Mutevoli interpretazioni del nazismo
di Augusto del Noce
Klaus Hildebrand è uno storico ancora relativamente giovane (nato nel 1941) che si è proposto il compito di individuare quel carattere specifico che fa del nazionalsocialismo hitleriano hitleriano un fenomeno sui generis la cui comprensione non può venir esaurita dai consueti concetti di tradizione e di rivoluzione, di arretratezza e di modernità, sebbene sia stato, a suo modo, tradizionale e rivoluzionario, arretrato e moderno.
Inutile dire dell’importanza dell’argomento; e la sua analisi, contenuta in un libro apparso nel 1979 e recentemente tradotto presso Laterza, Il Terzo Reich, anche se non mi sembra compiuta sotto ogni riguardo, è tuttavia sulla buona strada. Hildebrand si trova davanti a una serie di interpretazioni che, anche se d rado si presentano in forma pura, condizionano però, a modo di categorie presupposte, le ricerche particolari.
La prima è quella sostenuta da marxisti della più svariata provenienza, che, movendo teoricamente dall’identità di economia e di politica, e praticamente dal “cui prodest”, vede nel nazismo uno strumento del capitalismo, o almeno dei suoi elementi più reazionari.
E’ così generica e così poco atta a spiegare gli aspetti particolari che gli stessi studiosi marxisti sono esitanti a proporla oggi nella sua forma originaria; quella che si può dire la polivalenza del capitalismo rispetto alla possibilità delle sue strutturazioni politiche è infatti un dato di tale evidenza, che è impossibile disconoscerlo. E, per i più raffinata che sia,è altresì inadeguata l’opposta interpretazione “totalitaria” che, accomunando comunismo e nazismo attraverso una serie indiscutibile di analogie reali, non riesce però a spiegare quel tatto specifico del nazismo che è l’utopia razziale.
Facilmente poi l’Hildebrand si libera delle interpretazioni “genealogiche”, ormai del resto generalmente abbandonate, che presentavano il nazismo come lo sviluppo ultimo di un processo che veniva fatto risalire allo stato bismarkiano , o addirittura a Lutero, o, più giù ancora, alle concezioni degli imperatori medioevali.
L’interpretazione che ha preso oggi il posto delle precedenti, e che in qualche modo ne assume gli elementi rinunciando a quelli più chiaramente insostenibili, vede nell’Europa continentale tra le due guerre l’epoca del fascismo e, costruendo un concetto unitario di fascismo inteso come “resistenza alla modernizzazione” – pensata come processo di trasformazione di inaudita profondità che rimuove completamente le strutture sociali tradizionali e include industrializzazione, urbanizzazione, secolarizzazione, e razionalizzazione (i termini più correnti oggi) – vi ravvisa un movimento che si esplicherebbe in varie forme, secondo le diverse tradizioni nazionali; così che il nazismo altro non sarebbe che la “variante tedesca” del fascismo.
Questa tesi ha un potere particolare di resistenza perché si concilia col sociologismo oggi imperante attraverso i termini che si sono detti di modernizzazione, industrializzazione, ecc.; perché non offende né capitalisti né comunisti; perché è tra gli assi portanti della culturali sinistra ancora pubblicisticamente ed editorialmente potente anche se idealmente in declino; perché addita a capri espiatori elites premoderne oggi così decadute da non trovare avvocati difensori. Resta però un residuo che non è in grado di spigare il principio razziale come dogma primo.
Dogma razziale
La discussione critica delle interpretazioni è condotta da Hildebrand nella seconda parte del libro Problemi fondamentali e tendenze della ricerca; ma si direbbe che i suoi risultati condizionino la prima parte, permettendo all’autore di sceverare tutti i momenti essenziali della politica del Terzo Reich così da darne in centocinquanta stringatissime pagine un riassunto in cui nulla di importante per la sua interpretazione viene omesso.
Vi si distingue una politica realistica e un’ideologia che le si sovrappone, fondata appunto sul dogma razziale, a cui è immanente una necessità che destinava quella stessa politica alla crisi e alla rovina. Nella concezione di politica estera che ha Hitler sono visibili due costanti, mai mutate dagli anni venti sino al ’45. Il nemico principale veniva ravvisato nel bolscevismo e nella sua incarnazione, l’Unione Sovietica, così nell’aspetto della politica ideologica come in quello della politica dio potenza.
Nello stesso agosto 1939 in cui veniva firmato il famoso patto di non aggressione tedesco-sovietico, Hitler dichiarava in un colloquio riservato con un diplomatico che tutto ciò che faceva era diretto contro la Russia e che se l’Occidente era troppo stupido e troppo cieco per capirlo, egli sarebbe stato costretto a mettersi d’accordo con i russi per battere l’Occidente e, una volta sconfittolo, a raccogliere tutte le sue forze per rivolgerle contro l’Unione Sovietica. Strettamente, parallele alla direzione antisovietica erano le speranze di un accoro con l’Inghilterra, speranze che furono per Hitler assolutamente prioritarie rispetto all’alleanza con l’Italia e durarono fino agli ultimi giorni del Terzo Reich.
Questa prospettiva di politica estera non esce, per sé, dagli schemi di un revisionismo rispetto ai risultati della prima guerra mondiale, e manifesta in Hitler una chiaroveggenza rispetto al pericolo sovietico nei riguardi dell’Europa, in anni in cui tanti politici europei si chiudevano nella convinzione che il comunismo fosse storia russa, asiatica piuttosto che europea. Fu il fondamento dell’alleanza, che permise l’ascesa di Hitler al potere, con quei conservatori che in buona parte si scissero successivamente dal nazismo, e realizzarono il fallito attentato del 20 luglio 1944.
Già abbiamo accennato al dogma – così Hildbrand lo chiama – ideologico razziale. E veramente di dogma si deve parlare così per l’indimostrabilità come per la fede – e sia pur fede nel più barbaro degli idoli – con cui Hitler ci ha realmente creduto. Normalmente si parla delle ideologie come di strumenti di potere, sotto falsa specie di concezione del mondo. Anche se Hildebrand non usa espressamente questi termini credo che concorderebbe con me nel dire che Hitler fu strumento della sua ideologia e, in ragione di ciò, creatore della propria sconfitta.
Fu soprattutto nella campagna di Russia che si manifestò la contraddizione tra il dogma razziale e il calcolo politico-militare, e la preferenza accordata da Hitler al primo; sembrava che per lui la stessa vittoria tedesca non avesse senso, se per ottenerla si fosse dovuto abdicare in qualcosa all’ideologia razziale. Si consideri: qualunque esercito avanzi in un paese retto da un regime tirannico, si presenta come “liberatore” e l’illusoria carta della liberazione quasi sempre riesce.
I popoli dell’Unione Sovietica non erano certo animati da amore per Stalin, e in Ucraina le truppe tedesche erano state accolte come liberatrici. Il dogma razziale le portò invece a manifestarsi come schiavizzatici. Nella scelta tra le due schiavitù, i popoli sovietici riscoprirono il patriottismo; la riuscita nell’impostazione russa della guerra come “guerra patriottica” fu così dovuta in gran parte al contraccolpo dell’ideologia hitleriana.
Ancora: nella fase culminante della campagna di Russia, quando era evidente l’indispensabilità che tutte le forze di lavoro e tutti i mezzi di trasporto fossero indirizzati all’unico obbiettivo del successo, avvenne invece che l’Europa intera fosse attraversata con regolarità quasi pianificata da convogli ferroviari carichi di ebrei dell’Europa occidentale diretti ai campi di sterminio in Oriente. Inoltre fu proprio questo dogma a vietare a Hitler ogni ascolto alle proposte giapponesi per sondaggi di pace nei confronti dell’Unione Sovietica.
L’”uomo nuovo”
La sconfitta diventata così inevitabile trasformò l’immagine di Hitler da quella, a cui aspirava, di fondatore dell’”uomo nuovo”, nell’altra, oggi abbastanza corrente, del più grande “genio della distruzione” che sia mai apparso nella storia; di una distruzione che include l’autodistruzione della Germania e di se stesso così che il modo stesso del suo suicidio acquista un carattere simbolico.
Vediamo infatti: negli anni Trenta l’Europa poteva ancora apparire il centro del mondo; il risultato della guerra hitleriana fu il passaggio a un predominio americano-sovietico. Se guardiamo alla Germania il nazismo ha segnato la fine di quello stato tedesco-prussiano che Bismarck aveva fondato nel 1871; nonché il potere – che solo l’opera e l’esito dell’hitlerismo riuscirono a scalzare – di quei certi conservatori che, secondo un giudizio oggi molto diffuso nella letteratura sociologizzante, avrebbero bloccato dall’”era Bismarck” fino all’avvento di Hitler nel 1933 il processo di modernizzazione della Germania.
Ma ora, di questo dogma razziale, qual è l’origine? Il passaggio che si deve compiere, se si vuol risolvere questo problema e intendere così pienamente il nazismo, è dalla considerazione storico-politica alla storico-filosofica. Il libro di Hildebrand arriva a questo punto, così da imporre il problema; ma, stranamente, si direbbe che neppure l’avverta e, nell’amplissima bibliografia che forma la terza parte del libro, nessuno scritto di filosofi è citato.
A me, invece, la sua ricerca fa venire in mente un saggio del gesuita Padre Fessard scritto nel 1946 e ripubblicato ampliato nel 1960. Nel libro De l’actualitè historique, che è poco noto, ma che pure ha una importanza eccezionale per definire le categorie filosofiche atte all’interpretazione della storia contemporanea, sulla “comune origine di comunismo e nazionalsocialismo”. L’attenzione deve essere trasferita dai singoli fatti o anche da momenti ideologici parziali, a due aspetti sinora piuttosto trascurati.
Il primo: al modo stesso del marxismo, il nazionalsocialismo è una coerente concezione del mondo; il secondo: tale concezione è l’”esatto contrario” del marxismo e del comunismo; subordinata dunque all’avversario nell’opposizione e destinata perciò già a priori alla sconfitta. Tutto avviene infatti nel nazionalsocialismo come se criterio di verità fosse la sostituzione di una categoria comunista con l’esattamente contraria, però sempre nello stesso orizzonte materialistico del marxismo.
Così alla classe si sostituisce la razza; così alla dimensione del futuro propria del marxismo si oppone il richiamo nazista alla dimensione del passato, e alla laicizzata escatologia marxista che pone la società perfetta alla fine dei tempi corrisponde il mito nazista che la pone prima della storia. Da ciò l’adozione che il nazismo fa del termine di rivoluzione in quanto movimento diretto al fine di realizzare un “uomo nuovo”, che avrebbe dovuto corrispondere al tipo arcaico, mai finora realizzato nella sua purezza, dell’ariano; così che non c’è un passato storico a cui si richiama, al modo delle posizioni tradizionaliste e reazionarie.
Allo storicismo marxista viene opposto il più completo naturalismo espresso da Hitler quando scrive che l’uomo «deve capire la legge fondamentale insita nello sviluppo della natura» intendendo così «che in un mondo dove sempre la forza è padrona della debolezza non ci sono leggi speciali per gli uomini». Lo spazio mi costringe a chiudere qui, ma credo si cominci a intendere a questo punto quella strana fusione di tradizione e di rivoluzione, di arretratezza e di modernità di cui parlavo all’inizio e che non ha analoghi nella storia.
Resta da spiegare come questa concezione abbia potuto generarsi e avere un tale ascendente sulle masse. Restando al primo tema, io vi vedrei il contraccolpo tedesco dello scacco che il marxismo ha subito con lo stalinismo, trasformandosi da progetto di rivoluzione mondiale in strumento della potenza sovietica.
E dal dire che il nazismo è l’esatto contrario del marxismo consegue che il parallelo deve essere fatto tra comunismo e nazismo piuttosto che alla maniera ordinaria tra fascismo e nazismo; accentuando l’idea di quella diversità tra i due movimenti che Hildebrand, come altri studiosi, ha affermato, ma che tuttavia stenta ad essere riconosciuta.