Tolleranti, liberali, mollaccioni, abbiamo paura di imporre regole: un libro di don Giussani sul rischio di educare
Paola Mastrocola
Al centro c’è il libro di don Giussani. II rischio educativo, ripubblicato di recente e presentato in varie città d’Italia. Messaggio fondamentale dell’appello è che oggi sia «in crisi la capacità di una generazione di adulti di educare i propri figli», e che si tratti di una vera e propria emergenza nazionale, ancor più grave di quella politica ed economica.
Credo che la maggioranza di noi resti allibita e incredula davanti ad affermazioni simili: ma come, l’educazione è un problema? ma quando mai? Se chiedessero a un campione di noi genitori se stiamo o no educando i nostri figli, quasi tutti risponderemmo in coro: ma sì, certo.
Penso che abbiamo dell’educazione un’idea un po’ vaga, e anche bifronte; da un lato, pensiamo che si tratti solo di insegnare ai figli due o tre cosucce quali proferire qualche strascicato buongiorno e buona-sera, lavarsi i denti e non mettersi le dita nel naso in pubblico; dall’altro lato, la parola educazione ci suscita immagini truculente, tipo padri feroci che picchiano i figli o anche solo li mandano a letto senza cena. Insomma, per noi l’educazione o è una irrilevante questione formale oppure è un macigno di crudeltà e quindi la aborriamo come la peste.
Il clima postsessantottino, in cui viviamo immersi da circa quarant’anni e che sembra destinato a durare altri quaranta, non aiuta, impedendoci di vedere alcunché di buono nelle parola educazione. L’abbiamo per sempre associata a parole “brutte” quali autorità, autoritarismo, antidemocratico, illiberale, repressivo. Insomma, pare molto scorretto oggi educare un figlio. Fare un gesto violento e autoritario, che limita fortemente la libertà del giovane, la sua crescita autonoma e il suo cosiddetto percorso ulteriore. E noi genitori oggi, va da sé, mai vorremmo in alcun modo limitare un figlio.
E pensare che la parola educazione, di per sé, e così innocente! Se guardiamo alla sua etimologia, viene da e-ducere e vuoi dire condurre via, condurre fuori da. C’è l’idea di fare uscire, portare all’aperto. E per far ciò, certo, bisognerebbe indicare, proporre, forse anche imporre, una via. Ohibò, e perché mai addirittura imporre? leveranno qui gli scudi alcuni. Semplice: perché se a noi adulti sembra buona una certa via, è naturale che vorremmo che nostro figlio la prendesse.
E gliela vorremo indicare con forza, cioè anche forzandolo un po’, almeno all’inizio. E perché mai faremmo tale violenza a nostro figlio? Perché abbiamo una convinzione. Una convinzione che rischiara così tanto la nostra vita e la fornisce di un senso, che vogliamo condividerla con nostro figlio, vogliamo passargliela, perché illumini anche la sua vita.
Arbitrario, autoritario, violento? Può darsi. Ma è qui che ci soccorre il libro di don Giussani. Non so se senza quell’appello l’avrei mai letto (non sono particolarmente legata al mondo cattolico…). E non so se l’ho capito nella sua vera essenza. Ma mi piace moltissimo l’idea che educare voglia dire prendersi un rischio, che l’adulto indichi con forza una via, ma poi accetti il rischio che il figlio non la scelga, che ne prenda un’altra tutta diversa.
E’ qui che viene tutelato, anzi, esaltato l’aspetto democratico dell’ educazione. L’adulto deve rischiare di essere perdente. Non importa, avrà comunque passato al figlio l’idea che esiste qualcuno che crede in qualcosa, a tal punto da volere che altri ne seguano l’esempio. Questa è l’idea forte che passerà al giovane: che ci sono passioni, preferenze, convinzioni, e che non è sempre tutto uguale, intercambiabile, opinabile, indifferente.
Credo che il libro di don Giussani dovrebbero leggerlo proprio i laici. E anche gli intellettuali, e le persone molto colte, e le classi molto alte, e la gente di sinistra soprattutto se ha fatto il sessantotto. Non vorrei mai che il problema educativo interessasse quasi esclusivamente i cattolici, oppure in generale le famiglie che sfortunatamente sono meno agiate, meno colte e vivono in un mondo arretrato di qualche decina d’anni: mi sembra a volte qua e là di aver notato proprio questo, e cioè che solo gli appartenenti a tali categorie sono ancora in grado di sgridare un figlio, persino di punirlo o premiarlo, e di indicargli fortemente la via, esigendo (esigendo!) moltissimo da lui.
A costoro non fa tutto uguale, e non hanno paura di limitare un figlio. Se vedono che fa una cosa che secondo loro è sbagliata, gli vietano di farla, tutto qui.
Noi invece tanto colti, laici, di sinistra, noi postsessantotto, postdiluvio, postdatati, postdottori, nonché postumi di noi stessi, ci siamo autoimmobilizzati: non battiamo palpebra di fronte al figlio che non studia, non lavora, non rientra a casa (a un’ora decente), non aiuta, non legge. Siamo… rispettosi delle sue scelte, e orgogliosi di non limitarlo.
Certo, c’è un piccolo problemino che soggiace a tutto questo discorso bisognerebbe, per educare, sapere almeno in linea di massima che cosa è giusto e che cosa e sbagliato e quali sono le vie buone dove vorremmo condurre i nostri figli: ma questo è esattamente quel che non sappiamo più, e questa e esattamente la sfida che ci attende.
Siamo lontani persi no dalla certezza pur negativa del montaliano «solo questo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Non sappiamo più niente, e rimaniamo immobilizzati e dubbiosi. Confusamente sentiamo che non è bello che i nostri figli passino il pomeriggio davanti a un videogioco dove il marine trucida il vietcong: non ci piace, non vorremmo che lo facessero, ma non sappiamo bene in nome di quale principio assoluto e condiviso vietarlo.
Inoltre non vogliamo per nulla incrinare la felice beatitudine dei nostri figli, creando motivi di scontro: lavoriamo lutto il giorno, torniamo a casa stanchi morti e ci affaticherebbe non poco combattere e difendere strenuamente le nostre idee; più comodo abbandonare le mucche al pascolo. Infine, cosi fan tutti… Dunque, per queste
tre ragioni, se anche – forzandoci molto – riusciamo a dare regole e divieti, sono regole e divieti molli, che non hanno dietro niente, nessuna ragione che li motivi. Regole e divieti di cartapesta, come un set di Cinecittà. Al massimo, difronte al figlio che si inanella naso orecchie e ombelico, osiamo dire: preferirei di no. Come il famoso scrivano Bartleby… E cosi approdiamo a quella che mi pare oggi la filosofia trionfante, quella del laisser faire. Lasciamo fare, e speriamo che passi. Come l’influenza.
Mi viene da pensare a Fetonte. Se suo padre, niente meno che il dio Sole, avesse rifiutato d i fargli guidare il carro infuocato, Fetonte sarebbe ancora vivo. Doveva impedirglielo: il figlio era giovane, inesperto, e quel carro troppo pericoloso. Ma tant’è, n andata cosi e Fetonte, fulminato da Zeus, è precipitato nel Po.
A futura memoria. La domanda ora è questa, a cui rispondere crocettando la casella giusta: il dio Sole è stato a) un padre debole: e vigliacco, b) un uomo (un dio!) mirabilmente liberale, oppure e) semplicemente politically corract?