di Riccardo Gotti Tedeschi (1),
Andrea Giuricin (2)
Il decreto legge n. 1/2012 del 24 gennaio scorso (o “decreto liberalizzazioni”) è stato fortemente modificato in sede di conversione, ed esce dal Senato con molte novità che spaziano da nuove norme sulle banche a quelle su assicurazioni, passando per la separazione proprietaria di Snam da Eni, le farmacie, i taxi e le libere professioni. Il provvedimento passa ora all’esame della Camera e deve essere convertito in legge entro il 24 marzo prossimo.
Un commento di massima del pacchetto di riforme contenute nel decreto impone anzitutto un approccio critico e costruttivo avente una prospettiva ben precisa, ovvero che esistono le condizioni per realizzare un circolo virtuoso teso a superare gli egoismi di parte, le resistenze delle corporazioni, gli interessi partigiani che le politiche di liberalizzazione devono inevitabilmente erodere.
Il fine deve sì essere la garanzia di maggiore libertà per ciascuna categoria e per i consumatori, ma con mezzi efficaci e prodromici – o almeno coniugabili – alla tanto urgente crescita del Paese: è di qualche giorno fa il dato Istat che il PIL nel 2011 è calato allo 0,4% rispetto all’1,8% del 2010.
Va aggiunto però che è noto che le liberalizzazioni producano i loro effetti tipici quando l’economia va bene, e non in fasi di crisi: la ragione di ciò sta nel fatto che le liberalizzazioni creano distorsioni nel breve termine, con i connessi rischi di disoccupazione che in situazioni appunto di crisi è invece opportuno evitare.
Va da sé che questo decreto voglia rappresentare per il governo un mezzo per raggiungere un fine che è genuinamente rappresentato nella maggiore libertà degli operatori in determinati settori, e infine garantire un ampliamento alle possibilità di scelta dei consumatori a prezzi o tariffe più basse.
Tuttavia le liberalizzazioni, ferma restando la fase di difficile efficacia in una situazione di crisi come quella attuale, non potranno prescindere da misure per la crescita e per lo sviluppo di cui questo paese tanto ha bisogno.
Ma non si può analizzare una misura così importante senza un cenno al background storico-economico di questo Paese nel contesto internazionale. Concentrarsi sul solo debito pubblico di un paese è considerato dagli economisti più accorti come un errore di metodo che crea panico e che nella sostanza non risolve i problemi.
In primo luogo va ricordato che il debito complessivo di un sistema è infatti il risultato dalla somma debito pubblico + debito privato + debito delle banche + debito delle imprese. Basandoci su questa considerazione, scopriamo che l’Italia è ai primi posti in Europa e non agli ultimi come risulta analizzando il “solo” debito pubblico.
Secondo. Viene sottolineato come l’Italia sia il paese che più di tutti ha ridotto il debito pubblico negli ultimi dieci anni, facendo addirittura meglio della Germania.Terzo. In Italia il rapporto debito pubblico/PIL è salito non tanto perché è aumentato il debito (che infatti è calato), bensì perché è calato il PIL.
Quarto. In considerazione di quanto sopra, il problema che ha l’Italia non sarebbe principalmente il debito in quanto tale, come sostengono quei catastrofisti che ci ricordano il Club di Roma degli anni 70’… ma la crescita. Crescita reale, tangibile, non fittizia.
Quinto. I punti di forza di questo Paese sono il risparmio privato e le piccole e medie imprese che reggono l’economia e creano posti di lavoro. Il risparmio va tutelato e valorizzato, non depresso o ancor peggio depredato. Proposte rilevanti sono giunte circa un possibile convoglio del risparmio sulle imprese, in modo che queste possano creare ricchezza tassabile e occupazione. Le imprese in Italia andrebbero sostenute prima di prendere ogni altra misura.
Come dimostra anche il rapporto annuale della Banca Mondiale, “Paying Taxes”, la tassazione delle imprese è arrivata ad un livello insostenibile, mentre l’eccessiva burocratizzazione abbatte ulteriormente la possibilità di crescita economica.
Fatte le dovute premesse, va ravvisato che il decreto nel suo complesso mira ad accelerare le liberalizzazioni in diversi settori dell’economia, per troppi anni protetti da legislazioni che mettevano i produttori dei servizi al riparo dai rischi della pressione concorrenziale. Queste protezioni, privilegiando gli interessi di chi eroga i servizi rispetto a coloro che li utilizzano, hanno costituito un freno alla modernizzazione del Paese, accentuando un processo di incrostamento particolarmente evidente nel contesto internazionale.
E’ il caso degli operatori dei taxi che, organizzati in una corporazione molto capace a sfruttare il proprio potere elettorale, sono riusciti a mantenere una legislazione di riferimento basata sul principio, peraltro in palese conflitto con le norme del Trattato Europeo, della licenza ad operare attribuibile esclusivamente a persone fisiche.
Del resto se ne comprende la ragione: la licenza, che fino ad oggi ha sempre mantenuto il proprio valore nel tempo (ma che la crisi oggi sta erodendo…) rappresenta di fatto la pensione dei tassisti, una sorta di rendita in mancanza di ogni altra garanzia previdenziale. E’ pertanto umanamente comprensibile la loro forte opposizione a qualsiasi forma di liberalizzazione del servizio pubblico, che tuttavia – va detto – si sta avvitando su se stesso soprattutto a causa di prezzi, definiti per via amministrativa, sempre più elevati.
L’art. 36 istituisce l’Autorità di regolazione dei trasporti, e prevede, nella sostanza, che questa monitori e verifichi la corrispondenza dei livelli di offerta del servizio taxi, delle tariffe e della qualità delle prestazioni, alle esigenze dei diversi contesti urbani, secondo i criteri di “ragionevolezza e proporzionalità, allo scopo di garantire il diritto di mobilità degli utenti”.
Sarà poi compito di comuni e regioni provvedere ad adeguare il servizio dei taxi, incrementando il numero delle licenze ove necessario ed a seguito di istruttoria, sempre al fine di assicurare un livello di offerta adeguato. Comuni e regioni potranno altresì rilasciare – a titolo gratuito o a titolo oneroso – nuove licenze da assegnare ai soggetti qualificati (v. art. 6 della legge 15 gennaio 1992, n.21) fissando discrezionalmente il relativo importo della licenza ed utilizzando i proventi a fini compensativi verso i titolari di licenza.
In aggiunta, la “nascitura” autorità conferisce alcuni poteri discrezionali ai titolari di licenza affinché possano – d’intesa con i Comuni – meglio organizzare il servizio a fronte di surplus di domanda (ad esempio con il servizio di taxi “collettivo”). L’autorità concede infine una maggiore libertà nella fissazione delle tariffe, pur accompagnata da una corretta e trasparente pubblicizzazione a tutela dei consumatori, e prevedendo la possibilità per gli utenti di avvalersi di tariffe predeterminate dal Comune per percorsi prestabiliti.
La misura è attenuata rispetto alle drastiche premesse in fase di stesura e discussione. I tassisti hanno sempre operato secondo i più classici criteri delle corporazioni e con fortissimo senso di appartenenza: l’evidente calo di domanda dovuto alla crisi è stato compensato negli ultimi anni con un minor numero di corse ad un prezzo maggiore, così perdendo di vista l’interesse generale (e non particolare!) del settore e creando – ahinoi – effetti controproducenti su settori interessati (turistico in primis).
La proposta contenuta nel decreto liberalizzazioni, pur molto moderata, rischia dunque di non risolvere il problema: in molte città ad esempio il numero di licenze sarebbe sufficiente a servire la domanda locale, qualora ad esempio operassero imprese organizzate che intendano ottimizzare le licenze, le auto (più nuove, più sicure), i turni, i singoli tassisti, la tecnologia, così da garantire un’offerta efficiente, qualitativa, nonché meglio retribuita.
Se da un lato va ridimensionata l’importanza delle misure di apertura sul settore rispetto ad altri ambiti, va anche sottolineato che una più netta liberalizzazione avvantaggerebbe la categoria stessa: se paragoniamo il mercato a quello spagnolo ravvisiamo che a Madrid (dove il mercato è liberalizzato) operano 4 volte il numero di taxi di Milano, le tariffe sono più basse della metà ed i taxisti madrileni guadagnano di più. Il motivo è di agevole comprensione: a tariffe basse e ad altissima disponibilità di vetture taxi, il ricorso al taxi da parte dei consumatori è molto più frequente (si stima 5-7 volte di più a Madrid rispetto a Milano).
Passando alla liberalizzazione dei trasporti, questa ha certamente un impatto ben diverso rispetto a quella delle farmacie. Soffermandoci sull’issue-farmacie, il limite della riforma è quello di tenere come esclusiva delle farmacie l’attuale classificazione dei farmaci loro riservati, per primi quelli di fascia C. Al contrario, i farmacisti sono tenuti ben al riparo delle loro privative, esattamente come in precedenza, e ne viene soltanto aumentato il loro numero. Sorge spontanea un’osservazione tanto banale quanto necessaria: aumentare l’offerta di monopolisti pianificata a livello centrale dal governo rappresenta una liberalizzazione? No, semplicemente aumenta il numero di privilegiati.
Tornando ai trasporti, questi sono un tema di straordinario impatto, maggiore rispetto a taxi e farmacie: sarebbe opportuno focalizzare sulla liberalizzazione del trasporto ferroviario e delle Poste, esattamente come si è fatto per ReteGas ed evitare iniziative di liberalizzazione che creano nuovi e più complessi obblighi di legge.
Nel settore postale, come segnalato più volte dall’Autorità Garante delle Concorrenza e del Mercato, vi è la necessità di andare verso una maggiore liberalizzazione. La Commissione Europea ha imposto una piena liberalizzazione a partire dallo scorso anno, ma la situazione concorrenziale italiana rimane fortemente compromessa. Poste Italiane è un incumbent con un settore recapito in forte contrazione, mentre il punto di forza è il settore “bancario”.
La mancata separazione reale tra BancoPosta e il settore recapito provocherebbe delle problematiche e dei rischi, quali ad esempio quello relativo ai sussidi incrociati. Vi è inoltre da segnalare che l’assegnazione del servizio universale non è stato fatto tramite una gara, ma attraverso un contratto quindicennale tra Poste Italiane e lo Stato. La mancanza di un processo competitivo è fonte di preoccupazione e permette di sollevare dei dubbi sull’effettiva concorrenzialità nel settore.
Il settore ferroviario ha un livello di apertura ancora meno elevato. Attualmente l’incumbent, Trenitalia, non vede una vera e propria competizione. A partire dal prossimo mese di aprile, NTV entrerà sul mercato e di fatto aprirà alla concorrenza il segmento dell’alta velocità. Nel mercato del trasporto passeggeri regionale le problematiche sono molto maggiori.
Nel 2009, una legge permise di stipulare contratti tra Trenitalia e le Regioni di sei anni più sei anni, con dei finanziamenti pubblici esplicitamente verso solo Trenitalia (480 milioni di euro l’anno). Una legge considerata anti-concorrenziale, che il decreto ha in parte corretto: infatti il rinnovo dei sei anni ulteriori è stato abrogato e tramite l’autorità dei trasporti si dovrebbe procedere tramite gare per l’assegnazione del servizio quando i contratti tra Regioni e Trenitalia arriveranno a termine.
Rimane tuttavia nel settore una grande debolezza. La mancata separazione reale tra RFI e Trenitalia, che fanno entrambe parte della holding FSI, innalza importanti barriere all’entrata. Nell’ultima ricapitalizzazione si è rivalutato il patrimonio interno di FSI per acquistare dei treni pendolari di Trenitalia. I rischi di sussidi incrociati sono dunque evidenti.
Sulle banche. Per gli istituti di credito viene introdotto il conto senza spese di apertura e gestione a favore dei pensionati sotto i 1500 Euro, spariscono le commissioni per il pagamento del carburante tramite carta fino a 100 Euro, e viene introdotta la facoltà per chi stipula un mutuo di scegliere l’eventuale polizza connessa e la portabilità del mutuo stesso. Questa misura, come noto, ha provocato una vera e propria rivolta delle banche nonché le dimissioni dell’intero comitato di presidenza dell’Abi.
Viene ora prospettata una soluzione-ponte, ovvero un mini-decreto che il governo potrebbe emanare il giorno stesso del varo definitivo del decreto Liberalizzazioni, al fine di far rientrare uno scontro evitando che il provvedimento colpisca l’intero sistema bancario, con un danno calcolato in una decina di miliardi l’anno. E la soluzione – segnala Milano Finanza – sarebbe sempre quella di limitare il taglio delle commissioni bancarie ai soli istituti che non rispettano le condizioni di trasparenza su commissioni e tassi, ovvero quelle che non aderiscono alle norme del CICR, il Comitato per il Credito e il Risparmio.
A commento di quanto sopra, è importante sottolineare che il mercato bancario in Italia non è paragonabile a quello di altri paesi. L’Italia è sostanzialmente banco-centrica, ed è superfluo ricordare il ruolo svolto dalle banche nell’accompagnare l’industrializzazione del paese: l’economia italiana è fatta da piccole medie imprese a proprietà e gestione familiari, che non accedono alla Borsa, non si finanziano con bonds, bensì si rivolgono al sistema bancario per il sostegno finanziario.
In tale contesto, la necessità di assicurare un sostegno finanziario a piccole e medie imprese costituisce in Italia una questione importante e delicata, data la rilevanza della rete di PMI nell’economia nazionale. Le PMI rappresentano infatti il 99,9% del totale delle imprese italiane (Ufficio Studi Confcommercio su dati Istat, 2006), una percentuale analoga alla media della Ue, ma il nostro paese si caratterizza per una maggiore incidenza delle imprese cd. micro: il 94,9% contro l’89,1% della UE.
Tornando alla portata generale del decreto, critiche marcate non sono mancate: in parlamento le forze politiche che sostengono il governo avrebbero fatto retromarcia rispetto a delle norme che già di fatto erano assai più modeste di quelle attese. Sarebbero così state accolte il più delle richieste avanzate dagli ordini lasciando tutte le buone intenzioni come lettera morta.
Resta d’altra parte evidente la riuscita operazione mediatica, sulla scena italiana e su quella europea e mondiale, che comunque all’immagine del nostro Paese male non fa. Ma in questo momento la fictio non ci serve. Bisogna guardare alle stime di crescita di PIL reali, e va detto che sono state considerate “lunari” quelle di un punto di Pil, ogni anno per dieci anni, che campeggiavano nella prima pagina della relazione di accompagnamento del decreto.
Proviamo ad essere più “liberalmente” indulgenti verso il metodo che sembrerebbe il Governo stia seguendo: può sostenersi che le azioni non siano state troppo incisive per un Paese che da decenni non conosce più azioni di governo.
E’ calzante l’immagine dell’assetato: quando si soccorre qualcuno che rischia di morire di sete, non si interviene dandogli porzioni esagerate d’acqua, potrebbe non tollerarle. Crediamo che per analogia si potrebbe dire lo stesso dell’azione di governo. Per quanto leggero, l’effetto del decreto può servire in parte ad ammortizzare l’insostenibile peso fiscale (ma senza far crescere) e in parte a rimettere in moto la macchina del governo.
Che ruolo dovrebbe anzitutto avere lo stato in questo contesto? L’intervento dello stato nei processi di mercato è assolutamente doveroso, vitale: una vera politica industriale per lo sviluppo è quanto di più urgente in questa fase. Non importa quanto lo stato intervenga, ma come interviene.
Un intervento difforme al mercato, anche se minimo, produrrebbe odiose distorsioni; al contrario un intervento conforme, anche se massiccio, consentirebbe ai processi di mercato di assorbire il medicinale e di riprendere il loro corso.
1) Avvocato e direttore del Dipartimento di Economia, Diritto ed Istituzioni del Centro Studi Tocqueville-Acton
2) Università degli Studi di Milano-Bicocca