Il Timone n.147 Novembre 2015
Un solo concetto, tante interpretazioni e applicazioni storiche. Da Locke ai giorni nostri l’aspirazione alla massimizzazione della libertà porta a rivendicazioni anche contraddittorie. Come sui cosiddetti diritti civili.
di Giacomo Samek Lodovici
Oggigiorno quasi tutti, anche quando professano concezioni molto diverse, si definiscono “liberali”, e anche per questo motivo è difficile dare una definizione del liberalismo. Persino i filosofi che si autopresentano come liberali hanno spesso delineato questa prospettiva in modo differente, perciò non pretendo affatto di risolvere le controversie sull’essenza di questa concezione.
Ad esempio, la legalizzazione del divorzio, dell’aborto, dell’eutanasia, il varo del “matrimonio” tra persone dello stesso sesso, e altri provvedimenti di questo tipo sono applicazioni politiche del liberalismo e ha dunque ragione Pannella ad autodefinirsi radicale, socialista e liberale? Se sì, come è possibile che qualcuno consideri s. Tommaso d’Aquino il primo liberale della storia? E perché alcuni di coloro che si definiscono liberali avversano la religione e altri invece la promuovono? Per rispondere a queste domande sarebbe necessario un intero libro, mentre qui proveremo a tratteggiare solo qualche aspetto della questione, in modo assolutamente divulgativo e incompleto.
Le origini
Il termine «liberali» comincia ad essere utilizzato nei primi anni del XIX secolo (o forse già nel 1799, all’epoca di Napoleone), per designare coloro che rivendicano la libertà in opposizione all’assolutismo politico. Anche oggi, di solito, si usa il termine «liberalismo» per menzionare una prospettiva filosofico-politica che valorizza particolarmente la libertà contro i soprusi dei governi e che si suole far risalire perlomeno a John Locke (1632-1704).
Ma all’assolutismo si contrapponeva già (per certi versi) la democrazia ateniese, e l’antiassolutismo ben si concilia con il concetto del diritto di resistenza allo Stato ingiusto, che si trova già in s. Tommaso (1224-1275) e in qualche modo in s. Agostino (354-430). Il fatto è che, secondo Locke, l’essere umano ha dei diritti naturali che non gli derivano dalla magnanimità dello Stato, perché l’autorità politica non li crea, bensì li deve riconoscere. Ebbene, anche questo discorso si trova già concettualmente in Tommaso in modo abbastanza analogo.
Locke menziona il diritto naturale alla vita, alla libertà, alla proprietà e il diritto di difendere questi diritti e dice che l’uomo li possiede in quanto «nessuno deve recar danno agli altri […] perché tutti gli uomini, essendo fattura [creature] di un solo creatore onnipotente […] sono proprietà di colui di cui sono fattura, creati per durare fin tanto che piaccia a lui» (Due trattati sul governo, UTET, 1948, p. 242): cioè ognuno possiede questi diritti per il rapporto che ha con Dio (Locke tuttavia teorizzò anche la giustificazione della schiavitù nelle colonie ed investì in questo traffico…, cfr. D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, 2005).
Altri autori liberali hanno però proposto un differente fondamento dei diritti. Sempre per Locke, l’uomo delega allo Stato il compito di difendere i diritti di cui sopra dalle lesioni che possono infliggergli i propri connazionali, gli stranieri, gli altri Paesi. Il liberalismo è stato spesso identificato con quella prospettiva secondo la quale lo Stato deve esercitare un ruolo minimo: deve evitare il più possibile di intervenire nella società, di interferire (con vincoli legislativi e burocratici, con regolamentazioni varie, con tasse elevate, ecc.) nelle iniziative e nella vita dei singoli, deve limitarsi a fissare delle leggi-regole per l’interazione sociale tra i singoli e deve vigilare sul rispetto, da parte di ognuno, della vita e della libertà altrui, della proprietà privata e dei contratti.
Lo scopo di questa concezione
Ma (come ha rilevato recentemente De Anna, cfr. bibliografia) questo discorso sul ruolo minimo dello Stato non vale per tutti i liberali, almeno non per i cosiddetti «liberali socialisti», come si autodefinisce Léonard T. Hobhouse (1864-1929), un autore che ha preso le mosse da una prospettiva socialista e poi è approdato ad una concezione «neo-liberale».
Per Hobhouse, il liberalismo non può essere identificato tout court con la rivendicazione della limitazione al minimo degli interventi dello Stato. Ciò valeva nell’epoca dell’assolutismo moderno, quando il liberalismo si batteva per la protezione del singolo dall’ingerenza dispotica dei governi, dato che in questo modo era possibile estendere la libertà di molti nel mondo: il vero fine del liberalismo, secondo Hobhouse, è appunto massimizzare la libertà. Così, sempre secondo questo autore, quando il potere degli Stati diminuisce e si concentra, in gran parte, nelle mani di capitalisti che opprimano una moltitudine di lavoratori, l’estensione complessiva della libertà nel mondo richiede piuttosto una tutela statale dei governi nei riguardi dei lavoratori, perché il loro potere contrattuale è esiguo e perché essi sono oppressi dalle élite finanziarie, richiede un intervento dello Stato in loro favore: perciò è giusto che lo Stato prenda delle misure legislative per promuovere la libertà delle classi subalterne, anche a costo di restringere quella delle classi egemoni.
Per De Anna (p. 106) l’esempio di questo autore mostra che ciò che unisce le diverse varianti di liberalismo «non è necessariamente una qualsiasi delle tesi che si sono chiamate “liberali”», perché il ruolo minimo dello Stato è da taluni liberali considerato contingente e non assoluto, da rigettare in certe condizioni sociopolitiche, per esempio quando è necessario che lo Stato intervenga per proteggere la libertà dei lavoratori e imponendo restrizioni persino alla proprietà privata. Il minimo comun denominatore di molte versioni (odierne ma non solo) del liberalismo è, allora, il fine di realizzare la massima estensione della libertà nel mondo, massima in termini di bilancio complessivo, se del caso restringendo quella di alcuni ed evitando, per esempio, che la libertà sfoci nell’anarchia, che comporterebbe guerre civili ecc. e dunque una diminuzione della libertà globale nel mondo.
Allora questo scopo finisce per giustificare, se fosse necessario per raggiungerlo, la negazione di quei diritti ritenuti inviolabili (tranne quando è in gioco la legittima difesa) da altri autori liberali, per esempio il già citato Locke.
Alcuni grandi meriti
Il liberalismo nella storia ha lottato – spesso molto meritoriamente – per varie tipologie di libertà: libertà personali (di iniziativa, di pensiero, di espressione, di associazione, di religione, ecc.); libertà civili (la sottomissione dell’autorità politica alla legge, l’uguaglianza di ciascuno di fronte alla legge e ai giudici, il suffragio universale e segreto, ecc.); libertà fiscali ed economiche (libertà di intrapresa e di commercio senza tassazioni elevate e senza dazi doganali); libertà “domestiche” (delle donne rispetto agli uomini, dei figli rispetto a genitori-padroni); libertà delle minoranze; libertà internazionali (contro la soggezione di alcuni Stati e popoli ad altri).
E, per proteggere-diffondere la libertà, il sistema politico che i liberali hanno correttamente promosso è quello democratico-costituzionale, coi suoi meccanismi: la sovranità popolare e le elezioni a maggioranza, la rappresentanza parlamentare, la divisione dei poteri (cfr. ancora Locke e poi Montesquieu [1689-1755]), ecc.
Rapporto col cristianesimo
Abbiamo visto sopra alcune sintonie tra la concezione cristiano-tommasiana e quella di alcuni autori liberali (ma non tutti). Il liberalismo risulta però incompatibile col cristianesimo quando afferma, come hanno fatto diversi autori liberali (ma non tutti), l’inesistenza di Dio o quando avversa la religione o comunque quando vuole relegarla nella sfera esclusivamente privata della vita delle persone. Oppure se e quando asserisce che il potere scaturisce solo e soltanto come sorgente ultima dalla volontà popolare invece che da Dio, il quale, invece, secondo s. Paolo, lo partecipa agli esseri umani («ogni potere viene da Dio», Rm 13,1).
O quando asserisce che il mero esercizio della libertà è il fine sommo delle persone, prescindendo dal fatto che la libertà scelga un bene o un male. O quando esso si è espresso come libertarismo e individualismo, per es. lottando per la libertà di aborto, di divorzio, di eutanasia, ecc. (in questa accezione, il liberalismo annovera, senza troppa imprecisione, anche i cosiddetti «liberal» americani), ritenendo che queste battaglie favorissero l’estensione della libertà mondiale. Proveremo a muovere al riguardo alcune critiche sul «Timone» del mese prossimo.
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Per saperne di più
G. De Anna Azione e rappresentanza. Un problema «metafisico» del liberalismo contemporaneo, Ed. Scientifiche Italiane, 2012
M. Rhonheimer L’immagine dell’uomo nel liberalismo e il concetto di autonomia, in I. Yarza (a cura di), Immagini dell’uomo, Armando, 1997
M. Pera Perché dobbiamo dirci cristiani, Il liberalismo, l’Europa, l’etica, con una lettera di Benedetto XVI, Mondadori, 2008
A. Caturelli Esame critico del liberalismo come concezione del mondo, tr. it. D’Etto 2015 Mondadori, 2008
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Il Timone n. 148 dicembre 2015
Una critica del Libertarismo
Esaminiamo alcuni punti deboli di una prospettiva che sgancia la scelta umana dal bene e promuove aborto, divorzio, eutanasia e matrimonio tra persone dello stesso sesso
di Giacomo Samek Lodovici
Su «il Timone» del mese scorso abbiamo visto alcune delle principali tesi del liberalismo, ne abbiamo rilevato alcuni pregi ed abbiamo cominciato ad accennarne certi problemi. Questo mese ci concentriamo proprio su alcuni punti critici di questa prospettiva, dovendoci limitare a pochi cenni. Un mese fa abbiamo notato che il liberalismo – di cui ci sono numerosissime varianti, talvolta in contrasto tra loro – ha preso una piega libertaria, assegnando allo Stato il compito di favorire la massima espansione della libertà, massima in termini di bilancio globale nel mondo. Diversi suoi esponenti hanno ritenuto di promuovere la libertà di aborto, di divorzio, di eutanasia, valutando che queste battaglie favorissero appunto l’estensione della libertà. Vediamo dunque qui di seguito 5 punti deboli.
Si apre la strada alla giustificazione delle atrocità
Teorizzare che è possibile sganciare la libertà dal bene, promuovendo la massimizzazione della libertà senza riguardo all’identità buona/malvagia delle azioni scelte, significa avallare qualsiasi atrocità e qualsiasi malvagità (per esempio torturare dei neonati), purché sia frutto di autodeterminazione e purché accresca la libertà globale nel mondo
L’identificazione tra il bene della libertà e l’esercizio della scelta porta alla giustificazione appunto di qualunque scelta per il solo fatto di essere libera e produce una sorta di bulimia, in cui la libertà ambisce a consumare la maggior quantità possibile di esperienze e di cose; come auspica del resto l’attuale economia di mercato, che è appunto consumistica ed alimenta a suo vantaggio la concezione libertaria, appoggiandola continuamente coi mass media, spesso di proprietà di grandi gruppi economici. Si innesca così «una spirale tautologica» (come dice F. Botturi, cfr. bibliografia), la cui logica è: «scelgo perché scelgo e ciò che è scelto vale perché è scelto».
Per contro, «il criterio morale delle scelte non può essere lo scegliere stesso» (ibid.), che va invece com-misurato al bene integrale di ciascuna persona, alla quale appartiene appunto la libertà.
2. Se, invece, la libertà non viene intesa solo come libertà di scelta di qualsiasi cosa, ma anche come libertà per il bene, allora il problema, per continuare con gli esempi che stiamo facendo, è che le scelte di abortire e di compiere omicidi con l’eutanasia sono scelte contro il bene, sono scelte malvagie (anche quando maturano in circostanze drammatiche, che pur comportano delle attenuanti), e lo sono per motivi laici, che non è qui possibile argomentare (perciò rinvio, sul piano divulgativo, a G. Samek Lodovici, Aborto. Una valutazione filosofica, «il Timone», 72 [aprile 2008], pp. 30-31, e Id., Eutanasia e suicidio: che giudizio dare?, «il Timone», 80 [2009], pp. 36-38, entrambi reperibili su www. iltimone.org). Di più, non soltanto sono scelte malvagie, ma che ledono in modo molto grave gli altri esseri umani: dunque, legalizzare l’aborto o l’omicidio eutanasico è malvagio.
Le contraddizioni del liberalismo
3. La libertà include anzitutto l’autopossesso, la capacità di governare se stessi rispetto al piacere, alle pulsioni, ai desideri, ecc. Ora, il libertarismo radicale promuove il soddisfacimento di quasi tutti i desideri, impulsi, ecc. e l’uomo che li asseconda continuamente ne diventa succube e quasi schiavo, come già notavano Socrate, Platone e Aristotele. Diventa sempre meno libero: perciò il liberalismo libertario finisce per contraddire il suo fine di accrescere la libertà.
4. Spesso il liberalismo libertario porta ad una rivendicazioneipertrofica dei diritti, che conduce al rovesciamento del liberalismo nello statalismo. Infatti, come ha scritto J. Ellul (in Metamorfosi del borghese, Giuffrè, 1972, pp. 62-63), inizialmente, «quando nella società liberale si accordava ad un uomo una libertà, essa era concepita come un diritto all’azione: l’individuo era chiamato ad agire […]. La società gliene accordava la possibilità. Il compito della società era di non impedirlo e di non ostacolarlo».
Poi, però, l’idea di libertà si è trasformata in un diritto a ricevere delle prestazioni e «l’individuo», da allora, «è concepito come passivo, non deve attuare da sé il suo diritto, ma aspetta che lo si realizzi per lui», aspetta che la società, in ultima analisi lo Stato, gli dia ciò che egli ritiene di poter pretendere a buon diritto. In tal modo, per esempio, il diritto al lavoro, che in origine era solo il diritto di scegliersi il proprio lavoro, di esercitarlo senza ostacoli (purché non ledesse qualche altro diritto: nel qual caso si doveva valutare la situazione caso per caso) è diventato il diritto a ricevere un posto di lavoro dalla società. Così, «l’individuo da attivo che era diventa passivo», quindi esercita di meno la sua libertà, e «inversamente l’azione è delegata alla società», allo Stato.
Perciò lo Stato, dal canto suo, ha dovuto moltiplicare capillarmente i suoi apparati, le sue strutture burocratiche ed i suoi interventi nella società, invadendo sempre più spazi ed aumentando continuamente le tasse, per finanziare tutti gli innumerevoli servizi reclamati dai cittadini del Welfare State. Tutto ciò diminuisce nuovamente la libertà delle persone e contraddice di nuovo lo scopo del liberalismo.
I cosiddetti diritti civili riducono la libertà
5.1 Liberalizzare l’aborto significa azzerare gli innumerevoli atti di libertà che il bambino che sarebbe nato avrebbe compiuto nella sua vita. Si può ribattere, come fanno i fautori del controllo delle nascite, che se la popolazione cresce siamo meno liberi e più poveri. Ma non è così: l’esistenza di molti esseri umani non toglie libertà e sviluppo, anzi è una risorsa per aumentarli, perché la vera risorsa è l’uomo, che continuamente scopre nuovi giacimenti di materie prime, che inventa nuovi modi di utilizzare la materia (per es., fino a non molto tempo fa chi avrebbe mai pensato di utilizzare il silicio per fare i computer?), nuovi modi di sfruttare e coltivare gli spazi (paradigmatico come Israele ha trasformato il deserto in vaste coltivazioni) e così via (manca lo spazio per argomentare sul nesso tra incremento demografico, sviluppo e risorse, perciò cfr., per es., il testo di R. Cascioli e A. Gaspari citato in bibliografia).
5.2 Liberalizzare l’uccisione eutanasica vuol dire annullare i numerosi atti di libertà che sarebbero stati compiuti dal soggetto eutanasizzato, se cosciente; significa annullare atti di libertà che sarebbero stati anzi numerosissimi se – come avviene per esempio in Belgio – l’uccisione eutanasica riguarda persino i giovanissimi, i bambini.
5.3 Ancora, legalizzare il divorzio, equivale a moltiplicare le sofferenze, le spese sociali, le dipendenze (che sono una diminuzione di libertà) dalla droga e dalle malattie psichiche (per esempio la depressione), comporta una grande crescita dei suicidi, e quindi la fine degli atti liberi di tutti coloro che si uccidono. A molti queste affermazioni sembreranno assurde, ma ci sono moltissimi dati sul nesso tra separazioni/ divorzi e povertà e/o depressione e/o dipendenza dalla droga e/o suicidi (cfr. per es., Samek Lodovici, Genitori separati. I figli soffrono, «il Timone», 63 [maggio 2007], pp. 14-15 reperibile su www.iltimone.org).
5.4 Similmente, promuovere il matrimonio tra persone dello stesso sesso significa rinforzare una certa concezione del matrimonio che danneggia i matrimoni tra uomo e donna (lo spiega molto bene il testo di R. George e altri citato in bibliografia). Infatti, vuol dire concepirlo non già come un’unione totalizzante tra l’uomo e la donna che è inerentemente e simultaneamente ordinata sia alla totale condivisione della vita sia alla generazione, e che è costituita da un impegno permanente ed esclusivo che (se validamente assunto) non è più nella disponibilità delle preferenze dei coniugi, bensì intenderlo solo come luogo degli affetti e dell’attrazione, che sono cangianti e molto mutevoli. Ora, questo cambiamento della nozione di matrimonio indebolisce i matrimoni esistenti e quelli futuri: infatti, alla luce di questa nozione di matrimonio, i coniugi restano insieme se e finché c’è affetto e/o attrazione e si separano e divorziano molto più facilmente di prima. Il che, come abbiamo argomentato poc’anzi (al 5.3.), porta a sofferenze, povertà e dipendenze che diminuiscono la libertà. Insomma, il liberalismo libertario cade in contraddizione, pragmáticamente mancando il fine che esso stesso si pone.
IL RISCHIO DELLA DITTATURA
Il libertarismo può provocare la diminuzione della libertà anche a livello politico. Come ha scritto Platone nella Repubblica (562 A e ss.), «quando uno Stato democratico, nella sua sete di libertà, si trova in balia di cattivi coppieri, bevendo di questa libertà allo stato puro e più del lecito se ne ubriaca, e, allora, quei governanti che […] non concedano ampia licenza» (per es. quelli – chiosiamo noi – che non acconsentono alla traduzione dei desideri in diritti), «vengono accusati di autoritarismo» (o di essere retrogradi, o di crudeltà, ecc.).
A quel punto può spiccare un demagogo carismatico che si mette a vellicare ed alimentare questo ribollire pulsionale e che viene perciò ripagato da un sempre più crescente consenso, fino a quando egli prende il potere e instaura la tirannide. Dunque, per Platone «l’eccessiva libertà» finisce per trasformarsi «in eccessiva schiavitù»: quando i desideri spadroneggiano e rivendicano libertariamente di essere tutti assecondati dal diritto, i cittadini sono spadroneggiati dalla tirannide delle pulsioni, prima ancora che dal tiranno, ed è per questo che essi possono poi cadere nella trappola delle sue lusinghe, predisponendo il quasi azzeramento della propria libertà, che avviene se qualcuno riesce a instaurare una dittatura. (G.S.L)
Per saperne di più
Botturi La generazione del bene. Gratuità ed esperienza morale, Vita e Pensiero, 2009, cap. V, specialmente pp. 148-161
Girgis — R. Anderson — R. George Che cos’è il matrimonio. Vita e Pensiero, 2015
Cascioli – A. Gaspari I padroni del pianeta. Le bugie degli ambientalisti su incremento demografico, sviluppo globale e risorse disponibili, Piemme 2009