L’imbecillità di chi crede che le nazioni siano costituite con l’inchiostro

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costituzione Usa

Conte Joseph De Maistre (1753-1821)

XX. Dopo aver ascoltato la saggezza delle nazioni, non sarà inutile, credo, ascoltare anche la filosofia cristiana. “Sarebbe stato senza dubbio auspicabile – ha detto il più eloquente dei padri greci – che non avessimo mai avuto bisogno della scrittura, e che i precetti divini fossero solo scritti dalla grazia nei nostri cuori, come lo sono con l’inchiostro nei nostri libri; ma poiché per nostra colpa abbiamo perduto questa grazia, aggrappiamoci, poiché è necessario, a una tavola invece che a un vascello, senza però dimenticare la superiorità dello stato primo. Dio non rivelò mai nulla [per iscritto] agli eletti dell’Antico Testamento: parlò sempre loro direttamente, perché vedeva la purezza dei loro cuori; ma quando il popolo ebreo precipitò nell’abisso dei vizi, furono necessari libri e leggi. Lo stesso itinerario si è ripetuto sotto l’impero della nuova rivelazione; Cristo infatti non ha lasciato un solo scritto ai suoi apostoli. Invece di libri, promise loro lo Spirito Santo. Sarà lui – disse – a ispirarvi ciò che dovrete dire. Ma poiché, con il succedersi dei tempi, uomini colpevoli si ribellarono contro i dogmi e contro la morale, fu necessario ridursi ai libri“.(Crisostomo, Hom. in Matt., I, 1).

XXI. Tutta la verità si trova riunita in queste due autorità. Esse dimostrano la profonda imbecillità (si può ben parlare come Platone, che non si adira mai), la profonda imbecillità, dico, di quei poveretti che si immaginano che i legislatori siano uomini, (29) le leggi pezzi di carta, e le nazioni possano essere costituite con l’inchiostro.

Esse mostrano invece che la scrittura è costantemente un segno di debolezza, di ignoranza o di pericolo; che, quanto più una istituzione è perfetta, meno scrive; cosi che quella che certamente è divina non ha scritto nulla affatto nello stabilirsi, per farci comprendere che ogni legge scritta non è che un male necessario, prodotto dalla debolezza o dalla malizia umana, e che essa è un puro niente, se non ha ricevuto una sanzione anteriore e non scritta.

XXII. È qui che bisogna piangere sul paralogisma fondamentale di un sistema che ha cosi sventuratamente diviso l’Europa. I partigiani di questo sistema hanno detto: No? non crediamo che alla parola di Dio… Quale abuso delle parole! Quale strana e funesta ignoranza delle cose divine! Solo noi crediamo alla parola, mentre i nostri cari nemici si ostinano a credere soltanto alla scrittura; come se Dio avesse potuto o voluto cambiare la natura delle cose di cui è autore e comunicare alla scrittura la vita e l’efficacia che essa non ha!

La Sacra Scrittura non è dunque una scrittura? Non è stata tracciata con una penna e un po’ di liquido nero? Conosce essa ciò che bisogna dire a un uomo e ciò che bisogna tacere a un altro? (30) Leibnitz e la sua domestica non vi leggevano le stesse parole? Può essere, questa scrittura, cosa diversa dal ritratto del Verbo? E, sebbene infinitamente rispettabile sotto questo aspetto, non è costretta, se interrogata, a mantenere un silenzio divino? Se viene infine attaccata o insultata, può difendersi in assenza di suo padre?

Sia resa gloria alla verità! Se la parola eternamente vivente non vivifica la scrittura, questa non diventerà mai parola, cioè vita. Invochino dunque altri, finché piacerà loro, la parola muta: noi rideremo in pace di questo falso dio; sempre aspettando con amorevole impazienza il momento in cui i suoi partigiani, disingannati, si getteranno tra le nostre braccia, aperte ormai da tre secoli.

XXIII. Ogni spirito retto finirà di convincersi su questo punto, per poco che voglia riflettere su un assioma che colpisce ugualmente per la sua importanza e per la sua validità universale: nulla di grande ha un grande inizio. Nella storia di tutti i secoli non si troverà una sola eccezione a questa legge. Crescit occulto velut arbor aevo: è la divisa eterna di ogni grande istituzione.

Da ciò deriva che ogni istituzione falsa scrive molto, perché avverte la sua debolezza e cerca un appoggio. Dalla verità che ho enunciato risulta l’incrollabile conseguenza che nessuna istituzione grande e reale può essere fondata su una legge scritta, perché gli uomini stessi, strumenti successivi dello stabilirsi di essa, ignorano ciò che deve diventare; e che l’accrescimento insensibile è il vero segno della durata, in tutti gli ordini possibili delle cose.

Un esempio degno di nota in questo campo ci viene offerto dal potere dei Sommi Pontefici, che qui non intendo affatto considerare sotto il profilo dogmatico. Una infinità di dotti scrittori, dopo il secolo sedicesimo, ha fatto prodigiosa spesa di erudizione per stabilire, risalendo fino alla culla del cristianesimo, che i vescovi di Roma non erano, nei primi secoli, ciò che sarebbero divenuti poi; supponendo cosi come dimostrato che tutto ciò che non è presente nei tempi primitivi è abuso.

Ora, e lo dico senza spirito polemico e senza voler urtare nessuno, essi dimostrano in questo tanto spirito filosofico e tanto vero sapere come se cercassero in un bambino in fasce le vere dimensioni dell’uomo fatto. La sovranità di cui parlo in questo momento è nata e si è accresciuta come le altre. È penoso vedere ingegni di prim’ordine affaticarsi a provare con l’infanzia che la virilità è un abuso, mentre qualsiasi istituzione che fosse adulta nel nascere sarebbe una totale assurdità, una vera e propria contraddizione logica.

Se i nemici illuminati e generosi di questo potere (ed esso ne conta certamente molti di questo genere) esaminano la questione da questo punto di vista, come li prego amorevolmente di fare, non dubito che tutte queste obiezioni ricavate dall’antichità si dileguino ai loro occhi come una lieve nebbia.

Quanto agli abusi, non è affatto necessario che me ne occupi qui. Dirò solamente, visto che l’argomento cade sotto la mia penna, che c’è molto da sfrondare nelle declamazioni che il secolo scorso ci ha fatto leggere su questo grande tema. Verrà il giorno in cui i papi contro i quali più si è recriminato, come un Gregorio VII, saranno considerati in tutti i paesi come gli amici, i tutori, i salvatori del genere umano, come i veri geni fondatori dell’Europa. Nessuno più ne dubiterà quando i dotti francesi saranno cristiani e i dotti inglesi cattolici, cosa che dovrà pure accadere un giorno.

XXIV. Man con quale suasiva parola potremmo in questo momento farci intendere da un secolo infatuato della scrittura e in rotta con la parola, fino al punto di credere che gli uomini possano creare costituzioni, lingue, e persino sovranità? Un secolo per il quale tutte le realtà sono menzogne, e tutte le menzogne sono realtà; un secolo che non vede neppure quello che accade sotto i suoi occhi, che si pasce di libri e va a domandare equivoche lezioni a Tucidide o a Tito Livio, mentre chiude gli occhi alla verità che raggia nelle gazzette del tempo?

Se i voti di un semplice mortale fossero degni di ottenere dalla Provvidenza uno di quei memorabili decreti che formano le grandi epoche della storia, le domanderei di ispirare a qualche potente nazione che l’avesse gravemente offesa, l’orgoglioso pensiero di costituirsi da sé stessa politicamente, a cominciare dalle basi.

E se, nonostante la mia indegnità, mi fosse permessa l’antica familiarità di un patriarca, direi: “Concedile tutto! Dalle intelligenza, sapere, ricchezza, valore, soprattutto una smisurata fiducia in sé stessa, e quel genio insieme agile e intraprendente che non è imbarazzato da nulla e che nulla intimidisce. Spegni il suo antico governo; levale la memoria; uccidi i suoi affetti. Spargi inoltre il terrore attorno a essa, acceca o agghiaccia i suoi nemici, ordina alla vittoria di vigilare su tutte insieme le sue frontiere, in modo che nessuno dei suoi vicini possa intromettersi nelle sue cose ne turbarla nelle sue operazioni. Che questa nazione sia illustre nelle scienze, ricca di filosofia, ebbra di potere umano, libera da ogni pregiudizio, da ogni legame, da ogni influenza superiore: dalle tutto ciò che desidererà, per evitare che un giorno possa dire: questo mi è mancato o quello mi ha ostacolato. Essa agisca infine liberamente con questa immensità di mezzi; affinché diventi, sotto la tua inesorabile protezione, una lezione eterna per il genere umano“.

XXV. Senza dubbio non si può aspettarsi una tale riunione di circostanze, che costituirebbe letteralmente un miracolo; ma avvenimenti dello stesso ordine, sia pure meno notevoli, appaiono qua e là nella storia, anche in quella contemporanea; e pur non avendo affatto quella esemplare forza ideale che auspicavo or ora, racchiudono ugualmente grandi insegnamenti.

Siamo stati testimoni, meno di venticinque anni fa, di un solenne sforzo fatto per rigenerare una grande nazione mortalmente malata. Era il primo saggio della grande opera, (31) e la prefazione, se è permesso esprimersi cosi, dello spaventoso libro che ci è stato fatto leggere in seguito. Furono prese tutte le precauzioni. I saggi del paese credettero anche di dover consultare la divinità moderna nel suo santuario straniero. Si scrisse a Delfo e due pontefici famosi risposero solennemente.(32) Gli oracoli da loro proferiti in questa occasione non furono affatto, come un tempo, fogli leggeri, in balia dei venti; sono rilegati: … quidque haec sapientia possit tunc patuit

Del resto, è giustizia confessarlo: in quello che la nazione doveva solo al proprio buon senso, vi erano cose che ancora oggi si possono ammirare. Tutte le cose opportune si riunivano, senza dubbio, sulla testa saggia e augusta chiamata a prendere le redini del governo; i principali interessati al mantenimento delle leggi facevano volontariamente un superbo sacrificio al [bene] pubblico; e, per rafforzare l’autorità suprema, si prestavano a cambiare un epiteto della sovranità. Ahimè! tutta la saggezza umana fallì, e tutto finì con la morte.

XXVI. Si dirà: Ma noi conosciamo le cause che fecero fallire l’impresa. Come dunque? Avremmo preteso che Dio inviasse angeli sotto forme umane, con la missione di lacerare una costituzione? Bisognerà pure che siano impiegate le cause seconde: questa o quella, che importa? Tutti gli strumenti sono buoni nelle mani del grande artefice; ma la cecità degli uomini è tale che, se domani qualche fabbricatore di costituzioni tornerà a organizzare un popolo e a costituirlo con un po’ di liquido nero, la folla si affretterà a credere ancora una volta al miracolo annunciato. Si dirà nuovamente: nulla vi manca; tutto è stato previsto; tutto è scritto; mentre proprio perché tutto sarebbe stato previsto, discusso e scritto, sarebbe dimostrato che la costituzione è nulla, e non presenta che un’effimera apparenza allo sguardo.

XXVII. Credo di avere letto da qualche parte che vi sono ben poche sovranità in grado di giustificare la legittimità della loro origine. Anche ammettendo la fondatezza dell’affermazione, non ne risulterà per questo la minima macchia sui successori di un capo i cui atti potrebbero patire qualche obiezione: la nube che avvolge più o meno l’origine della sua autorità non sarebbe che un inconveniente, conseguenza necessaria di una legge del mondo morale.

Se fosse diversamente, ne deriverebbe che il sovrano non potrebbe regnare legittimamente se non in virtù di una deliberazione di tutto il popolo, cioè per grazia del popolo; il che non accadrà mai, poiché nulla è più vero di quanto è stato detto dall’autore delle Considerazioni sulla Francia: “II popolo accetterà sempre i suoi capi e non li sceglierà mai“. Bisogna sempre che l’origine della sovranità si mostri fuori della sfera del potere umano, in modo che gli stessi uomini che sembrano avervi parte direttamente non siano altro che circostanze.

Quanto alla legittimità, se nel suo principio essa ha potuto sembrare ambigua, Dio si spiega per mezzo del suo primo ministro al dicastero di questo mondo: il tempo. È tuttavia certamente vero che certi presagi contemporanei ingannano poco quando si è in grado di osservarli; ma i particolari su questo punto farebbero parte di un’altra opera.

XXVIII. Tutto ci riconduce dunque alla regola generale: l’uomo non può fare una costituzione e nessuna costituzione legittima potrebbe essere scritta. Non si è mai scritta ne si scriverà mai a priori la raccolta delle leggi fondamentali che devono costituire una società civile o religiosa. Ma dopo che la società sia costituita, senza che si possa dire come, è possibile far dichiarare o illustrare per iscritto certi articoli particolari; ma quasi sempre queste dichiarazioni sono l’effetto o la causa di grandissimi mali, e costano sempre ai popoli più di quanto non valgano.

XXIX. A questa regola generale, secondo cui nessuna costituzione può essere scritta né fatta a priori, non si conosce che una sola eccezione, ed è la legislazione di Mosé. Essa sola fu, per cosi dire, gettata come una statua e scritta fin nei minimi particolari da un uomo prodigioso che disse: fiat!, senza che in seguito la sua opera abbia mai avuto bisogno di essere, né da lui né da altri, corretta, supplita o modificata.

Essa sola ha potuto sfidare il tempo, perché non gli doveva nulla e nulla ne aspettava; essa sola ha vissuto millecinquecento anni; e anche dopo che diciotto altri secoli sono trascorsi su essa, dal tempo del grande anatema che la colpi nel giorno segnato, la vediamo oggi vivere, per cosi dire, di una seconda vita, stringere ancora, attraverso non so quale misterioso legame dal nome non umano, le diverse famiglie di un popolo che rimane disperso senza essere disunito; di modo che, simile all’attrazione e con lo stesso potere, essa agisce a distanza e forma un tutto di una moltitudine di parti che non si toccano.

Cosi, questa legislazione esce evidentemente, per ogni coscienza intelligente, dal cerchio tracciato attorno al potere umano, e questa magnifica eccezione a una legge generale che ha ceduto una sola volta e soltanto al suo autore, basta da sola a dimostrare la missione divina del grande legislatore degli ebrei, molto meglio dell’intero libro di quel prelato inglese che, col più alto ingegno e un’immensa erudizione, ha avuto la sventura di appoggiare una grande verità sul più infelice paralogisma. (33)

XXX Ma poiché ogni costituzione è divina nel suo principio, ne segue che l’uomo non può nulla in questo campo a meno che non si appoggi su Dio, di cui diviene allora lo strumento. (34) Questa è una verità a cui il genere umano intero non ha cessato di rendere la più luminosa testimonianza. Guardiamo la storia, che è la politica sperimentale, e vi vedremo costantemente la culla delle nazioni attorniata da sacerdoti, e la divinità sempre invocata a soccorso della debolezza umana. (35)

La leggenda, assai più vera della storia antica, per occhi preparati, viene a rafforzare ulteriormente la dimostrazione. È sempre un oracolo a fondare le città; è sempre un oracolo ad annunciare la protezione divina e i successi dell’eroe fondatore. I re soprattutto, capi degli imperi nascenti, sono costantemente designati e quasi segnati dal cielo in qualche maniera straordinaria. (36) Quanti uomini leggeri avranno riso della santa ampolla, (37) senza riflettere che la santa ampolla è un geroglifico, e che si tratta solo di saper leggere. (38)

XXXI. La consacrazione dei re ha la stessa origine. Non si è mai avuta cerimonia, o meglio professione di fede, più significativa e più degna di rispetto. Sempre il dito del pontefice ha toccato la fronte della sovranità nascente. I numerosi scrittori che in questi augusti riti hanno visto solo mire ambiziose, o anche l’esplicito accordo tra superstizione e tirannia, hanno parlato contro la verità, e quasi tutti anche contro la loro coscienza.

Questo tema meriterebbe di essere esaminato. A volte sono stati i sovrani a cercare la consacrazione, altre volte la consacrazione ha cercato i sovrani. Se ne sono visti altri respingere la consacrazione come segno di dipendenza. Conosciamo un numero sufficiente di fatti per poter giudicare con sufficiente rettitudine, ma bisognerebbe distinguere accuratamente gli uomini, i tempi, le nazioni e i culti. Qui ci basti sottolineare l’opinione universale ed eterna che invoca la potenza divina a fondare gli imperi.

XXXII. Le nazioni più celebri dell’antichità, soprattutto le più gravi e le più sapienti, come gli egiziani, gli etruschi, i lacedemoni e i romani, avevano precisamente le costituzioni più religiose; e la durata degli imperi è sempre stata proporzionata al grado d’influenza che il principio religioso aveva acquisito nella costituzione politica. Le città e le nazioni maggiormente dedite al culto divino sono sempre state le più durature e le più sagge, cosi come i secoli più religiosi sono sempre stati quelli maggiormente contraddistinti dal genio. (39).

XXXIII. Le nazioni sono state sempre civilizzate soltanto dalla religione. Nessun altro mezzo conosciuto ha presa sull’uomo selvaggio. Senza ricorrere all’antichità, che è decisiva su questo punto, ci è dato vederne una prova tangibile in America. Da tre secoli siamo là con le nostre leggi, le nostre arti, le nostre scienze, la nostra civiltà, il nostro commercio e il nostro lusso; quali vittorie abbiamo riportato sullo stato selvaggio? Nessuna. Distruggiamo quegli infelici con le armi e con l’acquavite, li respingiamo a poco a poco nell’interno dei deserti, finché non scompaiano interamente, vittime dei nostri vizi quanto della nostra crudele superiorità.

XXXIV. Qualche filosofo ha mai immaginato di abbandonare la sua patria e i suoi piaceri per andarsene nelle foreste dell’America alla cerca dei selvaggi, per disgustarli da tutti i vizi della barbarie e dare loro una morale? (40) Essi hanno fatto ben di meglio: hanno composto dei bei libri per provare che il selvaggio era l’uomo naturale e che noi non potevamo auspicare niente di più felice che di rassomigliargli. Condorcet ha detto che i missionari hanno portato in Asia e in America solo vergognose superstizioni. (41)

Rousseau, con un raddoppio di follia veramente inconcepibile, ha detto che i missionari non gli sembravano affatto migliori dei conquistatori. (42) Infine, il loro corifeo ha avuto la sfrontatezza (ma cosa aveva da perdere?) di schernire con la peggiore grossolanità quei pacifici conquistatori che l’antichità avrebbe divinizzati. (43)

XXXV. Eppure sono stati loro, sono stati i missionari a operare tale meraviglia, tanto superiore alle forze e alla stessa volontà umana. Solo essi hanno percorso da un’estremità all’altra il vasto continente americano per crearvi degli uomini. Solo essi hanno fatto ciò che la politica non aveva neppure osato immaginare. Ma nulla, in questo campo, uguaglia le missioni del Paraguay; è là che si è vista, nella maniera più manifesta, l’autorità e il potere esclusivo della religione per la civilizzazione degli uomini.

Questo prodigio è stato celebrato, ma non sufficientemente: lo spirito del secolo diciottesimo, e un altro spirito, suo complice,(44) hanno avuto la forza di soffocare, in parte, la voce della giustizia e quella stessa dell’ammirazione. Un giorno forse (poiché si può sperare che queste grandi e nobili fatiche saranno riprese) nel cuore di una opulenta città assisa su un’antica savana, il padre di questi missionari avrà una statua.

Si potrà leggere sul piedistallo: ALL’OSIRIDE CRISTIANO i cui inviati hanno percorso la terra per strappare gli nomini alla miseria, all’abbrutimento e alla ferocia, insegnando loro l’agricoltura, dando loro delle leggi, insegnando loro a conoscere e servire Dio, ammansendo cosi lo sventurato selvaggio NON CON LA FORZA DELLE ARMI, di cui non ebbero mai bisogno, ma con la dolce persuasione, i canti morali E LA POTENZA DEGLI INNI, cosi che furono creduti angeli. (45)

XXXVI. Ora, quando si pensa che quest’ordine legislatore che regnava in Paraguay mediante il solo ascendente delle virtù e dei talenti, senza mai allontanarsi dalla più umile sottomissione alla legittima autorità, per sviata che fosse; che quest’ordine, dico, veniva nello stesso tempo ad affrontare nelle nostre prigioni, nei nostri ospedali, nei nostri lazzaretti, tutto ciò che la miseria, le malattie e la disperazione hanno di più laido e di più ripugnante; che questi stessi uomini, che alla prima chiamata correvano a coricarsi sulla paglia accanto all’indigenza, non si trovavano fuori posto nei circoli più raffinati; che essi andavano sui patiboli a dire le ultime parole alle vittime della giustizia umana, e che da questi teatri di orrore si lanciavano nei pulpiti per tuonarvi di fronte ai re; (46) che essi maneggiavano il pennello in Cina, il telescopio nei nostri osservatori, la lira di Orfeo in mezzo ai selvaggi, e che avevano educato tutto il secolo di Luigi XIV; quando si pensa infine che una detestabile coalizione di ministri perversi, di magistrati in delirio e di ignobili settari ha potuto, ai nostri giorni, distruggere questa meravigliosa istituzione e farsene un vanto, sembra di vedere quel folle che metteva trionfalmente il piede su un orologio dicendogli: ti saprò ben impedire di far rumore. Ma che dico mai? Un folle non è colpevole.

XXXVII. Ho dovuto insistere principalmente sulla formazione degli imperi come sull’oggetto più importante; ma tutte le istituzioni umane sono soggette alla stessa regola e tutte sono nulle o nefaste se non riposano sulla base di ogni esistenza. Poiché questo principio è incontestabile, cosa pensare di una generazione che ha messo tutto sottosopra, persino le basi stesse dell’edificio sociale, rendendo l’educazione puramente scientifica?

Era impossibile ingannarsi in modo più terribile, perché ogni sistema di educazione che non si fonda sulla religione cadrà in un batter d’occhio, o verserà nello Stato soltanto veleni, essendo la religione, come ha egregiamente detto Bacone, il balsamo che impedisce alla scienza di corrompersi.

XXXVIII. Spesso si è domandato: perché una scuola di teologia in tutte le università? La risposta è facile: affinché le università sussistano e l’insegnamento non si corrompa. In origine esse non erano che scuole teologiche, in cui le altre facoltà vennero a raccogliersi come suddite attorno a una regina. L’edificio dell’istruzione pubblica, fondato su questa base, era rimasto saldo fino ai nostri giorni. Quelli che in casa loro l’hanno rovesciato se ne pentiranno a lungo inutilmente. Per bruciare una città basta un bambino o un insensato; per ricostruirla sono necessari architetti, materiali, operai, milioni; e soprattutto tempo.

XXXIX. Quelli che si sono accontentati di corrompere le istituzioni antiche, conservandone le forme esteriori, hanno forse fatto al genere umano altrettanto male. L’influenza delle moderne università sui costumi e sullo spirito nazionale di una parte considerevole del continente europeo è ormai perfettamente nota. (47)

Le università inglesi hanno conservato, sotto questo aspetto, una reputazione migliore che non le altre, forse perché gli inglesi sanno meglio tacere o lodarsi a proposito; può anche essere che lo spirito pubblico, che in quel paese ha una forza straordinaria, abbia saputo difendervi meglio che altrove queste venerabili scuole dall’anatema generale.

Tuttavia bisogna che esse soccombano, e già il malanimo di Gibbon ci ha valso strane confidenze su questo punto.(48) Infine, per non uscire dalle generali, se non si ritorna agli antichi princìpi, se l’educazione non è restituita ai sacerdoti e se le scienza non è collocata ovunque al secondo posto, i mali che ci attendono sono incalcolabili; saremo abbrutiti dalla scienza, ed è l’estremo grado dell’abbrutimento.

Note

(29) Tra una infinità di tratti ammirevoli di cui splendono i Salmi di Davide, sottolineo il seguente: “Constitue, Domine, legislatorem super eos, ut sciant quoniam homines sunti”; ossia: ” Stabilisci, o Signore, un legislatore su di loro, affinché sappiano che sono uomini “. È un bel detto!

(30) Vedere il cap. XIX.
(31) Può essere interessante riferire l’analisi che della grande opera (secondo la nota espressione alchemica e massonica) è fatta da un autore contro-rivoluzionario moderno, Augustin Cochin, la cui opera può utilmente integrare quella di de Maistre: “Pur divergendo in apparenza e nel loro sviluppo polemico, le dottrine [rivoluzionarie] sono riconducibili a unità. La grande opera e un’unica verità, conosciuta prima in forma mistica, nei circoli di iniziati, attraverso tutto un armamentario di simboli, e oggi sempre più visibile e palpabile. Definiamola, se volete, la socializzazione dell’idea di Dio, termine naturale dell’evoluzione sociale, o risultato effettivo del lavoro collettivo nelle società di pensiero, e non prodotto di non so quale filiazione di idee, di un albero genealogico di astrazioni, come immagina la storia della letteratura o della filosofia. Quando quest’opera sarà compiuta – e lo è già per tutto un ordine di fedeli – Dio non sarà neppure più posto in questione; qualche altra cosa avrà preso il suo posto: il popolo. E con questa parola non intendo una quantità più o meno grande di individui, ma il popolo in sé, cioè la collettività umana, liberamente e socialmente organizzata, in tutta giustizia e tutta verità. […] Allora sarà compiuto il tempio di Salomone – per attenerci alla simbologia massonica – e potranno finalmente sparire le impalcature religiose e politiche”. In Augustin Cochin, Les sociétés de pensée et la démocratie moderne, Paris 1921, pp. 40-41. Cfr. anche un’altra opera capitale di Cochin, La Révolution et la Libre-Pensée, recentemente tradotta in italiano con il titolo Meccanica della Rivoluzione, Rusconi, Milano 1971 (N.d.T.).
(32) Rousseau e Mably.
(33) Si riferisce all’opera del teologo anglicano William Warburron (1698-1779), The divine Legation of Moses, demonstrated on the principles of a religious deist, in 5 voll., 1738-65 (N.d.T.).
(34) Si può anche generalizzare l’asserzione e affermare senza eccezione che nessuna istituzione, qualunque essa sia, può durare se non è fondata sulla religione.
(35) Platone, in un passo mirabile e interamente mosaico, parla di un tempo primitivo nel quale “Dio aveva affidato la fondazione e il governo degli imperi non a uomini, ma a geni”; e aggiunge, parlando della difficoltà di creare costituzioni durevoli; “E’ la verità stessa che se Dio non ha presieduto alla fondazione di una città, e se questa non ha avuto che un inizio umano, essa non può sfuggire ai peggiori mali. Bisogna dunque cercare, in tutti i modi immaginabili, di imitare il regime originario; e affidandoci a ciò che vi è di immortale nell’uomo, dobbiamo fondare gli istituti come gli Stati, consacrando come legge la volontà dell’intelligenza (suprema). Che se uno Stato (qualunque ne sia la forma) è fondato sul vizio e governato da persone che calpestano la giustizia, non gli resta alcun mezzo di salvezza” (Platone, De leg., t. VIII, ed. Bipont, pp. 180-181).
(36) Nella controversia si è fatto molto uso della famosa regola di Riccardo da San Vittore [in realtà, san Vincenzo di Lerins (N.d.T.)] : Quod semper, quod ubique, quod ab omnibus. Ma questa regola è generale e mi sembra che possa essere espressa cosi: Ogni credenza costantemente universale è vera; e tutte le volte che, separando da una qualsiasi credenza certi articoli propri delle diverse nazioni, rimane qualcosa di comune a tutti, questo residuo è una verità.
(37) Cfr. l’Introduzione, p. 6 (N.d.T.).
(38) Da ogni religione, per la natura stessa delle cose, germina una mitologia che le somiglia. Quella della religione cristiana è, per questa ragione, sempre casta, sempre utile, e spesso sublime, senza che (per un privilegio particolare) sia mai possibile confonderla con la religione stessa. Di modo che nessun mito cristiano può nuocere, e spesso merita tutta l’attenzione dell’osservatore.
(39) Senofonte, Memor. Socr., I, 4, 16.
(40) Condorcet ci ha promesso, in verità, che i filosofi si sarebbero incaricati subito subito della civilizzazione e della felicità delle nazioni barbare (Esquisse d’un Tableau historique des progrès de l’esprit humain, in 8°, p. 355). Stiamo sempre aspettando che si decidano a cominciare.
(41) Esquisse, cit., p. 335.
(42) Lettera all’arcivescovo di Parigi.
(43) “Eh! amici miei, perché non siete rimasti nella vostra patria? Non vi avreste trovato un numero maggiore di diavoli, ma vi avreste trovato altrettante sciocchezze” (Voltaire, Essai sur les moeurs et l’esprit, ecc., t. I, Introduction, De la Magie, p. 157). Cercate altrove più demenza, più indecenza, anche più cattivo gusto; non vi riuscirete. E’ tuttavia questo libro, di cui ben pochi capitoli sono esenti da tratti simili, è questo sontuoso gioiello falso che alcuni moderni entusiasti non hanno temuto di definire un monumento dello spirito umano: senza dubbio come la cappella di Versailles e i quadri di Boucher.
(44) II giansenismo (N.d.T.).
(45) “Regnando Osiride in Egitto, subito ritrasse gli egiziani dalla vita indigente, sofferente e selvaggia, insegnando loro a seminare e a piantare, istituendo leggi per loro, educandoli a onorare e a venerare gli dei: e andando poi per tutto il mondo, ugualmente lo ammansì senza impiegarvi affatto la forza delle armi, ma attirando e conquistando la maggior parte dei popoli grazie a dolci persuasioni e ad ammonimenti posti in canzoni e in ogni sorta di musica, cosi’ che i Greci pensarono che fosse lo stesso che Bacco” (Plutarco, De Iside et Osiride, Paris, Cussac, 1802, Oeuvres Morales).
“Si è trovato di recente in un’isola del fiume Penobscot una popolazione selvaggia che cantava ancora un gran numero di pii e istruttivi cantici in indiano, sulla musica della Chiesa, con una precisione che sì stenterebbe a trovare presso i migliori cori; una delle arie più belle dslla chiesa di Boston proviene da questi indiani (che l’avevano appresa dal loro maestri più di quarant’anni fa) senza che questi sventurati avessero più da allora beneficiato di alcun genere d’istruzione” (Mere, de France, 5 luglio 1806, n. 259, p. 29 e sgg).
Il padre Salvaterra (bel nome di missionario!), giustamente chiamato l’Apostolo della California, affrontava i selvaggi più intrattabili di cui si è mai avuta conoscenza senza altre armi che un liuto, che suonava superbamente. Si metteva a cantare: In voi credo, o Dio mio! ecc. Uomini e donne lo circondavano e lo ascoltavano in silenzio. Muratori dice, parlando di quest’uomo ammirevole: “Pare favola quella d’Orfeo; ma chi sa che non sia succeduto in simil caso?”. Solo i missionari hanno compreso e dimostrato la verità di questa favola. Si vede pure che essi avevano scoperto i1 genere di musica degno di associarsi a queste grandi creazioni. “Inviateci – scrivevano ai loro amici d’Europa – le arie dei grandi maestri italiani; per essere armoniosissimi, senza tanti imbrogli di violini obbligati, ecc. ” (Muratori, Cristianesimo felice, ecc., Venezia 1752, cap. XII, p. 284)
(46) Loquebar de testimoniis tuis in conspectu regum; et non confundebar (Ps., CXVIII, 46). È l’iscrizione posta sotto il ritratto di Bourdaloue e meritata da molti suoi colleghi.
(47) Non mi permetterò di pubblicare considerazioni mie proprie, per quanto preziose possano peraltro essere; ma credo che sia lecito a chiunque ristampare ciò che è stampato e far parlare sulla Germania un tedesco. Ecco come si esprime sulle università del suo paese un uomo che nessuno accuserà di essere infatuato di idee antiche: “Tutte le nostre università di Germania, anche le migliori, hanno bisogno di grandi riforme per quanto riguarda il capitolo dei costumi…Anche le migliori sono un abisso in cui si perdono irrimediabilmente l’innocenza, la salute e la felicità futura di una moltitudine di giovani, e da dove escono esseri rovinati nel corpo e nell’anima, più gravosi che utili alla società, ecc…. Possano queste pagine servire da antidoto ai giovani! Possano essi leggere un giorno sulla porta delle nostre università questa iscrizione: “Giovane! È qui che molti tuoi simili persero insieme la felicità e l’innocenza””. (M. Campe, Ree. de voyages pour l’instruction de la jeunesse, in 12°, t. II, p. 129).
(48) Si vedano le sue Memorie in cui, dopo averci fatto rivelazioni molto belle sulle università del suo paese, dice in particolare di quella Oxford: “essa può benissimo ripudiarmi come figlio con lo stesso buon animo con cui io la ripudio come madre”. Sono certo che questa tenera madre, sensibile, come doveva essere, a una tale dichiarazione, gli avrà decretato un magnifico epitaffio: LUBENS MERITO. Il cavaliere William Jones, nella sua lettera a M. Anquetil, cade nell’eccesso opposto; ma tale eccesso gli fa onore.