Laggiù, nel microcosmo di un centro di accoglienza per immigrati dal Terzo Mondo, la storia emblematica di una solidarietà reale, di un ecumenismo vero, di fatti al posto dei soliti bla bla
di Marco Respinti
Il colore verde della natura tiene ancora, infatti, e l’estate deve ancora venire: a quel punto sì che sarà tutto giallastro bruciato, tanto che un amico mi racconta di sua madre, toscana, sfollata qui ai tempi della guerra e ammalatasi subito gli occhi per tanto eccezionale lucore.
La più antica e prestigiosa istituzione di Caltanissetta è l’Istituto Testasecca, forte dei suoi 110 anni e più, fondata illo tempore dal conte Ignazio. Il suo genere è la caritativa. Ha formato generazioni di minori, da tempo ha attivato un centro diurno (convenzionato con il Comune) che ospita 60 anziani e gestisce una scuola per l’infanzia, un asilo nido, un Banco Alimentare che aiuta oltre 100 famiglie bisognose della città, più la Fraternità della Misericordia, due associazioni civico-culturali-ricreative nonché artistiche d’ispirazione cattolica, l’Istituto di Scienze Formative e Sociali, due sale per convegni, un centro per l’Alzheimer, la sede di un’associazione sindacale di Polizia.
Dall’agosto scorso, però, al Testasecca ci sono altri nuovi ospiti, quegli extracomunitari che la legge italiana ha dislocato qui scremandoli dai Centri di permanenza temporanea (istituti dall’articolo 12 della legge Turco-Napolitano del 6 marzo 1998) dove finiscono i profughi appena sbarcati dalle iperaffollate carrette del mare. Il Testasecca è un “centro di seconda accoglienza” dove hanno trovato alloggio prima 20 poi 48 e oggi 65 immigrati che, per motivi politici, non possono tornare al proprio Paese giacché farebbe di prassi una brutta fine.
Gli spazi, al Testasecca, sono esuriti, ancora uno spillo e scoppia. Gl’immigrati ospitati sono in maggioranza maghrebini, subsahariani, centroasiatici. È sotto il sole, per fortuna non ancora leone, di Caltanissetta che mi tornano alla mente le brume della mia Milano.
Era un mattino di fine inverno. Leggevo, non ricordo cosa, seduto in un vagone di quel metrò che quotidianamente mi porta in redazione. Mi accorsi che di fronte a me due tipi mi osservavano. Ci feci più caso quando vidi che si scambiavano sguardi con un terzo, seduto accanto a me, solo qualche sedile più in là. Nordafricani, pensai, o mediorientali. Il vagone era semivuoto. Scesi alla mia fermata e realizzai che i tre tipi, dopo un altro cenno d’intesa, mi seguivano.
Non so come fu, ma sulla scala mobile che portava alla superficie finii per restare solo io e, qualche gradino più in basso, quei tre, seri, taciturni. Poi uno prese l’iniziativa, fece qualche passo e, senza battere ciglio, mi porse lentamente ma con fermezza qualcosa. Un libercolo; lo allungò come se si leggesse al contrario, cioè chiuso sul retro di copertina. Che era verde, “verde Corano”, con sopra una scritta bianca in arabo. “Ci siamo”, dissi tra me raggelando.
Presi timido il libro e in una frazione di secondo mi accorsi che sotto la scritta araba ve n’era un’altra, prima coperta dai polpastrelli del tipo, altrettanto bianca però in francese: L’Évangile. Dentro era stampato in francese e arabo. Sorrisi: “Per me?”, dissi istintivamente in italiano. Il donatore capì, ricambiò il sorriso e rispose con l’indice della destra, puntando quella coroncina del rosario che pendeva dalla mia borsa, messa lì tempo prima come segnacolo, bandiera, scudo.
Il tizio però non lo sapeva, che serve infatti convincere i convinti? Forse mi scambiò per uno di quelli che il crocifisso se lo mettono ovunque con leggerezza pop, persino alle orecchie. Poche parole in francese appurarono che i tre erano egiziani, missionari in t-shirt alle nostre latitudini.
Quel mattino nella MM torna alla mente al Testasecca nisseno perché proprio qui rivedo quei librini “verde Corano” che invece son Vangeli. Alberto Maira, presidente dell’Istituto, cattolico integrale, dà da dormire e da mangiare agl’immigrati e poi, se può, mette lì qualcosina anche per le loro anime. Se predichi a gente con la pancia vuota, quella mica ti ascolta; ma una volta soddisfatte le prime necessità, anche i soggetti più esotici sono disposti a concedere almeno il beneficio d’inventario a chi tende pane. (Del resto, sul fronte opposto, Hamas ha ingigantito le proprie fila a Gaza esattamente agendo da charity bene organizzata).
Per tutti qui, dove il francese è la lingua di scambio, Maira è infatti incontrovertibilmente “le President”, lo riveriscono, con grande dignità e altrettanta deferenza, sembra un altro mondo. Al Testasecca, peraltro, lui, oltre al pane, procura pasta, riso, zucchero; ci si campa, insomma.
Per questo, dopo, qualcuno pensa bene anche di frequentare l’annessa chiesa cattolica di sant’Anna (proprietà e gestione dell’Istituto, con disponibilità del cappellano) dove si celebra in italiano, latino e inglese, il pastore della Chiesa cristiana battista che viene per gl’immigrati protestanti e pure il grande salone per la preghiera messo a disposizione per i musulmani.
Maira raccoglie dove può; il panettiere all’angolo non manca di sganciare qualche filone raffermo ma ottimo nel latte e i protestanti contribuiscono. Nazzareno Ulfo, 44 anni, Reno per gli amici, dirige la casa editrice nissena Alfa & Omega e la Chiesa “Sola Grazia”. Vive nella campagna fuori porta, ma è messinese di orgine, il mare ce l’ha nel sangue, qui gli manca. Ama il bricolage perché così facevano gli apostoli: tutti, anche il più “intellettuale” Paolo, sapevano essere artigiani.
Ulfo è un battista riformato, cioè un calvinista doc, di quelli fedeli alla linea e al fondatore, in aperta polemica, ancorché serena, con tutti i “calvinisti” che adorano più il progressismo che il Dio dell’Antico Testamento. Ulfo e la sua Chiesa si danno un gran da fare per aiutare l’amico cattolico Maira a sfamare gli affamati; e così è tutto un andirivieni di macchine con bauli colmi e furgoncini, volontari che scaricano, immigrati che aiutano, lavoratrici romene da tempo integrate (in zona ce n’è parecchie ) che smistano. Pacchi e casse tra una conferenza e l’altra, un convegno e l’altro, un libro e l’altro.
I “famosi” Vangeli “verde Corano” circolano anche al Testasecca perché ce li ha portati il pastore Ulfo procurandoseli da ambienti evangelicali di Zurigo. Non solo il Vangelo, ma addirittura un kit. C’è infatti il volume con i sinottici e san Giovanni, poi c’è un documentario sulla vita di Cristo, una cassetta audio, opuscoletti catechistici, il tutto double-face arabo e francese confezionato in Libano.
Roba protestante; il presidente Maira l’ha passata scrupolosamente al vaglio e la fa girare con serenità. C’è dentro Gesù e solo Gesù: protestanti e cattolici possono andare d’accordo. O è una barzelletta, l’ecumenismo, oppure funziona solo nella pratica, mai nel solipsismo delle teorie, e per di più fra gente dura e pura, intransigente e conservatrice.
Il Testasecca, peraltro, istituzione nata per fare beneficienza, è cronicamente a corto di denari e rischia di chiudere. Mentre qui tutti si chiedono dove caspita siano finiti i professionisti della solidarietà e i terzomondisti ufficiali, immaginatevi cosa succederebbe se gli extracomunitari che qui imparano, lentamente, come entrare in una per loro società diversa e nuova dovessero trovarsi dall’oggi al domani in mezzo a una strada a mendicare per sopravvivere.
Chissà quanti Testasecca esistono quaggiù, perché i Testasecca fanno la differenza. Me lo dice Souad Sbai, deputata italo-marocchina del Popolo della Libertà, che della lotta a talebanismo e dintorni ha fatto una ragione di vita. Mi dice – e me lo dice prima di parlare a un gruppo di donne, Souad ha voluto una conferenza per sole donne qui al Testasecca, invitata dal deputato PdL Alessandro Pagano – che l’azione capillare svolta da mille centri così ha fatto e fa la grande differenza.
Nel Mezzogiorno d’Italia – mi ricorda – il fondamentalismo è assai limitato, a differenza del Nord dove invece imperversano gli estremisti. Già, solo ora vi faccio caso. Non ho visto nemmeno l’ombra di un chador, mentre lassù a Milano mio figlio di 5 anni mi chiese una mattina: “Ma perché quella tata è vestita fino agli occhi?”.
(A.C. Valdera)