della migliore tradizione spirituale europea, quanto dall’implosione alla quale esso è andato incontro. Se pensiamo all’Europa come forza spirituale, possiamo pur compiacerci del fatto che i suoi avversari abbiano perso, ma dovremo pur ammettere che nel confronto con essi l’Europa non ha vinto.
Non è possibile interpretare altrimenti il rifiuto istituzionale del cristianesimo, in forme più o meno accentuatamente laiciste, da parte degli Stati europei, durante le faticose elaborazioni del trattato costituzionale (6) dell’Unione Europea.
3. L’Europa, oggi, si compiace delle sue ascendenze illuministiche. L’illuminismo, però, ha molte facce. C’è un illuminismo che porta ad un’indebita esaltazione della ragione calcolante, allo scientismo, al meccanicismo, all’evoluzionismo nelle forme darwinianamente più riduttivistiche. Ma esiste un’altra dimensione dell’illuminismo, di cui a torto meno si parla nei trattati di storia del pensiero, quella che ha le sue radici non nel pensiero settecentesco, ma in quell’evento straordinario (perché lontano da ogni probabilità) che è stata la sintesi tra Atene e Gerusalemme: una sintesi nella quale l’idea monoteistica ebraica — quella per la quale esiste un solo ed unico Dio, creatore di un cosmo, ben più che di una materia inerte e ottusa — si innesta nell’intuizione greca del logos, cioè di una Ragione, grazie alla quale è possibile per l’uomo aprirsi alla conoscenza del mondo e del bene.
È a questa a dimensione dell’illuminismo, che ha alluso Martin Kriele quando ha sostenuto che la Chiesa è una “forza dell’illuminismo” (7). Nel discorso pronunciato a Subiaco, il 1° aprile 2005, l’ultimo discorso pubblico, prima di essere eletto Papa, Joseph Ratzinger ha ammonito: “Nel dialogo, così necessario, tra laici e cattolici, noi cristiani dobbiamo stare molto attenti a restare fedeli a questa linea di fondo: a vivere una fede che proviene dal Logos, dalla Ragione Creatrice, e che è perciò anche aperta a tutto ciò che è veramente razionale” (8).
Se c’è un Leitmotiv nel pensiero ratzingeriano, esso va quindi rinvenuto nella costante fedeltà all’ammonizione petrina: Siate sempre pronti a rendere ragione della speranza che è in voi (9). A tal punto, secondo Ratzinger, il riferimento alla ragione, cioè letteralmente al logos, è costitutivo dell’identità cristiana, che egli si compiace di ricordare come nella più antica statuaria cristiana, quella dei sarcofagi del III secolo, apparissero sistematicamente tre figure, quella del pastore, quella dell’orante e quella del filosofo: tre figure indissolubili e allusive assieme alla figura del Cristo e a quella del cristiano, il cristiano che, modellando la sua vita sull’ imitatio Christi, decide di vivere conformemente al logos — e i cristiani di conseguenza possono non a torto ritenersi i veri filosofi e il cristianesimo la vera filosofia (10).
Nella distinzione tra ragione secolare e ragione credente il tratto unificante – cioè il sostantivo ragione — ha una sorta primato sul tratto distintivo (gli aggettivi contrapposti: secolare/credente): non certamente nel senso che l’apertura donata dalla fede sia da subordinare alla logica della ragione (si cadrebbe così nelle forzature kantiane di una religione nei limiti della mera ragione), ma nel senso per cui la comune umanità del credente e del non credente (nel segno del logos) dovrebbe consentire ad entrambi un incontro dialogico, cioè l’unico possibile presupposto per un operare solidale e fraterno.
E si potrebbe anche dire di più, se si concordasse con Jùrgen Habermas, quando nel celebre confronto dialogico con Joseph Ratzinger del 19 gennaio 2004 a München (11) — ha riconosciuto una “disponibilità ad apprendere, da parte della filosofia (che per Habermas è tout court ragione secolare), nei confronti della religione e questo non per motivi funzionali, ma per motivi intrinseci di contenuto” (12).
4. Riflessioni di così ampio respiro non possono che tendere ad un’ultima domanda, quella essenziale che è presente nella mente di tutti e che non può che essere: a che punto siamo oggi? Se è vero che l’Europa è preda di uno svuotamento interiore, quale può essere il suo destino? Una cosa è certa: non è immaginabile che l’Europa possa restare se stessa, senza una rinnovata presa di coscienza di sé. Se questa diagnosi si rivela corretta, può lasciare posto a una prognosi non pessimistica? Siamo in grado di attivare una terapia? Questioni, queste, semplicemente epocali.
E’ ammirevole che Joseph Ratzinger non si sia sottratto ad esse (anche perché è facile immaginare che ne abbia avuto la tentazione), ma abbia indicato un punto essenziale, che ritiene indispensabile perché l’Europa possa restare fedele alla propria identità, un punto caratterizzato da una forte valenza antropologica. Per dare all’Europa nuova vitalità, non possiamo affidarci alle tradizioni e agli stili di vita che i popoli europei, come peraltro i popoli di ogni altra parte del mondo, hanno legittimamente, ma altresì particolaristicamente, elaborato; bisogna fare piuttosto riferimento al bene umano, in quanto percepibile nella sua aggettività e comunicabile nella sua dimensione valoriale.
È il tema del bene umano che l’Europa ha il dovere non solo di riconoscere come costitutivo della propria identità. Da questo riconoscimento scaturisce un ulteriore dovere, quello di offrirlo al resto del mondo, per portare a compiutezza quell’unificazione morale dell’umanità, alla quale è affidato il futuro dello stesso genere umano.
5. È evidente qual è la difficoltà di questo discorso. Per assumere il compito che abbiamo appena descritto, l’Europa deve operare per superare quell’odio verso se stessa, che l’ha portata nella modernità a compiere due errori esiziali. Il primo errore è stato quello di misconoscere che il bene umano possiede una sua oggettività solo quando se ne percepisce il fondamento universale, assoluto (e quindi religioso). Il secondo è stato quello di impegnarsi spasmodicamente in un’impresa illusoria e quindi disperata, quella rimodellare il vivere sociale secondo un paradigma rigidamente laicistico, quello caratterizzato dalla pretesa di poter istituzionalizzare una profanità assoluta.
Esistono due modi di costruire una società laicisticamente profana: quello, duro e cruento, di perseguitare la religione e quello, più subdolo e sottile, di operare per privatizzarne l’esperienza. A questa tentazione sembra che oggi resistano a stento molte istituzioni europee: è una tentazione che si è tradotta in diversi tentativi, il più eclatante dei quali è quello di imporre, anche coercitivamente attraverso le scuole di Stato, un’etica pubblica laicista, orientata a svuotare dall’interno istituzioni antropologiche fondamentali, nelle quali esperienza sociale, esperienza etica ed esperienza religiosa si uniscono strettamente, come quelle del matrimonio e della famiglia.
Per fronteggiare questa tentazione e sconfiggere questi tentativi bisogna elaborare la convinzione che solo il radicamento in valori trascendenti (e in quanto tali non banalmente traducibili nell’esperienza politica) può intercettare il ricorrente desiderio di costruire assoluti terrestri, come quelli posti in essere dalle grandi esperienza totalitarie del Novecento. È probabile che l’esperienza del multiculturalismo religioso, che caratterizza così profondamente l’Europa di oggi, possa operare beneficamente in questo senso e aiutare l’Europa ad aprire gli occhi su se stessa.
Ma non è questo il punto, in ultima analisi, essenziale. La stessa multiculturalità, infatti, porta con sé una fragilità costitutiva, esposta come essa è “all’abbandono e al rinnegamento di ciò che è proprio”, se gli uomini non si pongono nella condizione di accoglierla come portatrice di valori — e, al limite, come portatrice di sacro.
Ma per cogliere il valore nell’altro, che esprime valori culturalmente lontani da noi, dobbiamo innanzi tutto essere in grado di cogliere i valori che sono in noi. “Noi possiamo e dobbiamo imparare da ciò che è sacro per gli altri, ma proprio davanti agli altri e per gli altri è nostro dovere nutrire in noi stessi il rispetto davanti a ciò che è sacro e mostrare il volto di Dio che ci è apparso — del Dio che ha compassione dei poveri e dei deboli, delle vedove e degli orfani, dello straniero; del Dio che è talmente umano che egli stesso è diventato un uomo, un uomo sofferente, che soffrendo insieme a noi da al dolore dignità e speranza” (13).
7. Sono, queste ultime, parole di grande delicatezza, che valgono non solo per i significati che veicolano, ma per il modo in cui veicolano tali significati. E lontano — e deve comunque essere biasimato — il tempo in cui l’Europa ha offerto se stessa al resto del mondo come esemplare, con un atteggiamento che ha mescolato arroganza tecnologica e desiderio di dominio e che ha fatto non insensatamente porre la domanda se la scoperta dell’America e in genere il proiettarsi dell’Europa oltre se stessa sia stata una grazia o una maledizione (14).
È una accidentalità storica il trionfo planetario del pensiero scientifico come pensiero europeo, perché il sapere che aspira al rigore non ha e non può avere — diversamente dalle pratiche culturali — connotati etnico-nazionali. Non può invece essere ritenuto una accidentalità storica, ma piuttosto un compito o addirittura una missione — e in questo va visto il cuore del pensiero di Benedetto XVI sull’Europa — l’offrire al resto del mondo un modello di assoluta apertura e di assoluto rispetto per l’altro.
Un analogo dono a quello che il cristianesimo ha fatto all’Europa, istituendola nella sua identità, l’Europa è chiamata a fare al resto del mondo: deve farlo, senza evidentemente avanzare pretese di proselitismo, ma non può illudersi di farlo rinnegando la fonte di energia spirituale che l’ha costruita e per dir così donata a se stessa.
8. Ciò che spetta all’Europa è quindi una missione e, come tutte le missioni, ha il carattere di un compito, anzi di un dovere: quello di contribuire alla costruzione di un mondo nel quale (come diceva Elio Aristide nel II secolo d.C, parlando di Roma), “tutto è a disposizione di tutti e nessuno è in nessun luogo un estraneo”. Chi sia cristiano o abbia comunque una sensibilità religiosa percepirà facilmente la valenza di questo dovere che grava sull’Europa. Ma anche chi non sia tale o chi sia, come diceva di sé Max Weber, religiosamente stonato, religiós unmusikalisch, può però recuperare questa dimensione per un’ altra via, sulla quale Benedetto XVI ha insistito costantemente e che appare ormai chiaramente come la stella polare del suo Pontificato dal punto di vista magisteriale e che è stata chiaramente ripresa da Papa Francesco.
Si tratta di quella via che consiste nel rendersi disponibili all’appello alla verità. Die Einheit der Nationen. Eine Vision der Kirchenvàter è il titolo di un prezioso lavoro di Joseph Ratzinger, che risale al 1971 (15), in cui non si delinea semplicemente una possibilità storica. Munita delle nazioni appartiene al destino o, per usare un’espressione più forte ancora, alla verità del genere umano, le cui molteplici e diversificate manifestazioni non possono farcene smarrire la comune radice.
Non si tratta di ipotizzare l’avvento di un mondo del tutto strutturato cristianamente, di un mondo confessionalizzato: la laicità è un valore intrinsecamente cristiano, che dai cristiani va difeso strenuamente. La Chiesa ha sempre pensato se stessa “come una comunità di stranieri, che accetta e usa le realtà terrene, ma non è a casa propria in esse”.
Il mondo ha un proprio ordinamento da perseguire e l’unica bussola a sua disposizione, quella che distingue agostinianamente i regna dalle bande di ladri, è la bussola laicissima della giustizia. E la giustizia, per quanto fragile e ardua nel suo determinarsi, non è però fuori dalla portata dell’uomo, che voglia orientarsi alla verità. L’appello alla giustizia è una dimensione dell’appello alla verità.
9. È essenziale a questo punto utilizzare tre spunti fondamentali che emergono nel discorso che Benedetto XVI ha rivolto al Corpo Diplomatico accreditato presso la S. Sede il 9 gennaio 2006 (16) e che si fondono tutti in un unico principio: la verità esige un impegno assoluto. Il primo punto fondamentale ribadito dal Papa è che l’impegno per la verità è l’anima della giustizia. “Chi è impegnato per la verità non può non rifiutare la legge del più forte, che vive di menzogna e che — a livello nazionale ed internazionale — ha tante volte segnato di tragedie la storia dell’uomo”.
In secondo luogo, ha insistito il Papa, l’impegno per la verità da fondamento e vigore al diritto di libertà, perché solo nella libertà la verità può essere raggiunta. “Ciò vale per tutte le libertà, come appare dalla storia delle scienze; ma è vero in maniera eminente per le verità in cui è in giuoco l’uomo stesso in quanto tale, le verità dello spirito, quelle che riguardano il bene e il male, le grandi mete e prospettive di vita, il rapporto con Dio”.
Ed infine — terzo punto — solo l’impegno per la verità apre la via al perdono e alla riconciliazione. Richiesta di perdono e concessione di perdono sono elementi indispensabili per la pace, ma presuppongono, sia l’una che l’altra, che la colpa sia liberamente riconosciuta secondo verità dal colpevole che chiede perdono, e che il perdono sia secondo verità liberamente concesso da chi ha subito il torto. E così diviene credibile l’impegno per la pace, al quale l’Europa deve dedicare le sue migliori energie, se vuole trasformarsi da idea astratta in forza di affratellamento (17).
10. Possiamo concludere con un’ultima citazione tratta dagli straordinari lavori di Joseph Ratzinger. In un saggio del 1990, Europa. Hoffnungen und Gefahren, apparso in una pubblicazione celebrativa promossa dal Comune di Speyer (18), Ratzinger ha dedicato una breve, ma densa nota al lavoro del filosofo ceco Jan Patocka, Platon et l’Europe (Paris, 1983). Agli occhi di Patocka (che scriveva queste pagine nell’epoca in più era assolutamente soffocante nel suo paese l’oppressione comunista) e agli occhi di Ratzinger, che da Patocka si lascia illuminare, Platone figura come padre dell’Europa, sulla base di una delle principali istanze di fondo del suo pensiero, quella della cura dell’anima.
Non è, quello platonico, un tema genericamente sospiroso o emotivo: non solo l’anima dell’uomo — secondo Platone — va curata, ma deve esserlo in molti diversi modi: in primo luogo aiutandola a sottrarsi all’intimismo e all’angustia della coscienza, perché possa liberarsi dal soggettivismo e aderire pienamente alla realtà; in secondo luogo, sottraendola alla tentazione dell’individualismo, aprendola all’esperienza etica e politica, a quella vita di relazione, nella quale ogni uomo è chiamato a realizzarsi; e finalmente conducendola alla pienezza dell’illuminazione etico-religiosa, nella quale ogni vocazione umana si realizza compiutamente.
Richiamare Piatone non è quindi solo un omaggio al più grande filosofo della tradizione occidentale; è un modo di manifestare fiducia nella possibilità di parlare a tutti gli uomini che ha un logos che non teme — come Platone ci ha insegnato — non solo di parlare di Dio, ma di farlo entrare nel mondo.
E per questo che in un discorso tenuto al Cimitero tedesco di La Gambe, Caen, il 5 giugno 2004, il Card. Ratzinger poteva concludere che “Chi vuole oggi costruire l’Europa come roccaforte del diritto e della giustizia che sia valida per gli uomini di tutte le culture non può richiamarsi ad una ragione astratta che non conosce nulla di Dio…La responsabilità davanti a Dio e il radicamento nei grandi valori e verità della fede cristiana-…sono le forze irrinunciabili per edificare un’Europa unita, che sia molto più di un unico blocco economico: una comunità del diritto, una roccaforte del diritto, non solo per se stessa, ma per tutta l’umanità” (19).
Note:
1) Relazione presentata il 4 ottobre 2013 a Bratislava, al Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee, su invito dei Cardinali ERDO e BAGNASCO.
2) J RATZINGER, Europa. I suoi fondamenti oggi e domani, tr.it., Cinisello Balsamo (Milano), 2004. Einsiedeln-Freiburg 1991, tr.it. Milano, 1992.
3) Einsiedeln-Freiburg 1991, tr. It. Milano, 1992.
4) Europa, p.28.
5) Europa, cit., p. 11.
6) RATZINGER elabora alcune ulteriori considerazioni sul diverso modo in cui la secolarizzazione si è manifestata in Europa e negli Stati Uniti: questi ultimi non hanno mai sperimentato fino in fondo la tentazione, cui l’ Europa sembra avere ormai definitivamente ceduto, di rinunciare a ogni riferimento a Dio nella sfera pubblica. Peraltro, è difficile valutare se nella prospettiva del Papa l’esperienza americana sia considerata una reale alternativa rispetto a quella europea, o semplicemente una sua variante, di essa ben più soft, ma sostanzialmente orientata verso i medesimi esiti.
7) Politische Aufkldrung gegen neuen Dogmatismus? Ein Gespràch mit Prof. Martin Kriele, in Herderkorrespondenz, 34, 1980, pp. 120-127; a questa tesi aderisce pienamente J. RATZINGER Kirche, Okumene und Politik, tr.it. Chiesa, ecumenismo e politica, Nuovi saggi di ecclesiologia, Milano, 1987, p. 149
8) La crisi delle culture, in J. RATZINGER, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Roma-Siena, Libreria Editrice Vaticana/Cantagalli, 2005, p.60.
9) 1 Pt 3.15-16.
10) J. RATZINGER, Foi, théologie et philosophie, in Communio (edizione francese), 10, 1985, p. 24 e ss.; in italiano nel volume Natura e compito della teologia, Milano, Jaca Book, 1993, pp. 17 ss.
11) Vorpolitische moralische Grundlagen eines freiheitlichen Staates, “Zur Debatte” 1/2004, Katholische Akademie in Bayern.
12) J. HABERMAS, I fondamenti morali prepolitici detto Stato liberale, tr.it. in RATZINGER/ HABERMAS, Etica, religione e Stato liberale, Brescia, 2004, p. 35
13) J. RATZINGER Europa, cit., p. 28.
14) Svolta per l’Europa, cit., p. 95.
15) Tr.it. col titolo L’unità delle nazioni. Una visione dei Padri della Chiesa, Brescia, 1973
16) La gioia e la speranza. I discorsi di Benedetto XVI alla Curia Romana e al Corpo Diplomatico, Città del Vaticano, 2006, pp. 29 e ss.
17) L’alternativa è esplicitata in Svolta per l’Europa?, cit., p. 91.
18) Successivamente ripubblicato nel volume Wendezeit für Europa?, tr.it. Svolta per l’Europa?, cit., pp. 90 ss.
19) La grazia della riconciliazione, in L’Europa, cit., p. 104