9 Dicembre 1989
1989, crolla il comunismo? Augusto Del Noce ha qualche dubbio. Dalle macerie sta nascendo una nuova egemonia sovietica.
di Augusto del Noce
Secondo il giudizio abituale, il 1989 sarebbe stato l’anno del «fallimento del comunismo». E’ una troppo facile formula su cui conviene intendersi. Le interpretazioni correnti del comunismo sovietico si riducono alle tre seguenti: comparse già nei primi anni dell’instaurazione di quel regime, si sono certamente molto affinate, in seguito però senza mutare sostanzialmente.
La prima vi vedeva la più grande, e la definitiva rivoluzione della storia, quella destinata a sostituire il cristianesimo e a farlo perire: lo spirito dell’utopia che si faceva scienza e storia, la filosofia moderna che trovava la sua verifica, eccetera.
Né mancavano certamente, e continuano ad esistere anche oggi teologi cattolico-blochiani (da Ernst Bloch, teorico del ponte tra «ateismo marxista e cristianesimo») che vi vedevano l’avvento del Terzo regno di Gioacchino da Fiore.
La seconda parlava invece di una rivoluzione tradita (titolo della celebre opera di Trotzki). Accanto alla religione nuova, che si era corrotta nel farsi Chiesa, le sette ereticali.
C’era infine chi vi vedeva la trasformazione di un fenomeno inizialmente messianico e profetico, ultimo erede mondanizzato del messianismo ebraico, in un altro di natura esclusivamente politica. Il marxismo si realizzava inserendosi nella storia russa, in una linea che era già stata di Pietro il Grande e della grande Caterina, il cui obiettivo era l’estensione dell’impero russo verso l’Europa; arrivare al dominio di quella Europa che era il centro della Civiltà.
Si può anche dire che si tratta di tre momenti di un’interpretazione unica; il primo riguarda le speranze e le intenzioni di Marx e di Engels; l’ultimo, il risultato che le contraddice nel modo più completo: quello che doveva essere il compimento pieno dell’idea rivoluzionaria si è realizzato risolvendosi nella continuazione di ciò in cui il marxismo vedeva il massimo degli avversari, l’imperialismo zarista.
Su questa eterogenesi dei fini ci sarebbe molto da riflettere. Inoltre, queste tre interpretazioni riproducono quelle usate per la Chiesa cattolica: dai fedeli, dagli eretici, dai laici. Per quest’ultima mi viene in mente il saggio Controriforma che Benedetto Croce scrisse nel ’24 e che poi premise quale primo paragrafo nella sua introduzione alla Storia d’Italia nell’età barocca, pubblicata nel 1929: «La Controriforma non rappresentò una categoria ideale, ma la difesa di una istituzione storicamente data; e perciò potrebbe, tutt’al più, valere genericamente come simbolo dell’un’azione conservatrice, dell’abilità politica, della disciplina…».
Falsa rispetto alla Controriforma cattolica, questa definizione si adatta invece a pennello alla presente situazione del comunismo sovietico, ridotto ora alla conservazione e all’estensione del potere, dopo che sono venute meno le idee della liberazione universale e della funzione redentrice della classe proletaria. Il fatto nuovo dell’89 è l’esplicita rifondazione operata in questo senso.
Se si guarda agli aspetti profetici e messianici, e alla fede rivoluzionaria, e al mito dell’uomo nuovo, questi sono spenti da molto tempo. Lenin poteva pensare alla rivoluzione mondiale, Stalin a mantenere provvisoriamente il socialismo in un solo Paese, confidando – o contribuendo in maniera decisiva a crearne le condizioni (le eccezionali qualità di Stalin nella politica pura non sono negabili) – in quella guerra tra i Paesi capitalisti che avrebbe permesso la ripresa della rivoluzione. Ma i suoi successori?
Che speranze potevano e possono avere in una rivoluzione mondiale, in una guerra che ne sarebbe l’occasione, in un successo elettorale che per un momento parve possibile, rispetto ai Paesi occidentali, per la sola Italia? E la fede rivoluzionaria in una trasformazione mondana non può durare troppo a lungo, tanto più quando i progressi sembrano quelli dell’estensione del potere della nomenklatura, e non altri.
Pareva che al comunismo restasse, col breznevismo, la sola possibilità della mummificazione, e corrispondentemente il disagio e l’agitazione delle nazionalità. Ma l’occasione per una riunificazione si è presentata, nella prossimità dell’unificazione europea, e nella prospettiva della partecipazione a essa, come alla «casa comune».
Evidentemente il comunismo non poteva presentarsi nelle sembianze totalitarie, che erano pur sempre condizionate dalla fede rivoluzionaria. Doveva parlare della «sinistra europea e dell’ispirazione a far parte dell’Internazionale socialista; doveva rimuovere dal potere i dirigenti di vecchia formazione.
La nuova linea comporta esoneri e agitazioni dal basso nei Paesi legati alla vecchia impostazione». Ma questo rientrare nella sinistra europea comporta delle obbligazioni che sono diventate particolarmente visibili nell’antico partito comunista forte dell’Europa occidentale, l’italiano.
Parlare dunque di fallimento è ambiguo. Se si vuole riferirsi all’istallazione di un mondo affatto nuovo, sì: se invece ai rapporti di potenza nuovi da istaurare nel mondo vecchio, no; e tutto lascia pensare ad una ricerca di egemonia della Russia nella nuova Europa, sia pure sotto la forma che si suol chiamare di finlandizzazione.
Quel che succede ora in Italia è estremamente interessante. Cambiamento di nome che è anche, e soprattutto, cambiamento di sostanza. Capitolazione, parrebbe, davanti all’occidentalismo del tipo nuovo, al nuovo spirito borghese, quello che si esprime, per ricorrere ai più noto esempi, in De Benedetti e ne La Repubblica; e che, certamente, è affatto nuovo, e pienamente, rispetto a quel tipo per cui venne usato il termine cristiano-borghese e che ebbe qui in Italia il suo paradigma più esemplare sul piano mondiale nella personalità di Benedetto Croce.
Riconosciamo a Occhetto il suo nella coerenza in questa capitolazione; nell’alternativa antidemocristiana la lotta di classe deve sparire; e perciò anche il termine comunismo come quello che trae il suo significato dall’antitesi al capitalismo. Ed è difficile non provare una qualche simpatia per i suoi oppositori, perché essi una fede, anche se sbagliata, l’hanno conosciuta; non si può dir lo stesso per i politicizzati comunisti nuovi.
Ma questa della capitolazione del comunismo al neocapitalismo, pur accompagnata dai vantaggi conseguenti alla possibile alternativa è la sola via che gli si presenta? Se la prospettiva è dolorosa per coloro che avevano votato per la vita al comunismo, non lo è nemmeno per coloro che ne sono stati i più risoluti avversari.
Abbiamo parlato dell’estensione dell’egemonia sovietica che può avvenire attraverso la sinistra europea. Si chiarirebbe così il significato delle guerre di questo secolo; dall’eredità del Sacro Romano impero nell’impero asburgico si sostituirebbe la desacralizzazione dell’impero sovietico. Inoltre: il conformismo pubblicistico di oggi esalta la fine della guerra fredda; si dimentica che la guerra fredda ha rappresentato la crisi dell’organizzazione del mondo proposta a Yalta. Non si vorrebbe che la distensione presente ne realizzasse la riconferma in una prospettiva di definitività.
Dal punto di vista religioso l’accordo presente significherebbe la compitezza dell’agnosticismo, via più perfezionata delle persecuzioni per l’estinzione delle religioni.
Sarebbe però inesatto dire che questa previsione pessimistica, che corrisponde sostanzialmente alla descrizione di quella che sarebbe la situazione del mondo unificato dopo la vittoria del neocapitalismo e la riconciliazione con esso del comunismo, sia l’unica possibile.
Davanti all’evidenza della sconfitta, può darsi che una parte autorevole del pensiero comunista sia portata ad una rifondazione della critica dello spirito neoborghese, nella sua evoluzione recente: e in ciò al riconoscimento che la sola forza esistente capace di opporvisi sia il pensiero cattolico; e che questo comporti un radicale mutamento di rapporti tra cattolicesimo e comunismo.
Il dire questo non significa proposta di una ripresa del cattocomunismo; esso era un movimento che dal cattolicesimo procedeva verso il comunismo, in cui, per quel che riguarda la maggior parte dei suoi aderenti si risolse; il processo di oggi ne rappresenterebbe l’inverso.
Nell’eccellente articolo che apparve su queste colonne il 21 ottobre Massimo Borghesi ha documentato il passaggio nella pubblicistica laica, dopo una critica dura e aspra, a un idealizzamento della figura di Giovanni Paolo II, separato da tutti i movimenti cattolici e sovrapposto a essi.
Che per la maggior parte dei suoi operatori si tratti di una manovra politica diretta a distaccarlo, nell’opinione corrente, da Cl, dal cardinale Ratzinger, eccetera, è ben certo. In linea di principio tuttavia questo riconoscimento dell’universalità dell’insegnamento di Giovanni Paolo II, oltre le parti che oggi prevalgono, potrebbe essere elemento condizionante anche di un’autocritica comunista, e sarei portato a leggere un invito a un serio dialogo in alcuni articoli apparsi in tale direzione.