L’Eutanasia

I.D.I.S. – Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale

Voci per un Dizionario del Pensiero Forte

eutanasia

di Lorenzo Cantoni

1. Nozione

Dopo aver già da tempo abbandonato il legame con l’etimo greco di morte buona, il termine eutanasia viene usato nell’attuale dibattito in sensi spesso molto diversi. Frequentemente si distingue fra eutanasia attiva – o positiva, o diretta -, là dove il medico, o chi per lui, interviene direttamente per procurare la morte di un paziente, ed eutanasia passiva – o negativa, o indiretta -, dove si ha invece astensione da interventi che manterrebbero la persona in vita.

Si distingue inoltre fra eutanasia volontaria, quella esplicitamente richiesta dal paziente, ed eutanasia non volontaria, quando la volontà del paziente non può essere espressa, perché si tratta di persona incapace.

Eutanasia si oppone talora a distanasia o ad accanimento terapeutico, che indicano invece il ricorso a interventi medici di prolungamento della vita non rispettosi della dignità del paziente. Prossimo concettualmente e fattualmente all’eutanasia, benché distinto da essa, è poi il suicidio medicalmente assistito, in cui la morte è conseguenza diretta di un atto suicida del paziente, ma consigliato e/o aiutato da un medico. Si tratta, come si vede, di una mappa di significati tutt’altro che omogenea e definita, e assai sensibile alla prospettiva teorica adottata.

Una definizione completa e precisa – abitualmente citata anche da autori che non ne condividono le valutazioni etiche concomitanti – si trova nella Dichiarazione sull’eutanasia “Iura et bona”, pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede il 5 maggio 1980, al n. 6: “Per eutanasia s’intende un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati”.

2. Sofferenza, trattamento del dolore ed eutanasia

Una delle caratteristiche definitorie dell’eutanasia è dunque il suo obiettivo di ridurre la sofferenza. Talora si ritiene che la richiesta di un intervento eutanasico o di un’assistenza al suicidio da parte dei pazienti sia direttamente proporzionale alla gravità della loro malattia, e alla loro sofferenza. Si tratta, invero, di una semplificazione indebita.

Se prendiamo in esame i casi di suicidio, per esempio, “gli studi indicano – secondo il documento When Death Is Sought: Assisted Suicide and Euthanasia in the Medical Context, pubblicato nel 1994 dallo Stato di New York – che su molti pazienti con grave sofferenza, sfiguramento o disabilità, la grande maggioranza non desidera il suicidio. In uno studio su pazienti malati terminali, fra quelli che espressero una volontà di morire, tutti soddisfacevano i criteri di diagnosi della depressione endogena”.

L’esperienza degli Hospice, cliniche il cui obiettivo primario è l’umanizzazione dell’assistenza ai pazienti in fin di vita, e il trattamento del dolore – attraverso le cosiddette cure “palliative” – mette in dubbio ulteriormente questa correlazione fra sofferenza e desiderio di morire apparentemente così ovvia: “Pazienti con una sofferenza non controllata – si legge nel documento citato – possono vedere la morte come l’unica fuga dalla sofferenza che stanno sperimentando. In ogni caso, la sofferenza non è solitamente un fattore di rischio indipendente. La variabile significativa nel rapporto fra sofferenza e suicidio è l’interazione fra sofferenza e sentimenti di disperazione e depressione”.

3. Aspetti legali e giuridici dell’eutanasia

Benché il Parlamento inglese avesse discusso già nel 1936 una proposta di legalizzazione dell’eutanasia, e con l’eccezione della legislazione nazionalsocialista, fino a un periodo molto recente essa non ha avuto posto nella legislazione come fattispecie a sé: la pratica eutanasica viene ricondotta, a volta a volta, ad altre fattispecie esistenti; in Italia, per esempio, essa configura i reati di omicidio del consenziente, previsto dal codice penale all’articolo 579, e di istigazione o aiuto al suicidio, di cui all’articolo 580. In questo contesto giuridico si situano, con effetti non ancora pienamente prevedibili, sia la depenalizzazione dell’eutanasia nel Regno dei Paesi Bassi nel 1994, sia la sua legalizzazione nel Territorio del Nord della Federazione Australiana nel 1995.

Nel Regno dei Paesi Bassi la depenalizzazione dell’eutanasia è stata introdotta con una modifica all’articolo 10 del Regolamento di polizia mortuaria; esso ha stabilito, a partire dal giugno del 1994, la non punibilità dei medici che abbiano aiutato a morire i propri pazienti ma siano in grado di dimostrare di aver rispettato una serie di condizioni.

L’atto eutanasico deve essere infatti documentato da una relazione scritta da cui risulti che il paziente sia stato affetto da malattia inguaribile, che vi siano state sofferenze insopportabili e che il malato l’abbia richiesto reiteratamente; tali condizioni devono poi essere confermate da parte di un collega del medico dichiarante; questo documento deve inoltre riportare la storia clinica del paziente e i mezzi utilizzati per l’eutanasia.

La relazione viene notificata dal medico a un pubblico ufficiale, coroner, con funzioni giudiziarie. Dal momento che nel codice penale olandese sono rimasti in vigore sia l’articolo 293, che punisce l’omicidio di consenziente, sia l’articolo 294, che punisce l’istigazione e l’assistenza al suicidio, per depenalizzare l’eutanasia il legislatore olandese ha fatto ricorso all’articolo 40 del medesimo codice, che prevede la scriminante della forza maggiore. La richiesta del paziente viene allora considerata come una “forza maggiore”, che rende non perseguibile il medico che pratica l’eutanasia. Tale posizione introduce nell’ordinamento giuridico, a ben vedere, una discriminazione decisa fra vita sana – che il medico ha l’obbligo di tutelare – e vita malata, la cui tutela non è più obbligatoria.

Nel Territorio del Nord della Federazione Australiana a partire dal giugno del 1995 è entrata in vigore la “Legge dei diritti del malato terminale”, che legalizza l’eutanasia. Questa legge legittima la possibilità per il paziente cosciente e maggiorenne di richiedere l’eutanasia nell’ipotesi in cui sia affetto da una malattia inguaribile e le sofferenze siano talmente forti che nessuna terapia sia in grado di alleviarle.

A differenza della normativa olandese, quella australiana viene ad affermare l’esistenza di un “diritto alla morte”, dal momento che l’eutanasia vi è considerata come un trattamento medico posto a tutela della persona, accettando così che anche altre persone, nel caso in cui il paziente sia incapace, possano firmare, in rappresentanza del malato e alla presenza dei testimoni, una richiesta di eutanasia. Tale normativa non prevede inoltre alcuna pena specifica per i medici che effettuino l’eutanasia in mancanza dei requisiti previsti.

4. Elementi per una valutazione etica

Rispetto al suicidio nell’eutanasia vi è un elemento nuovo: l’intervento di un’altra persona, quasi sempre di un medico o di un operatore sanitario, intervento inteso ad alleviare il dolore con il porre un termine alla vita del paziente. Si tratta, anzitutto, di una risposta tutt’altro che ovvia: un omicidio sarebbe l’aiuto adeguato a un sofferente; ovvero si verrebbe addirittura a configurare un dovere da parte di qualcuno – il medico o chi per lui – di uccidere una persona che gliene faccia richiesta; o, ancora, si attribuirebbe a qualcuno – medico, giudice, famigliare? – il diritto di stabilire se una vita innocente è meritevole o no d’essere vissuta.

“Bisogna rispettare la libertà del paziente”, si ripete spesso da parte dei sostenitori dell’eutanasia; s’incorre così nella cosiddetta “aporia dello schiavo”: si può rinunciare liberamente alla libertà, alla condizione fondamentale del suo normale esercizio, la vita? La richiesta del sofferente è piuttosto quella che gli si allevi il dolore, e tale è la responsabilità del medico; suo compito è accostarsi al paziente per alleviarne le sofferenze fisiche e spirituali, non essere arbitro della sua vita e della sua morte.

Ben chiaro era questo limite ne Il giuramento di Ippocrate di Cos (ca. 460-377 a. C.), in cui si legge: “Non darò a nessuno alcun farmaco mortale neppure se richiestone, né mai proporrò un tale consiglio”; questo impegno a favore della vita e contro la morte è ribadito anche nel Codice di Deontologia Medica – approvato dal consiglio nazionale della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri il 24 giugno 1995 – all’articolo 35: “Il medico, anche se richiesto dal paziente, non deve effettuare trattamenti diretti a menomarne la integrità psichica e fisica e ad abbreviarne la vita o a provocarne la morte”.

La condizione per ammettere la liceità – e la legalità – dell’eutanasia è l’affermazione di un diritto onnipotente e irresponsabile dell’uomo a disporre della propria vita, e a chiederne la soppressione, una volta che questa sia “senza valore”. Ma una volta affermato che la vita “senza valore” può essere soppressa, a chi spetterà poi il diritto e l’onere di stabilire quando la vita è tale? Perché, infatti, dovrebbero “beneficiare” del diritto all’eutanasia solo i malati, o solo gli anziani, o solo i malati gravi? Prima di procedere nell’analisi etica conviene far cenno a due possibili e importanti conseguenze di una legalizzazione, o comunque di una diffusione della prassi eutanasica.

La prima è l’affievolirsi dell’attenzione al trattamento della sofferenza: laddove l’opzione eutanasica fosse accolta come possibile, ne conseguirebbe molto probabilmente un affievolimento dello sforzo teso a ridurre la sofferenza, soprattutto per quanto riguarda i gruppi socialmente ed economicamente più deboli, per i quali il ricorso all’eutanasia diventerebbe la soluzione più “ovvia” ed economica. Introdotta la possibilità dell’opzione eutanasica – siamo al secondo prevedibile effetto – si assisterebbe inoltre a una sorta d’inversione dell’onere della prova della dignità e del valore di ogni vita umana.

In altre parole: il paziente terminale dovrebbe continuamente giustificare la propria scelta di non richiedere l’eutanasia di fronte ai famigliari e al personale medico. La stretta e inscindibile connessione fra suicidio ed eutanasia già ha indicato alcuni presupposti di una cultura eutanasica, in particolare l’incapacità di dare senso alla sofferenza e alla morte, e una concezione della persona umana come soggetto di un diritto onnipotente sulla vita e sulla morte. Proprio a questa profondità s’incontra un’insanabile opposizione rispetto alla posizione religiosa, che considera la vita come dono di Dio, bene di cui l’uomo è beneficiario e responsabile, ma non proprietario. In tal senso si può allora ben comprendere l’insegnamento della Chiesa cattolica, che da tempo è intervenuta con puntualità e decisione in tema di eutanasia.

Si possono ripercorrere i temi principali di tale insegnamento leggendo un brano dell’enciclica Evangelium vitae sul valore e l’inviolabilità della vita umana di Papa Giovanni Paolo II, del 25 marzo 1995, al n. 66: “Anche se non motivata dal rifiuto egoistico di farsi carico dell’esistenza di chi soffre, l’eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante “perversione” di essa: la vera “compassione”, infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza. […]

“La scelta dell’eutanasia diventa più grave quando si configura come un omicidio che gli altri praticano su una persona che non l’ha richiesta in nessun modo e che non ha mai dato ad essa alcun consenso. Si raggiunge poi il colmo dell’arbitrio e dell’ingiustizia quando alcuni, medici o legislatori, si arrogano il potere di decidere chi debba vivere e chi debba morire. […] “Così la vita del più debole è messa nelle mani del più forte; nella società si perde il senso della giustizia ed è minata alla radice la fiducia reciproca, fondamento di ogni autentico rapporto tra le persone”.

Aggiornamento (luglio 2001)

Nel 1996, l’anno seguente alla sua approvazione, la legge del Territorio del Nord della Federazione Australiana che legalizzava l’eutanasia è stata abrogata. L’11 aprile 2001 è stata approvata dal Senato olandese la Legge su eutanasia e suicidio assistito. La legge, già approvata dalla Camera dei Deputati nel novembre 2000, ufficializza l’impunità di fatto di cui hanno finora goduto i medici che ponevano fine alla vita dei pazienti gravi o morenti con la somministrazione di dosi letali di farmaci o interrompendo cure ordinarie necessarie alla vita. Unica condizione è il rispetto di una serie regole, sostanzialmente le 28 condizioni già indicate dalla legge nel 1994, con l’aggiunta di precisazioni sui minori (il limite minimo d’età per scegliere l’eutanasia è 16 anni, mentre dai 12 ai 16 e per i disabili mentali occorre il consenso di un genitore o tutore) e del riconoscimento del “testamento di vita”, nel caso il paziente non sia in grado di esprimere la sua volontà. La pratica dell’eutanasia ha smesso così di essere sottoposta al controllo della magistratura ed è stata affidata esclusivamente ai medici, come una qualsiasi forma di terapia.

Aggiornamento (gennaio 2003)

Il 28 maggio 2002 in Belgio è stata approvata una legge sull’eutanasia volontaria. La legge, che è entrata in vigore il 23 settembre 2002, sancisce la non punibilità per i medici che praticano l’eutanasia su pazienti maggiorenni – o su minorenni, purché capaci d’intendere e di volere – che la richiedano in modo libero, consapevole e ripetuto, in presenza di una patologia “grave e incurabile”, che rechi sofferenze considerate insopportabili e costanti. Il testo di legge precisa che tali sofferenze possono essere sia fisiche che psichiche, dilatando così indefinitamente i limiti di applicabilità della normativa; esige inoltre che la richiesta dell’atto eutanasico sia messa per iscritto. In caso di incoscienza, hanno valore legale le direttive anticipate del paziente, che devono essere scritte, e che hanno validità quinquennale. Il medico, per quanto tenuto a informare il paziente sulle terapie del dolore disponibili (cure palliative), viene di fatto a essere un mero esecutore della volontà del paziente: il suo intervento si risolve nell’attuazione – con mezzi non specificati dalla legge – dell’atto eutanasico e nella compilazione di un rapporto da sottoporre a una commissione esaminatrice, che è chiamata a valutarlo sulla base della sola correttezza procedurale.

Per approfondire: vedi di chi scrive, insieme con Giovanna Fravolini, Thanatos ed eutanasia ,in Cristianità, anno XXIV, n. 249, gennaio 1996, pp. 5-14, e Analisi dei risvolti giuridici sociali ed etici connessi alle recenti esperienze legislative in materia di eutanasia, in Rassegna dell’Arma dei Carabinieri, n. 2, aprile-giugno 1996, pp. 26-40; vedi elementi per una corretta valutazione etica in Elio Sgreccia, Manuale di bioetica. I. Fondamenti ed etica biomedica, 2a ed., Vita e Pensiero, Milano 1994, pp. 631-681. Sulla morte e sull’assistenza al morente vedi E. Sgreccia, Antonio G. Spagnolo e Maria Luisa Di Pietro (a cura di), L’assistenza al morente. Aspetti socio-culturali, medico-assistenziali e pastorali, Vita e Pensiero, Milano 1994. Sulla posizione della Chiesa cattolica vedi anche Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari, Carta degli Operatori sanitari, 4a ed., Città del Vaticano 1995, nn. 119-124 [cfr. L. Cantoni, La “Carta degli operatori sanitari”. Una presentazione, in Cristianità, anno XXIII, n. 239, marzo 1995, pp. 6-10].