Cultura&Identità. Rivista di studi conservatori Anno VIII nuova serie n. 12 5 giugno 2016
La parola “liberale” ha assunto, con la crescente complessità della politica, una gamma di significati via via più ampia e una semantica sempre più equivoca: questo saggio del grande politologo tedescoamericano cerca di fare un po’ di chiarezza
di Eric Voegelin
Il compito di tratteggiare la storia del liberalismo, anche se modesto, si rivela difficile per ragioni metodologiche, in quanto ci si trova davanti alla questione se il liberalismo è un soggetto chiaramente definibile e se questo soggetto, sia esso più o meno chiaramente definibile, possa avere una storia. Dunque, ci s’imbatte in esordio in un problema metodologico di carattere generale. Arnold Joseph Toynbee (1889-1975), per esempio, apre la sua grande opera (1) con la domanda se l’Inghilterra abbia una storia e conclude che la nazione inglese come società è così strettamente legata al tipo di società proprio della civiltà occidentale, che non si può scrivere una storia inglese senza addentrarsi nella storia della civiltà occidentale nel suo complesso.
Nel medesimo senso sorgono le domande relative a come il liberalismo vada inquadrato e se abbia una storia. E si pongono in maniera più acuta perché il soggetto costituito dal liberalismo è assai più complicato del soggetto rappresentato dall’Inghilterra. Questo perché, anche se alcune fasi della storia inglese, per esempio la Riforma, si possono affrontare solo in relazione alla storia generale europea della Riforma e della Controriforma, vi sono lunghi periodi di storia inglese del tutto a sé stanti e specifici.
Nel caso del liberalismo, restringere l’analisi alle singole società nazionali — tedesca, francese, inglese o americana — ha scarso senso, dal momento che tutte le fasi locali di sviluppo del liberalismo sono solo una parte di un processo che coinvolge l’intero Occidente; inoltre, esso solo a fatica si può isolare dagli altri processi che si snodano in parallelo nel tempo.
I
Le domande di ordine metodologico sono d’obbligo, perché nel corso degli ultimi trent’anni l’immagine di ciò che è il liberalismo è cambiata completamente. Se si prende un’opera datata, ma ormai divenuta uno standard, come quella di Guido De Ruggiero (1888-1948) degli anni 1920 (2), ci si accorge che a quel tempo, quando l’epoca liberale è al tramonto, il liberalismo pareva ancora un fenomeno facile da definire. Ma, se si osserva la letteratura più recente, si vede che l’archetipo dell’opera di De Ruggiero è quasi scomparso: oggi le questioni relative al liberalismo vanno poste in contesti più ampi. Mi si permetta di descrivere brevemente tre delle opere più recenti, per vedere in quale direzione si muove la ricerca odierna.
Consideriamo innanzitutto l’opera di Franz Schnabel (1887-1966), lo storico di Monaco di Baviera, Deutsche Geschichte im XIX Jahrhundert (3), apparso nel 1934. Il suo secondo volume (4) contiene un’approfondita e penetrante analisi del liberalismo. In questo saggio — in cui si trova anche un capitolo dedicato all’“idealtipo” (5) rappresentato dal liberalismo —, la narrazione storica riesce a descrivere il fenomeno del liberalismo solo nel contesto della sua lotta con gli altri movimenti del XIX secolo: la reazione, la restaurazione, il conservatorismo, il socialismo, e così via.
Appare quindi evidente che il liberalismo non è un fenomeno indipendente: la sua essenza può essere descritta adeguatamente solo in termini di raffronto con altri fenomeni. Due decenni più tardi, nel 1955, nella Histoire de la tolerance au Siècle de la Reforme (6) apparve un saggio di Joseph Marie Antoine Lecler (1895- 1988). Questa eccellente monografa sulla storia della tolleranza nell’età della Riforma è frutto di pregevole una ricerca sulla genesi di atteggiamenti liberali a partire dai confitti religiosi. Dal confitto fra le chiese e dal confitto di esse con lo Stato è nato un nuovo atteggiamento di tolleranza fra le chiese stesse e fra esse e lo Stato.
Lecler ricollega le origini dell’atteggiamento liberale a una realtà in genere poco considerata dall’analisi meno recente del liberalismo, vale a dire al desiderio di tolleranza nato dall’esperienza delle guerre di religione, cioè all’intuizione che la verità del cristianesimo non può essere salvaguardata dalle chiese sterminandosi a vicenda per amore del dogma, ovvero all’intuizione che le chiese devono in qualche modo convivere in una medesima società. Infine, nella sua nuova opera Die dritte Kraft [La terza forza] (7), Friedrich Heer (1916-1983) disegna un importante tratto della storia della spiritualità dall’illuminismo del tempo di Erasmo da Rotterdam (1466-1536), all’inizio del XVI secolo, fino a oggi.
Usando un modo di accostamento all’oggetto di tipo “terzaforzista”, Heer presenta la storia di un movimento che più volte ha cercato di instaurare fra rivoluzione e reazione, fra destra e sinistra dei movimenti politici europei coevi, un ordine liberale stabile e duraturo. Nel saggio affiora il volto di quel movimento politico secolaristico, di cui il liberalismo è una fase. Queste brevi annotazioni mostrano fino a che punto è articolato oggi il quadro problematico, in cui il liberalismo va collocato. Il contesto che avvolge e dà senso al liberalismo va ben oltre ciò che comunemente si capisce di esso rifacendosi al liberalismo classico alla John Stuart Mill (1806-1873).
II
L’immagine del liberalismo muta perché il liberalismo stesso cambia nel procedere della storia. E cambia perché non è un corpus di proposizioni scientifiche sulla realtà politica valide perennemente, ma piuttosto una serie di opinioni politiche e di atteggiamenti che traggono la loro “verità ottimale” (8) dalla situazione che li motiva, che però poi sono superati dalla storia e invocati a giustificazione di nuove situazioni.
Il liberalismo è un movimento politico che si colloca nell’ambito del processo rivoluzionario occidentale che lo contorna: il suo significato varia in coincidenza con le fasi che tale processo attraversa. Il lasso temporale in cui lo si può osservare con la massima chiarezza è il XIX secolo, ma questo periodo di fulgore è preceduto e seguito da periodi dove la chiarezza è minore, nei quali è sempre più difficile definire la sua identità. Possiamo accedere meglio a questa gamma di significati in continua evoluzione, se cogliamo l’espressione “liberale” nel momento in cui essa nasce storicamente e politicamente.
Anche se, come abbiamo visto, si possono far risalire le origini del liberalismo agli inizi del XVI secolo, la parola “liberale” è comunque di conio relativamente tardo. Appare per la prima volta nel secondo decennio del XIX secolo, quando un partito rappresentato nelle Cortes spagnole del 1812 si dà nome di “liberales”. Si trattava di un partito costituzionale liberale, che aveva fatto fronte contro i tentativi di restaurazione [legittimistica]. Da allora in poi la parola “liberale” è entrata nel vocabolario europeo e in breve in tutta Europa si è assistito alla formazione di gruppi, partiti e movimenti liberali.
Il primo uso del termine indica già quali sono i problemi del liberalismo. Il nuovo atteggiamento è così strettamente legato agli atteggiamenti cui si contrappone che l’intero complesso di atteggiamenti diventa un unicum di significati, che fa passare in secondo piano ciascuno dei suoi elementi. Nel decennio 1810-1820 sorgono, in parallelo con l’idea del liberalismo, l’idea conservatrice e quella di restaurazione.
Con Le conservateur (9) di François-René de Chateaubriand (1768-1848) nasce il conservatorismo e nella Restauration der Staatswissenschaft (10) di Karl Ludwig von Haller (1768-1854) del 1816 nasce l’idea restauratrice. Nell’arco di un decennio le tre idee-simbolo nate allora designano già movimenti e partiti che agiscono in parallelo, legati fra loro e tenuti insieme nella medesima unità di senso dal fatto che essi non sono altro che tre diverse modalità di reazione al fenomeno della rivoluzione.
Queste tre modalità reattive acquistano senso solo in relazione alla rivoluzione: solo nel contesto di questa si possono comprendere le quattro etichette di rivoluzione, restaurazione, conservatorismo e liberalismo. Ma, anche dopo aver acquisito questa nozione, non possiamo ancora asserire con precisione, come in una definizione concettuale, qual è il significato dei quattro emblemi. E questo perché le componenti del processo storico corrispondenti ai quattro movimenti si muovono tutte in relazione l’una all’altra e mutano così di significato.
Permettetemi di indicare alcuni di tali cambiamenti di significato. In primo luogo, oggi [1960] “liberale” è diventato quasi sinonimo di “conservatore” e, in effetti, ciò accade perché il movimento liberale è stato scavalcato da ulteriori e più radicali ondate rivoluzionarie, in opposizione alle quali esso svolge un ruolo di conservazione proprio come in precedenza, nel decennio 1810-1820, era il conservatorismo a mostrarsi conservatore in opposizione alla rivoluzione e al liberalismo.
Raymond Aron (1905-1983), per esempio, ha risposto alla domanda riguardo alla sua cultura politica dicendo che era un liberale, cioè, un conservatore. Lo stesso si potrebbe dire dell’economista austriaco Friedrich August von Hayek (1899- 1992), il quale è liberale, cioè conservatore in relazione al socialismo, al comunismo o a qualsiasi altra variante della fase di rivoluzione che ha scavalcato il liberalismo. L’archetipo del liberale “vecchio stile” è oggi considerato conservatore. Un altro cambiamento di significato del termine si è verificato in America.
Nel vocabolario politico americano “liberale” [“liberal”] non rimanda in genere al liberalismo europeo del XIX secolo, oggi considerato conservatore, ma, al contrario, a un atteggiamento politicamente progressista. In parole povere, si può dire che in America il Partito Repubblicano è detto conservatore e il Partito Democratico liberal-progressista. Ma ciò che è conservatore nel partito repubblicano è il suo liberalismo vecchio stampo europeo, cioè la sua opposizione al socialismo, all’interventismo eccessivo dello Stato, e così via, mentre il Partito Democratico è “liberale” in quanto il suo programma mira allo Stato sociale, al capitalismo di Stato e a sostenere con decisione gli interessi dei sindacati.
Lo spostamento di significato “verso sinistra” è tale che l’aggettivo “liberale” è spesso usato come sinonimo di “rosa” [ossia rosso temperato] o di “utile idiota”. Questo mutamento di significato è stato possibile perché in America il liberalismo europeo vecchio stile difficilmente esisteva come movimento politico e non si era sviluppato in tal senso perché in America non era presente l’avversario con cui il liberalismo doveva confrontarsi in Europa.
Nella prima metà del XIX secolo, durante il periodo della lotta eroica del liberalismo europeo, l’America non ha dovuto combattere contro movimenti di restaurazione o sopravvivenze del principio monarchico o una Chiesa politicamente attiva e alleata con lo Stato. È quindi chiaro che il liberalismo può assumere varie funzioni e sfumature di significato a seconda del contesto sociale.
Il liberalismo ha subìto un altro mutamento di significato assai importante dopo la Seconda Guerra Mondiale. Se si osservano gli schieramenti politici del dopoguerra — nella Germania Federale, in Francia e in Italia — si nota la presenza di formazioni parlamentari che prima della guerra non esistevano in forma così imponente: in ciascuno di questi Paesi il partito di maggioranza relativa era allora strettamente legato alla Chiesa cattolica e alle chiese protestanti. Il liberalismo e queste nuove forze politiche hanno stretto larghe intese, assimilandosi reciprocamente.
I liberali, che erano stati superati dalla rivoluzione, sono così diventati conservatori e le organizzazioni cristiane, di per sé conservatrici, si sono sensibilmente “liberalizzate”, sì che è divenuto possibile a entrambi formare un fronte comune contro il pericolo comune. Ma, di nuovo, il contesto sociale ha la sua importanza e la direzione che l’attuazione di quelle intese ha preso non è stata univoca. Quando i partiti di ispirazione cattolica o protestante sono diventati portatori di istanze liberali, allora i liberali più rigidamente laicisti hanno sono potuto diventare ancora più laicisti e anti-clericali: hanno potuto, come in Francia, spostarsi ancora più decisamente a sinistra, dal momento che la posizione dei liberali era stata occupata dai conservatori oppure anche propendere per il partito comunista, anche se non erano affatto comunisti.
Soprattutto in Francia e in Italia il comunismo ha assunto il ruolo anticlericale del precedente liberalismo nella misura in cui i vecchi liberali si sono spostati a destra diventando conservatori, a volte con intonazioni squisitamente cristiane. Ma, nonostante queste considerazioni, le complicazioni non sono finite. Ho notato prima che il liberalismo, il conservatorismo e la restaurazione si possono leggere solo come modalità di reazione contro la Rivoluzione. Nella stessa Francia, ancora nel decennio 1810-1820, il liberalismo si appropria del vessillo della rivoluzione e lo fa suo. Consideriamo questo spostamento di significato.
Nel 1815 il liberale François Charles Louis Comte (1782-1837) — da non confondere con il sociologo Isidore Marie Auguste Comte (1798-1857) — fonda Le Globe (11). In questo periodico Comte elabora il programma di un liberalismo, il cui compito sarebbe quello di portare avanti la “révolution permanente”. Che cos’è questa rivoluzione permanente? Comte credeva che sotto l’“ancien régime” fossero state perpetrate ingiustizie sociali terribili e che la rivoluzione fosse scoppiata perché non erano state attuate al momento opportuno le necessarie riforme: se non si fa abbastanza per soddisfare le esigenze di giustizia sociale, il risultato è la rivoluzione. Per cui, se si vuole evitare il ripetersi in futuro di fatti orribili come quelli francesi, allora quello che la rivoluzione ha conquistato con mezzi inappropriati va conseguito a tempo opportuno usando lo strumento meno sgradevole della riforma.
La rivoluzione deve diventare permanente nel senso che solo una ininterrotta e flessibile politica di riforme può dare addio al terrore rivoluzionario. Anche se ha cambiato nome, l’idea di Charles Comte si è incarnata nella politica liberale e, attraverso il liberalismo riformistico del XIX secolo, è diventata ciò che oggi in America è detto “cambiamento pacifico”.
L’idea di un cambiamento pacifico, di una politica di adeguamento tempestivo alla condizione della società, la quale, nell’era della Rivoluzione industriale, muta assai rapidamente, è diventata oggi una costante di tutte le sfumature del liberalismo. Da questo punto di vista, il liberalismo è diventato un metodo per portare avanti la rivoluzione con mezzi diversi e meno distruttivi. Questo liberalismo, così plausibile e allettante dal suono stesso della parola, è in realtà debole, in quanto sottovaluta notevolmente le motivazioni e le forze che stanno alla base della rivoluzione.
In effetti, il liberalismo non ha dismesso del tutto il terrore rivoluzionario, ma, piuttosto, è stato costretto a ricoprire un ruolo conservatore nell’era dei regimi totalitari. Charles Comte ha davvero visto correttamente che nel liberalismo vi è un qualcosa di rivoluzionario, ma che la rivoluzione va ben oltre i desideri del liberalismo. Questo si evidenzia nel corso della révolution permanente che si sviluppa nel XX secolo. Lev “Trotsky” (pseudonimo di Lev Davidovič Bronštejn; 1879-1940) si appropria dell’idea di rivoluzione permanente durante la fase rivoluzionaria che ha da poco scavalcato il liberalismo. La sua analisi del movimento rivoluzionario è acuta: sa che quello che viene è chiamato “rivoluzione” — la rivoluzione comunista di oggi o la rivoluzione francese di ieri, di cui solo oggi si comprende l’intero significato — è un processo e che un processo vive nella misura in cui si muove.
Il rivoluzionario radicale deve trasformare la rivoluzione in uno stato permanente: non vi può essere alcun compromesso o stabilizzazione dei suoi risultati a un determinato stadio. Poiché, se si concede una sosta di stabilizzazione, allora la rivoluzione è finita. Se si vuole mantenere viva una rivoluzione, si deve continuamente portarla oltre: essa vive di scontento, ha bisogno di un avversario permanente, deve trovare ostacoli da superare nei suoi attacchi, e così via. Se non vi sono più ostacoli, non vi sono più imperialisti o deviazionisti, la rivoluzione muore per mancanza di realtà da aggredire. La rivoluzione può finire solo una volta raggiunto il suo obiettivo.
Ed è proprio questa l’intuizione che Trotsky rivela nella sua idea di révolution permanente: la rivoluzione in senso moderno non ha alcuna intenzione di produrre una condizione stabile, perché essa è la condizione mentale e spirituale di un’azione priva di obiettivo razionale. La rivoluzione ha carattere di permanenza perché il suo obiettivo formale, che nel comunismo è una società i cui membri sono divenuti dei superuomini, non può essere realizzato.
La rivoluzione diventa permanente quando il rivoluzionario si pone un obiettivo che ex definitione non è raggiungibile in quanto presuppone la trasformazione della natura umana. La natura immutabile dell’uomo pone ininterrottamente ostacoli sul percorso verso la meta paradisiaca. Se lo scopo della rivoluzione è quello che deriva dalla filosofia della storia gnostica (12), allora l’azione rivoluzionaria non ha alcun obiettivo razionale. Trotsky l’ha capito, anche se ha espresso l’idea in termini diversi. Ho toccato il tema del mutamento di significato della révolution permanente non per presentare una curiosità storica, ma perché il liberalismo riconduce al problema della rivoluzione permanente. Perché l’idea di Charles Comte, secondo cui l’obiettivo della rivoluzione può essere raggiunto attraverso un costante processo di riforma senza effetti collaterali spiacevoli, appartiene al novero delle teorie gnostico-utopiche.
Essa è intimamente legata all’idea progressista settecentesca, sostenuta da Immanuel Kant (1724-1804) e dal marchese Marie-Jean-Antoine de Caritat de Condorcet (1743-1794), secondo cui lo stato finale dell’umanità razionale può essere raggiunto attraverso un processo di approssimazione infinita. Ma a questo non si può giungere, perché l’uomo non è solo una creatura razionale, ma molto di più. Quindi, non è un caso che il rivoluzionario comunista abbia ripreso la révolution permanente del liberale: nel liberalismo, infatti, è presente anche un elemento irrazionale, rappresentato dalla credenza in uno stato finale escatologico, in una società che produrrà, con i suoi metodi razionali e senza sconvolgimenti violenti, una condizione di pace perenne.
Anche il liberalismo è parte di quel movimento rivoluzionario che vive solo nella misura in cui avanza. Da Charles Comte a Trotsky corre una linea di crescente consapevolezza che il movimento di riforma, cui anche il liberalismo appartiene, è un unico contesto, nella misura in cui il suo obiettivo finale non può essere conseguito. L’intreccio fra liberalismo, rivoluzione e restaurazione sarà più chiaro dopo una breve riflessione dell’omonimo più illustre di Charles Comte, Auguste.
Nel terzo volume della sua grande opera su La jeunesse d’Auguste Comte (13), Henri Gouhier (1898-1994) ci offre un notevole studio su “Rivoluzione e Restaurazione”. In esso Gouhier solleva la questione se Comte era un liberale oppure un protagonista della Rivoluzione francese o un esponente della restaurazione. E mostra con molta sottigliezza che a questa domanda si può rispondere positivamente in tutti e tre i casi. E questo perché il movimento rivoluzionario francese si è spinto fino a un estremo, poi si è fermato, quindi è divenuto regressivo e l’estremo di cui sopra è che, nella fase rivoluzionaria più recente [cioè il comunismo], ha scavalcato il liberalismo.
Ciò che qui fa problema può essere visto meglio attraverso due figure, Maximilien-François-MarieIsidore de Robespierre (1758-1794) e Jacques-René Hébert (1757-1794). Durante la Rivoluzione, Robespierre era il rappresentante del deismo: voleva instaurare il culto dell’Etre sûpreme, l’Essere supremo; Hébert credeva invece che il deismo fosse una concessione troppo generosa al cristianesimo e al clericalismo e voleva instaurare il culte de la raison. Ma, per Robespierre, questa opzione era troppo apertamente ateistica. Fra i due, Robespierre era quindi il rivoluzionario “conservatore”, mentre Hébert era il rivoluzionario radicale, che voleva eliminare completamente il contenuto spirituale del cristianesimo, addirittura nella pallida forma del deismo.
Ora esaminiamo la posizione di Comte nel contesto di questa tensione fra conservatorismo e radicalismo. Rispetto a Robespierre, Comte era un rivoluzionario: non voleva tornare al deismo e al culto dell’Etre sûpreme e fu così che divenne il fondatore di una nuova religione, la religion de l’humanité. Ed era così anche erede di Hébert, in quanto voleva deificare la ragione e organizzare la nuova umanità nello spirito della ragione divinizzata, divenendo così un protagonista della rivoluzione, un rivoluzionario radicale contro ogni movimento liberale o restauratore del suo tempo.
D’altronde, però, Comte potrebbe anche essere visto come un conservatore, perché non aveva alcun desiderio di rinnovare il Terrore: anzi, voleva superare non solo l’ancien régime, ma anche il populismo rivoluzionario della Comune di Parigi [del 1793], di cui Hébert era stato rappresentante. Cercava un modo nuovo per unire il contenuto spirituale della Rivoluzione con una organizzazione sociale conservatrice. Voleva il “potere temporale” di una congrega di industriali unita dal “potere spirituale” degli intellettuali sotto il “pontifcato” di Comte. Questa è l’immagine residua della società medievale, con i manager al posto dei prìncipi feudali e gli intellettuali positivisti al posto del clero. Alla luce degli eventi successivi, si potrebbe dire che è il modello di un fascismo industriale sotto la guida di una setta gnostica. Da questo punto di vista, Comte era un conservatore.
E, infine, abbiamo il Comte gradito ai liberali del suo tempo. Nella prima fase, quella intellettuale della sua opera, egli attacca la metafsica e la religione da un punto di vista scientistico: e ai liberali questo piaceva. È la fase in cui Comte si guadagna l’amicizia di John Stuart Mill e di Émile Maximilien Paul Littré (1801-1881) e diventa un personaggio influente a livello internazionale. John Stuart Mill, in particolare, fonde nel suo liberalismo parecchi elementi presi a prestito da Comte. Ma gli amici liberali, al contrario, restano intimoriti e contrariati dalla seconda fase, quella religiosa, dell’opera di Comte, in cui egli vuole creare una organizzazione mondiale di intellettuali positivisti e conferirle una impostazione autoritaria, a mo’ di chiesa. Allora fra Comte e i liberali si crea una rottura.
Per noi è ora importante affermare stabilire che non vi sono mai state due fasi nella vita e nell’opera di Comte. Gouhier ha dimostrato che le idee della cosiddetta seconda fase sono contenute, almeno a grandi linee, nei suoi primi scritti degli anni 1820. Comte procede secondo un programma ed elabora l’intera concezione che caratterizza il suo primo periodo per gradi: il Comte liberale, il Comte conservatore e il Comte rivoluzionario sono un’unica personalità. Dagli storici liberali della seconda metà del XIX secolo, tuttavia, questo fenomeno è stato considerato così terribile e incomprensibile da dovere inventare le due fasi e spingersi fino a far risalire la seconda fase a una malattia mentale.
La bisezione di Comte continua anche nel XX secolo: il primo Comte, il fondatore della sociologia, ispira le scienze sociali neo-positivistiche, mentre il secondo, il Comte religioso, è sostituito dal marxismo. Ciò che intimoriva i liberali nelle teorizzazioni con cui intendevano difendersi dal comunismo era l’elemento rivoluzionario radicale presente in Comte, che svelava, con una fin troppo dolorosa evidenza, il contenuto gnostico del liberalismo.
Il comportamento dei liberali verso Comte suggerisce una considerazione fondamentale. Comte è stato di gradimento ai liberali fintantoché attaccava la teologia e la metafisica e dischiudeva la prospettiva di una sociologia analoga alla fisica sotto il profilo metodologico. Egli sapeva, però, che, anche imitando nelle scienze sociali i metodi delle scienze naturali, non si poteva sostituire l’ordine spirituale e il suo simbolismo teologico-metafisico. Era conscio che, se voleva sostituire l’ordine spirituale che egli accusava di essere falso, doveva presupporre l’esistenza di un ordine spirituale alternativo.
La sua nozione di dimensione spirituale, di cui avvertiva il bisogno di soddisfare, anche e soprattutto, l’esigenza, andava peraltro oltre il pensiero che aveva in comune con i liberali. Comte era infatti un genuino rivoluzionario dello spirito: sapeva che non era sufficiente attaccare l’autorità spirituale e, grazie a questa sua consapevolezza del problema, egli va considerato un pensatore più importante di qualsiasi pensatore liberale.
Nella distinzione fra Comte e un liberale qualunque scopriamo il motivo per cui il liberalismo deve essere inevitabilmente sorpassato nella dinamica del processo, spiritualmente ben più forte, della rivoluzione. Non si può uscire dalla rivoluzione. Chiunque vi partecipa in via temporanea, con l’intenzione poi di ritirarsi in pace in quel pensionamento che si autodefinisce liberalismo, scoprirà prima o poi che la pulsione rivoluzionaria a distruggere le istituzioni sociali che considera pericolose e obsolete, non è un buon investimento per un pensionato.
III
Abbiamo parlato della rivoluzione dello spirito, di cui il liberalismo è una fase, e abbiamo visto che gli autori più recenti fanno risalire le origini del movimento liberale al XVI secolo. Il liberalismo classico del XIX secolo ha il suo posto in questo movimento di carattere universale. Naturalmente, non è possibile fare qui un riassunto della storia del movimento liberale: l’argomento è così vasto che una indagine dettagliata proverebbe solo la futilità del tentativo. Basterà quindi un profilo del modello.
Il processo rivoluzionario si snoda a grandi ondate. In ciascuna di queste ondate si può distinguere, in primo luogo, lo scoppio reale della rivoluzione; in un secondo momento, il sorgere di un movimento di segno opposto e l’organizzazione di forme di resistenza; infine, un periodo di quiete e di aggiustamento, destinato a durare fino al prossimo scoppio, in cui il processo si stabilizza a un nuovo stadio.
Tre di queste ondate si possono identificare a partire dal XVI secolo. La prima è la Riforma, che genera la Contro Riforma. La seconda è la Rivoluzione francese, che suscita movimenti di reazione e di restaurazione. La terza ondata è in modo chiaro la Rivoluzione comunista. Tuttavia, il movimento di opposizione che corrisponde a quest’ultima non è ancora ben definito, dal momento che la terza ondata si è riverberata ben oltre il suo centro originario posto in Occidente e i suoi effetti sono diventati mondiali.
La resistenza contro l’ondata comunista ha assunto forme diverse, come la reazione di massa da destra, rappresentata in Occidente dal fascismo e dal nazionalsocialismo — che hanno un proprio carattere rivoluzionario —; oppure come il movimento di resistenza del mondo libero contro il comunismo — che ha potuto, però, allearsi con il comunismo contro il carattere rivoluzionario del fascismo e del nazionalsocialismo —; e, infine, l’opposizione di un neutro “Terzo Mondo” — realtà questa che non può essere chiaramente delineata, dal momento che è oscurata dal movimento di liberazione dal colonialismo occidentale.
A ciascuna di queste ondate del movimento rivoluzionario, inclusi i movimenti di reazione, corrisponde un fenomeno di stabilizzazione.
In conseguenza della condizione di esaurimento prodotta dalle guerre di religione è nata una dottrina atta a fornire la base per la desiderata stabilità collettiva: quella del cosiddetto diritto naturale, il tentativo cioè di fondare un nuovo ordine dell’umanità occidentale sulla basi non derivanti dalla Rivelazione e dai dogmi delle chiese. Huig de Groot — più noto come Ugo Grozio (1583-1645) — ha dato la formulazione più chiara a questo intento probabilmente quando ha detto di voler fondare i principi del diritto naturale su assiomi infallibili come quelli della matematica.
Ma il tentativo di costruire la verità circa l’ordine sociale e umano more mathematico doveva fallire per sua propria natura, sì che il secolo della legge naturale sarà sommerso dalla successiva ondata della rivoluzione. Alla rivoluzione, all’organizzazione della resistenza contro di essa nelle guerre delle coalizioni [antinapoleoniche] e al periodo della Restaurazione, segue un nuovo un periodo di stabilità.
L’età del liberalismo può forse essere meglio vista come questo periodo di stabilità, che corrisponde all’età del diritto naturale, instauratasi dopo la prima ondata rivoluzionaria. Nulla si può dire ancora sulla stabilizzazione che fa seguito alla terza ondata rivoluzionaria: gli scontri bellici fra rivoluzione comunista e le resistenze contro di essa sono ancora in corso e le complicazioni nate da questo scontro sono diventate mondiali.
Ma all’interno del mondo occidentale si possono vedere i segni di una condizione di stabilità nella combinazione fra concetto liberale di economia e politica del Welfare State. Questa condizione di stabilità ha come ulteriore caratteristica quella che la degenerazione spirituale indotta dalle ideologie, anche se non è stata in alcun modo ancora superata, è stata notevolmente alleviata dalla tendenza ad attingere alle fonti del cristianesimo e della ratio.
IV
Abbiamo considerato il liberalismo come una fase del movimento rivoluzionario: ora dovremmo definire il suo contenuto. A tale scopo possiamo utilizzare come guida la classificazione in quattro aspetti contenuta in Deutsche Geschichte [Storia tedesca] (14) di Franz Schnabel (1887-1966), che tratta degli aspetti politici, economici, religiosi e scientifici del liberalismo. Questa classificazione è orientata principalmente alla forma assunta dal liberalismo in Germania e, in certa misura, vi sono ulteriori punti da sottolineare se la si vuole applicare ad altri Paesi occidentali.
L’aspetto politico del liberalismo è definito dall’opposizione liberale contro determinati abusi da eliminare. Il liberalismo è soprattutto contro lo Stato di polizia (15) vecchio stile, vale a dire, contro l’invasione dell’esecutivo a danno della sfera giudiziaria e di quella legislativa: nella politica costituzionale i liberali chiedono la separazione dei poteri. In secondo luogo, il liberalismo si oppone al vecchio ordine sociale, cioè alla posizione di privilegio del clero e della nobiltà. E qui si può vedere la debolezza di un atteggiamento politico legato alla situazione: ma avremo qualcosa in più da dire su questo punto nel prosieguo.
Ma, con il passare del tempo, quando la classe operaia in ascesa diviene politicamente capace di guidarlo, l’attacco al privilegio si rivolge contro la borghesia liberale stessa. E nella dinamica del processo rivoluzionario questo attacco non può avere termine finché la società non è diventata egualitaria. E, infine, il liberalismo si rivolta contro il legame fra chiesa — non importa quale — e Stato e allora diventa anticlericale.
In economia, il liberalismo intende abrogare le vecchie restrizioni legali che fissano limiti alla libera attività economica. Per i liberali non dovrebbe esistere alcun principio, né alcun motivo alla base dell’attività economica se non l’egoismo “illuminato”: essi presumono infatti che le azioni intraprese razionalmente in vista del proprio interesse portino necessariamente a un ordine armonioso della società. Un terzo aspetto è quello religioso, che va distinto dal mero anticlericalismo, il cui obiettivo è la separazione fra Chiesa e Stato.
Al di là di questa esigenza di natura costituzionale, esso infatti rifiuta la Rivelazione e il dogma come fonti di verità e rigetta ogni istanza spirituale, cedendo così al secolarismo ideologico. Infine, la posizione del liberalismo in campo scientifico non può essere sempre disgiunta dalla sua posizione religiosa. La sua essenza è il principio dell’autonomia della ragione umana immanente come fonte della conoscenza. I liberali parlano di libertà di ricerca nel senso di liberazione dalle “autorità”, cioè non solo dalla Rivelazione e dal dogmatismo, ma anche dalla filosofa classica, il cui rifiuto si tramuta in un punto d’onore, a causa della sua associazione medievale con la scolastica.
V
Sotto ciascuno di questi quattro aspetti il liberalismo ha incontrato delle difficoltà. La sua battaglia programmatica ha potuto avere sempre successo fino a un determinato punto, ma poi è entrata in una crisi più grave dell’ultima superata. Dobbiamo ora guardare più da vicino questo fenomeno del liberalismo che viene sorpassato e s’impantana. La debolezza del liberalismo politico è la sua fede nel valore redentivo di un modello costituzionale costruito in opposizione alla monarchia assoluta e allo Stato di polizia.
I pilastri dell’edificio liberale sono le istanze dei diritti umani fondamentali, la separazione dei poteri e il suffragio universale. Questi tre requisiti non sono assiomi sistematici, anzi, il loro convergere è storicamente contingente. I diritti umani fondamentali sono il sedimento, diventato legge positiva, del vecchio jus divinum et naturale, che obbligava i governanti del Medioevo e del Rinascimento, anche se il loro modo di rispondere a tale obbligo ha spesso lasciato parecchio a desiderare.
Se usiamo l’immagine del tesoro culturale sommerso, si potrebbe dire che essi sono l’elenco di ciò che è stato ricuperato dei doveri del principe, il cui fondamento religioso e metafisico non è più accettato in un tempo in cui se ne è persa la sostanza spirituale. L’istanza della divisione dei poteri, spesso considerata come l’elemento principale del programma costituzionale liberale, ha uno statuto concettuale ambiguo. Nell’Europa a nord delle Alpi essa dopo la fine del XVII secolo è balzata al centro dell’attenzione.
Charles-Louis de Secondat, barone de La Brède e di Montesquieu (1689-1755), erigeva a modello la prassi costituzionale inglese dei decenni successivi alla Gloriosa Rivoluzione [1688-1689], e l’idea della costituzione mista e del bilanciamento dei poteri — idee in parte influenzate dal concetto di equilibrio della scienza meccanica moderna —, contribuivano a darle dignità teoretica. Ciononostante, la prassi costituzionale inglese ha molto presto abbandonato la divisione dei poteri per spingersi verso la sovranità del parlamento.
Quando, nel 1789, il principio della divisione dei poteri è stato incorporato nella Costituzione americana, non era già più presente nella costituzione inglese. L’effettiva prassi costituzionale inglese fu resa nota al grande pubblico solo dopo la metà del XIX secolo grazie all’opera di Walter Bagehot (1826-1877) (16). Pertanto, non si può certo parlare di divisione dei poteri come istanza fondamentale ìnsita nel liberalismo: si tratta piuttosto di un modello à la page, il cui destino e la cui pretesa di essere indossato sono subordinati alla condizione effettiva dell’informazione o della disinformazione. Infine, il suffragio universale in origine non era affatto un obiettivo politico dei liberali: si trattava invece di un motivo populistico contro il quale i liberali più all’antica cercavano di sostenere il principio del suffragio limitato in base alla proprietà e all’istruzione. Solo grazie a una enorme pressione politica dal basso il suffragio universale si è trasformato gradualmente in una istanza liberale.
Un modello costituzionale così manifestamente legato al contingente storico deve creare necessariamente difficoltà e causare gravi danni, se viene eretto a dogma, se lo si rende parte di una visione del mondo e si erigono i suoi elementi ad articoli di fede. La catastrofe prodotta della sua esportazione nelle società non occidentali è sotto gli occhi di tutti, tuttavia non occorre guardare così lontano. Nello stesso Occidente, l’Europa è stata portata sull’orlo della catastrofe dalla propaganda internazionale contraria e dalla distruzione realizzata delle strutture politiche non corrispondenti al modello dello Stato nazionale liberale, nonché dalla follia d’introdurre, senza alcun periodo di transizione, il modello costituzionale all’interno di società in cui non si era sviluppato autonomamente.
Soprattutto l’equivoco sul fatto che i diritti umani fondamentali comprendessero il privilegio di distruggere ideologicamente l’ordine esistente ha avuto conseguenze esiziali in società prive di una tradizione politica matura, come quella tedesca. Oggi il furore escatologico insito nel modello si è, se non spento, almeno notevolmente smorzato. Oggi sappiamo che le società non diventano libere grazie alle costituzioni liberali, ma che le società libere producono costituzioni liberali e possono funzionare nel loro ambito: una relazione che John Stuart Mill ha sottolineato con enfasi.
Strettamente connesso con il fallimento del modello costituzionale è il crollo del modello economico. Nella sua versione inglese il modello economico liberale era in origine legato alla situazione determinata da una concentrazione di popolazione relativamente bassa e da una economia prevalentemente agricola. Il modello dello “stato di natura”, da cui John Locke (1632-1704) ha tratto la sua concezione della costituzione, era la società dei pionieri americani, in cui ogni capofamiglia era un proprietario terriero e usava con parsimonia del suo pezzo di terra insieme alla famiglia, creando da solo i propri mezzi di sussistenza e producendo del valore aggiunto.
Nel Second Treatise on Civil Government, Locke ha formulato il modello in maniera icastica: «All’inizio tutto il mondo era America» (17). Questo archetipo è sopravvissuto rigoglioso nella resistenza jefersoniana alla società industriale. L’originario e armonico equilibrio fra cittadini di pari potenziale economico è stato distrutto dallo sviluppo della società industriale. È nata una nuova struttura di potere che il liberalismo agrario delle origini non poteva neppure immaginare.
Quando la società si è differenziata in capitalisti e in lavoratori, allora il modello di società di cittadini liberi e uguali è stato sorpassato da una realtà che spingeva verso la crisi della lotta di classe. Allora nacque anche la problematica etico-sociale, che dopo lunghe lotte politiche ha portato alla massiccia introduzione di elementi di socialismo nella struttura economica liberale.
Il superamento dell’atteggiamento anti-religioso del liberalismo che la storia ha prodotto è talmente noto che una breve indicazione pare sufficiente. L’attacco liberale, come visto, aveva come obiettivi il dogmatismo e l’autorità della Rivelazione. Bastava solo che questi influssi sul pensiero e sulla vita pubblica fossero rimossi per mettere in grado l’essere umano libero di ordinare razionalmente la società mediante la sua ragione autonoma. Tuttavia, se nella pratica si riesce a espellere il cristianesimo dagli uomini, non per questo essi diventano liberali razionali: diventano ideologici.
L’ordine spirituale negato non è stato sostituito dalla dottrina liberale, ma piuttosto da una delle tante ideologie che rivestono la medesima elevata intensità emotiva della religione. I liberali non avevano previsto tale effetto, perché la loro concezione del mondo fondata sulla ragione immanente aveva già così profondamente deformato l’immagine dell’uomo che il problema dello spirito e della fede trascendente erano scomparsi dalla sua visuale.
Politicamente, l’ideologizzazione dell’uomo, di cui il liberalismo è stato una potente, anche se non voluta, concausa, ha avuto come risultato che il modello liberale-costituzionale non potesse più funzionare. Se la maggioranza degli elettori è comunista o nazionalsocialista, essa può formare un blocco di maggioranza tale da rendere impossibile il funzionamento della costituzione, come abbiamo visto nella Repubblica di Weimar [(1919-1933), in Germania].
Il problema dell’approccio liberale alle scienze è strettamente legato a quello religioso. Tecnicamente, di sicuro, le questioni che sorgono in questo ambito sono assai più complicate, quindi dobbiamo limitarci a qualche suggerimento. Per quel che posso giudicare, la concezione di una ragione autonoma e immanente non provoca alcun danno in matematica e nelle scienze naturali suscettibili di essere matematizzate. Ma nelle scienze umane e in quelle sociali essa distrugge il suo oggetto, perché l’uomo è imago Dei e partecipa con la sua essenza all’essere trascendente.
Se si definisce la ragione immanente come l’essenza dell’uomo, allora l’ontologia come scienza dei fondamenti ne risulta annientata e una scienza sociale su base razionale adeguata al proprio oggetto non è più possibile. Il risultato è la decadenza delle scienze sociali che caratterizza la tarda epoca liberale e che è ora in via di superamento a causa della restaurazione della ratio e dell’ontologia.
Un esempio della decadenza oggi in via di superamento è il metodo della relazione di valore e del relativismo dei valori, che, in quanto ideologia, ha avuto in tutto il mondo il medesimo successo del marxismo, del positivismo o della psicoanalisi.
L’essenza della teoria del valore è la trasformazione della gerarchia oggettiva dei beni, con il summum bonum come suo compimento trascendente, in postulati di valore umano. L’oggetto delle scienze sociali è ritenuto essere il riferimento ai valori correnti e la validità di questi valori può essere verificata solo in riferimento a postulati indimostrati. Finché tale metodo viene utilizzato in un ambiente impregnato di tradizione, il pericolo non è così evidente, poiché i “valori” rimangono relativamente vicini alla tradizionale gerarchia oggettiva dei beni.
Ma se il metodo viene applicato in una società minata e infestata dall’ideologia, il risultato è una gamma di definizioni dell’oggetto tanto estesa quanti sono i postulati ideologici di valore. La scienza si riduce quindi a un’apologia delle varie ideologie. Ho compreso la conseguenza ultima di ciò nel corso di un intervento che ho tenuto a Heidelberg, quando, durante il dibattito, sono stato contestato da un giovane della scuola di Alfred Weber (1868-1958), il quale insisteva che, se vuole rimanere obiettivo, lo scienziato sociale deve fare scienza nello spirito del tempo, perché non vi sono criteri per la scelta e per l’ordinamento dell’oggetto della ricerca che non siano i valori “politicamente corretti” [recognized] del proprio tempo.
Quando lo scienziato si pone fuori dallo spirito del tempo e introduce criteri ontologici, allora cade nel soggettivismo. Quindi, solo se si aderisce soggettivamente e arbitrariamente a qualche ideologia del tempo, si è obiettivi; se, invece, si cerca di trovare un fondamento obiettivo ai giudizi riguardanti l’ordine sociale, allora si è soggettivi. Esempi di opinioni simili si possono ricavare dall’ambito delle scienze sociali neo-positiviste.
Di fronte a questa radicale dissoluzione delle scienze sociali ci troviamo oggi davanti al problema della loro ricostruzione attraverso la restaurazione di una ontologia critica.
VI
Permettetemi di riassumere il risultato di queste osservazioni.
In quanto fase del processo rivoluzionario, il liberalismo ha lasciato un sedimento nella società occidentale contemporanea. Una componente di questo sedimento è la tendenza alla separazione fra Stato e Chiesa, che ha avuto origine nei secoli XVI e XVII, prima dell’epoca liberale in senso stretto. Sebbene essa non debba sempre essere intesa necessariamente come separazione formale fra Stato e Chiesa, come in America, è vero che dal trauma delle guerre di religione è sorta la risoluzione a non consentire in alcun caso a confitti di natura organizzativa o dogmatica fra le chiese di assurgere a un rango politico così elevato nella sfera pubblica da dividere la società in partiti in guerra fra loro.
Implicito in questa risoluzione è un atteggiamento di tolleranza, in quanto lo scoppio delle ostilità può essere evitato solo se si accetta una società religiosamente pluralistica. È stata allora elaborata una dottrina politica che promuove positivamente la libertà religiosa e la libertà di coscienza per ciascuno, con il solo limite dei costumi della società e della legge penale. Infatti, a quest’ultimo riguardo, per esempio, una setta di adamiti che per motivi di coscienza ritenessero di illustrare meglio la nuda verità di Dio andando in giro nudi per strada, ben difficilmente sarà tollerata.
Il caso non è inventato: esso ha suscitato grandi preoccupazioni ne[l teologo puritano inglese] Roger Williams (1603-1684) nel Rhode Island [da lui fondato in America], dove regnava il liberalismo religioso. Anche la poligamia difficilmente sarà permessa: i mormoni hanno dovuto rinunciare alla poligamia, quando lo Utah [lo Stato da loro fondato in America] doveva essere accolto fra gli Stati Uniti. Entro questi limiti è stato consentito alla tolleranza religiosa di divenire la dominante e, dove solleva ancora dubbi, le è stato comunque permesso di insediarsi.
Un’altra parte del lascito del liberalismo è una certa forma di resistenza — che si attiva lentamente, ma decisamente nei casi concreti — davanti a quei fenomeni sociali che erano stati oggetto di attacco specifico da parte del liberalismo durante il suo periodo di lotta per imporsi, in particolare ai progetti di una costituzione di tipo dittatoriale e ai tentativi di erigere socialmente un’autorità spirituale organizzata.
Infine, possiamo citare altri due fenomeni, che non possono essere considerati parte del lascito del liberalismo in quanto mirano, al contrario, a trasformare lo stesso liberalismo grazie alla pressione degli eventi storici; tuttavia, essi sono oggi così profondamente integrati nel liberalismo da fare parte della forma che esso ha assunto nella società contemporanea.
Il primo è l’assorbimento delle istanze eticosociali nel liberalismo classico. Questo fenomeno ha creato quell’amalgama che noi conosciamo sotto vari nomi: New Deal [nuovo corso], Welfare State [Stato sociale], Soziale Marktwirtschaft [economia sociale di mercato] e così via. Il secondo fenomeno è il liberalismo che incorpora elementi di cristianesimo. Dobbiamo stare attenti a credere che questa modalità di riappropriazione di elementi cristiani sia sempre la migliore e prometta un successo duraturo. Eppure il fenomeno è talmente forte che nel periodo dopo la Seconda Guerra Mondiale i partiti vicini alle chiese sono divenuti promotori di politiche liberali in tre delle principali nazioni del Continente: Germania, Francia e Italia.
Alla luce di queste considerazioni si può dire che, da un lato, il liberalismo ha decisamente ancora una voce in capitolo nello scenario politico del nostro tempo [1960]; d’altra parte, però, oggi le idee di autonomia, di ragione immanente e di soggetto autonomo in economia sono poco vive e feconde: pertanto, del liberalismo classico di stampo laicistico e borghese-capitalistico si può stilare l’atto di morte
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(*) Questo saggio, originariamente una conferenza tenuta alla Katholische Akademie Bayern (cfr. Der Liberalismus und seine Geschichte in Karl Forster (1928-1981) (a cura di), Christentum und Liberalismus, Zink, Monaco di Baviera 1960), pp. 13-42), è apparso in traduzione inglese adattata (a cura di Mary e Keith Algozin) in The Review of Politics, anno XXXVI, n. 4, Cambridge University Press, Cambridge (Regno Unito) ottobre 1974, pp. 504-520 (consultabile alla pagina: http://www.jstor.org/stable/1406338, accesso del 15-4-2016). Figura altresì in The Collected Works of Eric Voegelin, University of Missouri Press, Columbia (Missouri) 2000, vol. XI, Published Essays, 1953-1965, pp. 83-99
1) Cfr. Arnold J.[oseph] Toynbee, A Study of History, 12 voll. in 13 tomi, Oxford University Press, 1935-1961, vol. I, p. 1.
2) Cfr. Guido De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Laterza, Bari 1925.
3) Cfr. Franz Schnabel, Deutsche Geschichte im neunzehnten Jahrhundert, Herder, 4 voll., Friburgo in Brisgovia 1929- 1937 (rist. Deutscher Taschenbuch Verlag, Monaco di Baviera 1987).
4) Cfr. ibid., vol. II, Monarchie und Volkssouveränität [Monarchia e sovranità popolare], 1933.
5) Cfr. «[Il] tipo ideale […] è ottenuto attraverso l’accentuazione unilaterale di uno o di alcuni punti di vista, e attraverso la riunione di una quantità di fenomeni particolari diffusi e discreti, esistenti qui in maggiore e là in minore misura, e talvolta anche assenti che corrispondono a quei punti di vista unilateralmente sottolineati in un quadro concettuale in sé unitario. Considerato nella sua purezza concettuale, questo quadro non può mai essere rintracciato empiricamente nella realtà; esso è un’utopia, e il lavoro storico si presenta il compito di determinare in ogni caso particolare la maggiore o minore distanza della realtà da quel quadro ideale» (Max Weber (1864-1920), Il metodo delle scienze storico-sociali, 1922, trad. it., a cura di Pietro Rossi, n. ed., Einaudi, Torino 2003, p. 60).
6) Joseph Lecler, Histoire de la tolerance au Siècle de la Reforme, 2 voll., Aubier-Montaigne 1955; trad. it., Storia della tolleranza nel secolo della Riforma, 2 voll., Morcelliana, Brescia 2004.
7) Cfr. Friedrich Heer, Die dritte Kraft. Der europäische Humanismus zwischen den Fronten des konfessionellen Zeitalters, Fischer, Francoforte sul Meno 1960.
8) Il concetto di “optimal truth” esprime qualcosa di analogo a quello di “certezza morale”, ossia un grado di verità non perfetto ma sufficiente per agire.
9) Il sottotitolo della testata è «Le Roi, la Charte, et les Honnêtes Gens» (cfr. Jerry Z. Muller, Conservatism. An Anthology of Social and Political Thought from David Hume to the Present, Princeton University Press, Princeton (New Jersey) 1997, p. 26, cit. in Brian R. Farmer, American Conservatism. History, Theory, and Practice, Cambridge Scholars Press, Newcastle (Regno Unito) 2005, p. 7. Le Conservateur esce a Parigi dall’ottobre del 1818 al marzo del 1820, dopo la caduta del governo di Élie Decazes (1780-1860) e il ristabilimento della censura, con l’aiuto del fratello del re Luigi XVIII di Borbone (1755-1824); tra i fondatori Jules Auguste Armand Marie de Polignac (1780-1847), Mathieu Jean Félicité de Montmorency Laval (1766-1826), Joseph de Villèle (1773-1854) e Hugues Félicité Robert Lamennais (1782-1854). François-René de Chateaubriand (1768-1848) non fa parte dei fondatori, ma è la guida intellettuale della rivista; cfr. Le Conservateur, Le Normant Fils, Parigi 1818-1820: della rivista vennero pubblicati settantotto numeri; i sei volumi in cui sono stati raccolti sono visibili — e scaricabili — in forma digitalizzata alla pagina (il primo volume) http://tinyurl.com/cjqeeoq , consultata il 12- 5-2016), nonché alla pagina (il primo volume) http://tinyurl/ , consultata il 12-5-2016).
10) Karl Ludwig von Haller, Restauration der StaatsWissenschaft oder Theorie des natürlich-geselligen Zustands der Chimäre des künstlichbürgerlichen entgegengesezt, 6 voll., Winterthur (Confederazione Elvetica) 1817-1834, trad. it., La Restaurazione della scienza politica, a cura di Mario Sancipriano (1916-2004), 3 voll., UTET. Unione Tipografco Editrice Torinese, Torino 1963-1981.
11) Cfr. Le Globe. Journal Littéraire, Parigi 1824-1832; reprint Slatkine, Ginevra 1974-1978; alcune annate sono consultabili via GoogleBooks
12) Su questa forma di religiosità e di prassi dell’antichità precristiana, che risorge in diverse forme dottrinali eterodosse in epoca proto-cristiana e medievale, la bibliografa è immensa; per un primissimo accostamento cfr. la voce, con indicazioni bibliografiche, di Ermanno Pavesi, Lo gnosticismo, in IDIS. Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale, Dizionario per un pensiero forte, a cura di Giovanni Cantoni, alla pagina http://www.alleanzacattolica.org/idis_dpf/voci , consultata il 13-5-2016.
13) Cfr. Henri Gouhier, La jeunesse d’Auguste Comte et la formation du positivisme, 3 voll., Vrin, Parigi 1933-1941, vol. III, Auguste Comte et Saint-Simon.
14) Cfr. Franz Schnabel, Deutsche Geschichte im neunzehnten Jahrhundert, 4 voll., Deutscher Taschenbuch Verlag, Monaco di Baviera 1987 (trad. it. del IV vol., Die religiösen Krafte, Storia religiosa della Germania nell’Ottocento., 1929- 1937, introduzione di Mario Bendiscioli (1903-1998), Morcelliana, Brescia 1944).
15) Per “Stato di polizia” la politologia non intende lo Stato autoritario, bensì l’assolutismo illuminato e paternalistico del XVIII secolo, per esempio, della Prussia di Federico II (1712- 1786).
16) Cfr. Walter Bagehot, La costituzione inglese, 1867, trad. it., il Mulino, Bologna 1995.
17) [«Thus in the beginning all the World was America»] John Locke, Due trattati sul governo, 1689, trad. it., a cura di Brunella Casalini, PLUS. Pisana Libraria Universitatis Studiorum, Pisa 2007, II Trattato, cap. 5, Della proprietà (pp. 204-218), n. 49, p. 217.