Prendiamo un uomo giovane, intelligente, colto e attratto dalle grandi utopie. Facciamone un comunista convinto, anzi di più, un agente segreto del Komintern, un inviato speciale in tutto il mondo del potere sovietico. Diamogli un nome: Jacques Rossi, francese di nascita, poi emigrato con la madre a Varsavia e più tardi iscritto al partito polacco.
Fissiamo una data, il 1937, quella delle grandi purghe staliniane, e spediamo in quell’anno il nostro eroe, dopo un processo sommario istruito sulla base di false accuse, a fare la conoscenza dei gulag, i campi di concentramento sovietici. Lasciamolo a marcire là per vent’anni (più altri quattro di residenza coatta) in modo che sperimenti gelo e percosse, fame e minacce, torture e celle d’isolamento. E adesso consentiamogli, per un caso fortunato, di uscire vivo dall’inferno: ovvio che si presenterà a noi un personaggio del tutto diverso dall’inizio, fisicamente ridotto a una larva però mentalmente una specie di eroe.
Certo, il libro va a collocarsi idealmente all’interno di un genere ormai classico: quello della letteratura concentrazionaria di ambientazione russa o tedesca, ispirata ai campi di sterminio sovietici o nazisti. Paragoni con i capolavori assoluti, Se questo è un uomo di Primo Levi o I racconti della Kolyma di Salamov, sono ovviamente improponibili.
Tuttavia è giusto riconoscere che l’antologia di Rossi, liberandosi dalle limitazioni del genere, dimostra di possedere un timbro personale, intrinseco, in gran parte dovuto allo stile quasi aforistico: più che veri e propri racconti, ci vengono incontro squarci, bozzetti, situazioni, fulminee notazioni psicologiche che, nel lampo di poche righe, ci dicono tutto quello che c’è da sapere su quell’incubo estremo.
L’autore non ha l’ambizione di saltare a conclusioni, o di illustrarci una morale: si limita a far sfilare davanti ai nostri occhi spie e vigliacchi, idealisti e lenoni, utili idioti e corrotti, prostitute e aguzzini, funzionari di partito e poveri cristi, esseri primitivi strappati alle steppe e fini intellettuali, in cattedra fino al giorno prima della loro caduta in disgrazia. Tutti inghiottiti e centrifugati dalla macchina del potere, scagliati senza ragione né spiegazione razionale a migliaia di chilometri dal luogo dell’arresto, in campi di concentramento sparsi al di qua o al di là degli Urali, nel gelo artico della penisola di Kola o al caldo rovente delle steppe kazake.
Rossi racconta questi personaggi e annota le reazioni suscitate in lui da simili incontri: il risultato è una specie di atroce commedia buffa, però senza abbellimenti né snodi drammatici. Tutto è prevedibile e tutto si ripete sempre uguale, nell’arcipelago gulag di Rossi, benché siano infinite le variazioni sul tema. In cima alla piramide c’è il funzionario di partito, che controlla i sorveglianti, che controllano le spie, le quali a loro volta si basano sulla collaborazione dei prigionieri anziani, i kapò, e così si discende fino al controllo dei prigionieri, a loro volta divisi fra quelli che hanno il privilegio di restare al riparo di un tetto, in qualche infermeria o laboratorio delle baracche, e la gran massa degli altri, i forzati del piccone e della vanga, candidati a morire di fame e stenti, nei boschi, in miniera o nelle cave di pietra, a quaranta sotto zero per sedici ore al giorno. Con una speranza media di sopravvivenza da sei mesi a un anno, secondo la costituzione fisica e la volontà di non lasciarsi cadere.
Lo strano pianeta visitato per vent’anni da Jacques Rossi ospita essenzialmente due tipi umani: ci sono i comuni, malviventi che hanno rapinato o ucciso, protetti e anche temuti dai secondini, capaci di conquistarsi privilegi persino nei lager; e poi i «poveri fessi», gli «scoppiati», cioè i prigionieri politici come lo stesso protagonista. Questi sono per lo più militanti comunisti, resi sospetti dalla loro stessa purezza, perseguitati per quell’insidiosa mancanza di duttilità e opportunismo che dimostrano.
I «poveri fessi» sono gente che non impara mai la lezione, ripete gli stessi errori ideologici, per lo più non riesce a distaccarsi da quella «bella utopia» che, con tragico senso dello humour, dà il titolo a tutta la raccolta. Dunque «scoppiati», fisicamente ormai indifesi, rassegnati a starsene sull’ultimo gradino della scala sociale del gulag, a cedere la minestra ai più forti, a farsi rubare senza reagire la camicia e le altre povere cose trafugate miracolosamente fin là dal mondo libero o inviate per posta dalle mogli.
È la pena del contrappasso degli utopisti: proprio loro, che avevano fantasticato di un mondo migliore governato dal popolo, imparano che su questa terra vale la legge del più forte, per cui chi ha i muscoli e la fedina penale sporca dorme vicino alla stufa della baracca, chi invece ha conosciuto la vita attraverso i libri di Marx può ringraziare la buona sorte se viene ammesso a coricarsi sul pavimento gelato, e non troppo vicino alla porta.
Invariabilmente, gli utopisti attraversano la fase dell’incredulità, durante la quale si dichiarano convinti di essere stati vittime di equivoci destinati ad essere chiariti: meccanismi già approfonditi nei grandi romanzi del pensiero antitotalitario, cominciando da Buio a mezzogiorno di Koestler. Piano piano, però, la verità si fa strada nei cervelli meno intorpiditi. E un bel giorno il nostro Jacques Rossi si rende conto del colossale, irreparabile equivoco.
Se bastasse la luce della conoscenza per rimediare a una vita sbagliata, tutto si aggiusterebbe. Che guaio, invece: è troppo tardi, il destino è bruciato. Da Lenin a Stalin, in una catena d’acciaio impossibile da spezzare, si è ormai messo in piedi un colossale sistema di annientamento (come mette in rilievo Frediano Sessi nella sua stringente introduzione). Non resta che concludere con le parole di Rossi: «Sono passati settant’anni da quando mi sono dato anima e corpo al movimento comunista. Ma occorre farsi coraggio e riconoscere: mi sono sbagliato».
Il saggio: Jacques Rossi, «Com’era bella questa utopia», introduzione di Frediano Sessi, Marsilio, pagine 257, 14,50