di Tommaso Scandroglio
«Corruptissima respublica plurimae leges». Così lo storico Tacito ricorda ai suoi contemporanei negli Annales e così pare rammentare a noi: quando l’autorità pubblica è sommamente corrotta, innumerevoli sono le leggi.
Il diluvio legislativo da cui da decenni siamo travolti è frutto della cancellazione progressiva ed efficace di una sola legge che conta: la legge della retta coscienza. O per tradurre tale espressione in altri termini: la legge naturale.
Tolta tale legge – operazione propria di chi è appunto corrotto nell’animo — occorre a essa sostituire una leggina per ogni nostro atto, un decreto per ogni circostanza in cui dobbiamo prendere una decisione. Uno sforzo anche inutile, se vogliamo, dato che questo scopo era stato raggiunto con un certo grado di successo dalla cosiddetta «consuetudine» almeno fino al giorno in cui Voltaire pronunciò la famigerata e incandescente frase: «Volete avere delle buone leggi? Bruciate quelle che avete, e fatene di nuove».
Il problema però è anche un altro. Eliminata questa norma a carattere morale l’uomo svilisce la sua dignità di persona e diventa bestia. E agli animali – si sa – occorre mettere il guinzaglio, le redini, bisogna imbrigliarli e percuoterli a nerbate perché ubbidiscano e da esseri bizzosi si convertano in placidi e mansueti cittadini.
Insomma una lex che sia regola per la condotta dei consociati, utile per il controllo sociale, come avrebbe detto Kelsen, per instradare comportamenti inquieti in questa bellicosa esistenza postmoderna, in questa «aiuola che ci fa tanto feroci», come invece scrisse il sommo Dante. Il risultato finale è sotto gli occhi di tutti: un oceano di leggi, norme e regolamenti la cui profondità è quasi insondabile. Un reticolo inestricabile pensato e voluto da un lato perché ogni desiderio diventi diritto, condannando il soggetto a trasformarsi in oggetto delle sue stesse pulsioni, e dall’altro affinchè la nostra esistenza sia perfettamente e con minuzia controllabile da chi sta sui Colli romani.
E perciò dato che la voce della coscienza è diventata afona e incapace di dirti quali comportamenti nel concreto devi assumere, a questa è subentrata la norma giuridica. Ma non per tentare di mimare la voce suddetta, bensì per consegnarti nuovi stili di vita. Però a volte dalla proposizione di nuovi «diritti» si passa, con garbo ed eleganza, all’imposizione di questi.
Il «testamento biologico»
E ciò che è accaduto con il disegno di legge del senatore Marino riguardante le cosiddette «dichiarazioni di volontà anticipate» (conosciute anche come «testamento biologico») e che in questi giorni compie un anno di vita.
Tale disegno di legge tra tutti quelli presentati in Parlamento è quello che ha più possibilità di passare, nel caso assai infelice che si decidesse di legiferare in materia. Le dichiarazioni di volontà anticipate non sono altro che una disposizione di volontà scritte in merito a trattamenti sanitari qualora il soggetto versi in stato di incapacità decisionale, o, detto in altri termini, quando non sia più cosciente.
Sorvoliamo sull’inefficacia di tale strumento: l’inattualità del consenso per cui oggi da sano decido che cosa fare della mia vita quando un giorno sarò malato; la probabile interpretazione erronea da parte del fiduciario, figura incaricata di dare attuazione al testamento biologico; la quasi impossibile previsione della patologia e dei relativi trattamenti sanitari a cui il futuro paziente andrà incontro, et similia.
Sorvoliamo pure sul fatto che questo documento è lo stratagemma per introdurre l’eutanasia nel nostro Paese. Sorvoliamo sulle affermazioni, un po’ logore, che fanno da contorno a questo disegno di legge secondo cui, dato che c’è l’eutanasia clandestina, occorre renderla lecita (a quando la legittimazione degli omicidi, furti, rapine, stupri, sequestri, anch’essi, da quanto ci risulta, clandestini?). Sorvoliamo su tutto ciò e invece fermiamoci su un punto di questo DdL. All’art. 10 si legge «i cittadini sono tenuti a rendere la dichiarazione anticipata di trattamento». Il principio su cui la cultura progressista e radicaloide continua a battere per far passare il testamento biologico è quello dell’autodeterminazione. La vita è mia e ci faccio quello che voglio.
Se soffro e voglio farla finita, mi deve essere riconosciuto il diritto di morire. Sono quindi io che determino in tutto e per tutto la mia esistenza. Ma — e qui sta l’obiezione – se mi è permesso che sia io a decidere in toto su ogni aspetto attinente al mio corpo, alla mia salute, perché devo essere costretto a redigere il testamento biologico così come vuole il professor Marino?
Non contrasta proprio con il principio dell’autodeterminazione il fatto che ci sia un obbligo in tal senso? La mia libertà di decidere che cosa fare della mia vita non significa anche che possa decidere di non sottoscrivere un tale documento? La domanda è ovviamente retorica.
Quale autodeterminazione?
Ma c’è un secondo punto da mettere in luce seppur brevemente: quali limiti assegnare al principio di autodeterminazione? Vi sono beni che il diritto, e il buon senso, chiama disponibili e altri che invece definisce come indisponibili. La demarcazione tra questi due generi di beni non è netta. Nonostante ciò possiamo individuare alcuni beni dei quali per il loro valore (economico, affettivo, morale) si può disporre liberamente.
Un’auto è un bene disponibile. Potrò comprarla, venderla, regalarla, smontarla: posso farci quasi quello che voglio (il «quasi» è d’obbligo: non mi è permesso per esempio investire un pedone con la mia macchina). E poi ci sono i beni indisponibili. Perché vi sono alcuni beni che il diritto — e prima di esso la morale — non mi permette di usare come voglio? Perché tali beni sono così preziosi, hanno un valore intrinseco così alto che sfuggono al dominio assoluto della mia libertà.
La vita per esempio è un bene indisponibile. Posso sì «usare» di essa: posso scegliere di sposarmi oppure no, posso decidere di studiare oppure no, posso decidere di condurre una vita sedentaria oppure no, ecc. Posso quindi compiere una serie quasi infinita di scelte attinenti alla mia vita, ma non posso scegliere di togliermela.
Il potere di autodeterminazione che legittimamente ho sulla mia vita incontra il limite del divieto di suicidio. Il diritto di autodeterminazione non è assoluto, ma relativo, cioè si deve mettere in relazione con il diritto intangibile alla vita. Questo accade proprio perché la vita è un bene così prezioso che esorbita dalla sfera della capacità decisionale. In tal senso il legame che c’è tra me e la mia vita non attiene al concetto di proprietà: io non possiedo la mia vita. Bensì il nesso che lega me alla mia esistenza è quello proprio della tutela: io devo tutelare la mia vita.
Non diritto di proprietà ma dovere di tutela. Nel concetto di tutela rientra sì la liceità di interpretare la propria esistenza così come uno vuole (sempre comunque nel rispetto delle norme morali), ma non rientra la possibilità di distruggere il bene «vita».
Per esemplificare: l’Ultima Cena di Leonardo è un dipinto che appartiene alla Comunità dei domenicani. Il fatto che sia di loro proprietà non può permettere che questi decidano, per esempio, di applicare una finestra nel centro di esso, di tinteggiare il muro dove è stato dipinto, o peggio di buttare giù tutta la parete.. Se decidessero di farlo, non solo la sovrintendenza ai beni culturali, ma tutto il mondo artistico, culturale e politico interverrebbe subito gridando giustamente allo scandalo: «L’Ultima Cena è un bene di tutti!».
Un bene vincolato
II Cenacolo vinciano è loro, ma non possono fare quello che vogliono. È un bene vincolato, ed è tale perché il pregio artistico è di incommensurabile valore. Un valore così alto che ti consente sì di intervenire sull’opera d’arte, ma solo al fine di migliorarla o di preservarne la bellezza. Nessuno sull’Ultima Cena si permetterebbe di dire: «Ormai non si vede quasi più nulla. È tutta danneggiata.
L’opera è talmente compromessa che è inutile sforzarsi a prezzo di ingenti spese per tenerla “in vita”. Un dipinto così “malato” non ha senso recuperarlo, né tantomeno vale la pena permettere l’accesso ai turisti adottando tante e tali cautele come il numero limitato di visitatori, il divieto di uso dei flash, l’analisi continua dei livelli di temperatura e umidità, ecc. Meglio distruggerla».
Se lo dicesse verrebbe preso per pazzo. Invece simile ragionamento viene spesso fatto per i malati gravi: quelli in stato vegetativo permanente, i disabili come Piergiorgio Welby, i malati di tumore ma con buone prospettive di vita, e altri ancora. Ognuno di costoro vale ben più che un’Ultima Cena: le persone valgono più delle cose. Ognuno di essi vive una condizione di salute grave, disperata: è profondamente «danneggiato» nel fisico e nello spirito come il Cenacolo di Leonardo. Eppure per essi si propone l’eutanasia.
Essi, chissà perché, non sono un bene di tutti. Ragionevole quindi l’intervento del Gip Renato Laviola che vuole contestare al dottor Riccio l’imputazione di «omicidio del consenziente» dato che ha staccato il respiratore a Welby decretandone la morte. Ragionevole perché lo stesso Gip ha affermato che il diritto alla vita è di rango superiore rispetto al diritto del rifiuto alle cure, cioè rispetto al diritto di autodeterminazione. Ragionevole perché, infine, lo sguardo che si posa sul volto del malato grave e moribondo dovrebbe riconoscere in esso un’ Ultima Cena vivente, dipinta da un artista dalle capacità divine.