Testo preparato in occasione di un incontro pubblico organizzato da Scienza&Vita
di Aldo Ciappi
(avvocato, Scienza & Vita di Pisa e Livorno)
Un popolo può definirsi tale quando resta fedele ai propri tratti originari e si stringe attorno ad eventi o personaggi della propria storia che l’hanno forgiata.
Il termine “popolo” si lega alla naturale socialità dell’uomo il quale, dopo la propria cerchia familiare, si trova inserito in un più vasto contesto sociale caratterizzato da rilevanti tratti di omogeneità.
Mentre, quella certa comunità integrava i connotati di un “popolo”, si era, al contempo, venuto compiendo quel necessario processo di selezione di regole di condotta e di usi sociali (“mores”), tramandati nel tempo, alla cui osservanza i suoi singoli componenti erano stati educati al fine di perseguire o mantenere una pacifica convivenza.
Se si vuol far parte, o continuare a far parte, di una certa società civile e godere dei benefici che essa offre ai suoi appartenenti se ne devono rispettare le regole.
Queste regole, perché siano sentite come “vincolanti” dalla generalità dei componenti, devono ispirarsi al comune senso di equità e di giustizia; non devono, cioè, costituire espressione di una volontà di sopraffazione dei più forti tra essi a danno degli altri, perché in questo caso viene a cessare il necessario equilibrio tra il dare (rispetto delle regole), da un lato, ed il ricevere (protezione personale e reale), dall’altro, che tiene insieme le comunità umane al proprio interno e si apre il conflitto sociale.
Perché una società ordinata al bene comune possa perpetuarsi nel tempo è, dunque, necessario che i principi fondamentali che la reggono siano ben custoditi e preservati. Infatti, le società che abbandonarono questi principi furono presto inghiottite dalla storia.
Roma cominciò a declinare quando l’educazione alle virtù civiche e al rigore morale dei suoi cittadini lasciarono il campo ai ludi circensi e agli ozi termali.
Le società precolombiane, dominate da caste sacerdotali che esigevano ininterrottamente dal popolo sacrifici di giovani il cui cuore, ancora vivo, veniva offerto alle divinità per ingraziarsele, si disfecero dinanzi a poche centinaia di soldati spagnoli.
Come è noto, la nostra civiltà, che definiamo “occidentale”, affonda le proprie radici, oltre che nell’eredità culturale del mondo classico greco-romano (il pensiero filosofico del primo, e le istituzioni giuridiche del secondo), nel cristianesimo che ha il suo centro nella figura di Gesù Cristo, l’Uomo-Dio, e che ha innalzato l’essere umano, già secondo la tradizione giudaica creato “ad immagine e somiglianza” divina, attribuendogli una intrinseca dignità di “persona”, al di là delle distinzioni di sesso, razza o condizione sociale.
Questa civiltà emerse lentamente dalle macerie della Roma imperiale, travolta dalle invasioni di popoli “barbari”, che, tuttavia, col tempo si “ingentilirono” convertendosi al cristianesimo per opera dei monaci i quali, mentre all’interno dei loro chiostri recuperavano pazientemente gran parte del patrimonio e del sapere classico ormai dispersi, irradiavano all’esterno quelle virtù cristiane che permearono le rinascenti comunità.
Questo incontro fecondo cementò l’unione o la vicinanza di popoli tra loro molto diversi che, pur con le inevitabili contrapposizioni, si riconoscevano nel comune sentimento religioso, nelle liturgie e nelle solennità celebrate nella lingua universale della Chiesa, ma anche in alcuni universali principi giuridici: lo ius commune; insomma lì si gettarono le basi di una comunità di popoli che oggi rappresentano ciò che si definisce “Europa”.
Gli ordinamenti statuali, sebbene, col tempo, i legami religiosi si fossero assai affievoliti – scalzati da un lento ma progressivo processo di secolarizzazione, ossia di distacco della vita civile e politica dalla dimensione etica e religiosa, evidenziatosi soprattutto con la pseudo-riforma protestante e con i nascenti nazionalismi – restavano comunque più o meno saldamente ancorati alla concezione tradizionale per cui i diritti e la dignità di ogni essere umano non potevano essere lasciati alla mercè del potere politico che trovava il proprio limite invalicabile nel perenne diritto naturale ad esso sovraordinato.
Una parte, per quanto esigua, di questa eredità culturale e giuridica, pur in mezzo a tante avverse condizioni, è riuscita a sopravvivere fino ai nostri giorni resistendo persino allo tsunami delle ideologie totalitarie dello scorso secolo che avevano inaugurato spietati regimi idolatrici ed antireligiosi (incentrati sull’esaltazione dei concetti di nazione, di razza, di progresso indefinito, di socializzazione della produzione, ecc), spargendo fiumi di sangue e tanta corruzione di cui i popoli che le hanno patite recano ancora segni visibili.
Ebbene, l’obiettivo che neppure tali ideologie, rivelatesi così radicalmente antiumane, erano riuscite a centrare, sta per essere raggiunto, in maniera ai più quasi impercettibile, grazie alla forza disgregatrice del relativismo etico, ovvero di quella corrente di pensiero ormai prevalente secondo cui non può esistere, in tesi, alcuna nozione di verità o di bene comune, alcuna istituzione o valore oggettivi e perenni a cui un ordinamento giuridico possa e debba restare ancorato.
Secondo questo modo di pensare, assai diffuso anche tra i cattolici, ad esempio, non esisterebbe, di fatto (e, dunque, di diritto) un unico modello di famiglia (quello fondato sul matrimonio tra un uomo e una donna), nè avrebbe senso parlare, oggi, di intangibilità della vita umana la quale, in presenza di certe condizioni (scarsa vitalità, aspettative limitate, salute irrimediabilmente compromessa…) potrebbe essere da alcuni ritenuta non più degna di essere vissuta: sia la vita propria (nel caso della richiesta di suicidio assistito), come l’altrui (nel caso dell’ aborto o dell’ eutanasia).
In nome di una distorta accezione di “pluralismo” (secondo cui ciascuno avrebbe diritto di fare ciò che ritiene per sé giusto o utile senza, purchè non lo imponga agli altri) si finisce inevitabilmente col relativizzare tutto, e quindi si relativizza anche un bene fondamentale dell’uomo (la vita) sulla cui incondizionata tutela trova fondamento ogni sano ordinamento sociale, ogni civile convivenza.
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Questa premessa appare necessaria per meglio illustrare la centralità del tema oggetto del manifesto “Liberi per vivere” diffuso dall’associazione “Scienza e Vita” in risposta alla sfida che viene dal fronte laicista militante.
Infatti, è muovendosi in perfetta sintonia con la suddetta premessa che la mentalità corrente è arrivata ad accettare, senza particolari azioni di contrasto, fatti in sé gravissimi come la selezione eugenetica degli embrioni che avviene impiantando nell’utero i più sani e scartando gli altri (cosa che la recente sentenza della Corte Costituzionale sulla legge 40/04 pare implicitamente aver giustificato in nome delle “esigenze procreative” della coppia); oppure l’ eliminazione, a milioni, di bambini “malformati”, o più semplicemente non “programmati”, con l’aborto (che viene dalla legge “giustificato” con l’eventualità di un pericolo della prosecuzione della gravidanza per la salute psichica della madre); oppure, ancora, l’abbandono a se stessi delle persone irreversibilmente malate (in nome di una pretesa “indegnità” della qualità della vita vissuta in quelle condizioni) dalle quali i sostenitori della “dolce morte” (“eutanasia”) cercano subdolamente di ottenere, con la loro cinica propaganda, “collaborazione” allo scopo, presentato come “socialmente utile”, di rendere la morte un evento programmato, silenzioso ed igienico.
E’ sul presupposto di tali premesse che si è potuti pervenire al triste epilogo della vicenda di Eluana, uccisa “legalmente” sulla base di una presunta volontà ricostruita da alcuni giudici ideologizzati (o quantomeno gravemente negligenti nel non aver tenuto conto dell’art. 579 c.p. che punisce il reato di “omicidio del consenziente”) in base ad una sua estemporanea affermazione resa quando si trovava nel pieno delle propria vitalità. Si è trattato della prima sentenza di condanna a morte di una persona sicuramente innocente eseguita nell’età repubblicana.
E per quella via, infine, si è coerentemente giunti all’odierno scontro istituzionale per l’ introduzione di una legge che consenta dichiarazioni anticipate di trattamento vincolanti per i terzi, che accolga i “desiderata” dei sostenitori della piena autonomia di disporre della propria vita.
Ciò che si nasconde sullo sfondo di tale questione, infatti, non è affatto la lotta all’accanimento terapeutico (di cui, peraltro, non vi è alcuna traccia nella prassi se si escludono quei casi, tutt’altro che frequenti, in cui il medico, per non disattendere tout court le richieste del malato o dei suoi familiari, fa un ulteriore disperato tentativo di salvargli la vita pur sapendo di non avere alcuna chance).
Tutti sono contrari all’accanimento, anche se (si deve con onestà ammettere) i progressi della medicina sono stati spesso ottenuti grazie alla “cocciutaggine” di quei medici che non si sono arresi a fronte di situazioni apparentemente disperate.
Dietro questa accesa discussione, in realtà, vi è, da parte del movimento radical-progressista sostenuto nell’azione da potenti strumenti di propaganda, la precisa volontà di far affermare per legge un principio diametralmente contrario all’assetto normativo vigente; quello della rivendicazione di un “diritto incondizionato a disporre della propria vita”, fino anche alla sua soppressione. Una concezione puramente “utilitaristica” (“usa e getta”) della vita che pretende il pieno, formale riconoscimento.
Un vero e proprio “diritto al suicidio” che tutta la nostra tradizione giuridica (cristiana come greco-romana) ha sempre negato perché contrario al senso civico che richiede da tutti noi, in primo luogo, l’ assunzione di responsabilità civiche e di doveri di solidarietà verso gli altri (e degli altri verso di noi). Si noti, al riguardo, che se, da un lato, il tentativo di suicidio, oggi, non è di per sé sanzionabile, dall’altro, il vigente art. 580 c.p. punisce con anni di reclusione colui che istiga taluno al suicidio.
Vivere – diceva S. Teresa di Calcutta – è un dovere verso se stessi e verso il prossimo.
Sulla base di un articolo (art. 32) della Costituzione (che si limita ad affermare il principio secondo cui “la salute è un fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, con l’avvertenza che “nessuno può essere sottoposto ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge”), da alcuni viene impropriamente desunta l’esistenza di “diritto di darsi la morte” e, dunque, per le cosiddette “Dichiarazioni Anticipate di Trattamento” (D.A.T.)(o “Testamento Biologico”), si pretende che lo Stato ne garantisca la concreta attuazione tramite un curatore che vigili sul rispetto di tale volontà.
Seguendo questa logica, per esempio, le centinaia di migliaia di malati di Alzehimer o le persone celebrolese; allorché avessero lasciata (in un momento necessariamente anteriore al verificarsi dell’incapacità in intendere e volere) una dichiarazione scritta in tal senso, potrebbero venire “legalmente” soppressi: per adesso attraverso la sospensione delle cure vitali (alimentazione, ventilazione artificiale) – condotta “omissiva” – in un prossimo futuro, più esplicitamente e senza salti di qualità, con la somministrazione di una fiala letale – “condotta “commissiva”.
Al riguardo, si deve osservare che, per quanto esplicita possa apparire una manifestazione di volontà espressa nelle D.A.T., essa (in quanto resa dal dichiarante in forma del tutto ipotetica, ossia quando quel particolare stato patologico non era ancora in atto), potrebbe non rispecchiare affatto, al momento in cui il medesimo soggetto venisse effettivamente a trovarsi in tale teorizzata condizione, quella attuale ed effettiva che, ormai, non sarebbe più in grado di esprimere.
E’ evidente che la mera presenza di un (ineliminabile) dubbio sulla permanenza di quella volontà di annientamento dovrebbe indurre, per se soltanto, il legislatore a non ritenerla assimilabile al cosiddetto “consenso informato”, che la legge e la deontologia medica (in ossequio al secondo comma dell’art. 32 Cost. citato e ad altre norme vigenti, tra cui l’art. 5 della Convenzione di Oviedo del 1997) esigono dal paziente quando la patologia è in atto e appena prima di essere sottoposto ad un certo trattamento sanitario.
Pertanto, le dichiarazioni “a futura memoria” contenenti disposizioni “suicidare”, secondo i principi generali del nostro ordinamento (art. 1418 c.c.), debbono ritenersi nulle per mancanza di oggetto nel momento in cui esse vengono rilasciate. Il verificarsi, futuro ed eventuale, della condizione cui la disposizione di volontà attiene (stato irreversibile di incapacità di intendere e di volere) non garantisce affatto la permanenza (e quindi l’effettività) di quella stessa volontà in precedenza espressa la quale, pertanto, in presenza di un ragionevole dubbio, per il prevalente principio di conservazione, non potrebbe mai trovare attuazione.
Non certo per caso la stessa Convenzione di Oviedo, all’art. 9, prevede che il medico “tenga in considerazione” (senza cioè restarne vincolato) i “desideri precedentemente espressi” dal paziente che al momento dell’intervento “non sia in grado di esprimere la sua volontà”.
Anche il dato esperienziale conferma questa conclusione; infatti, la maggior parte delle cosiddette “living will”, nei paesi in cui sono consentite, vengono revocate o modificate a mano a mano che i relativi autori avanzano con l’età e la loro salute diventa malferma.
Quella delle “Direttive Anticipate di Trattamento” è, dunque, da un punto di vista giuridico, una pura finzione (o, come alcuni hanno detto, un “cavallo di Troia” per introdurre “alla chetichella” pratiche sostanzialmente eutanasiche e/o di suicidio assistito) che non offre alcun valido aiuto alla soluzione dei casi di persone che versano in gravi condizioni di minorazione (come i malati di Alzheimer), per le quali la risposta deve consistere nell’assicurare sempre cure ed assistenza adeguate e proporzionate ad esse, alla stessa maniera in cui la società tutta si deve far carico di qualunque altra grave disabilità, anche se irreversibile, senza farsi tentare da soluzioni ciniche e indegne di una società che voglia definirsi civile.
“La morte non può mai rappresentare la medicina”, come diceva il professor Massimo Ermini, un grande medico e un caro maestro recentemente scomparso.
Negli occhi dell’incosciente bambino appena nato, così come in quelli dell’anziano che si avvicina inesorabilmente all’esito di questa vita terrena o del grave cerebroleso come la povera Eluana, brilla la stessa umanità che li accomuna a ciascuno di noi e sono lo specchio di una condizione da cui ciascuno di noi è emerso ed in cui potrebbe un giorno ritornare.
Quando non sapremo più riconoscere in quegli sguardi la nostra stessa precaria condizione umana, quella straordinaria millenaria civiltà che “deve dirsi cristiana” e di cui siamo stati, perlomeno sotto questo aspetto, oculari testimoni avrà definitivamente intonato il proprio de profundis.