Rappresentanti vaticani e dotti musulmani si incontreranno a Roma in marzo prossimo per mettere a punto alcune piste per il dialogo fra cristiani e musulmani. Si rischia il vuoto o la falsità se il dialogo non affronta non solo la teologia, ma i problemi concreti delle due comunità.
di Samir Khalil Samir, sj
A sua volta, il 19 novembre scorso, Benedetto XVI ha risposto alla Lettera dei 138 aprendo a una possibile collaborazione su diversi campi. Alcune settimane fa (il 12 dicembre 2007), una lettera al card. Bertone del principe giordano Ghazi bin Muhammad bin Talal, accetta di aprire il campo alla collaborazione: fra febbraio e marzo, personalità della Curia vaticana e del mondo islamico si incontreranno a Roma per stabilire le procedure e i contenuti di tale dialogo.
Ma è possibile che il tutto si concluda con un buco nell’acqua. Mi sembra infatti che le personalità musulmane in contatto con il papa, vogliano sfuggire questioni fondamentali e concrete, come i diritti dell’uomo, la reciprocità, la violenza ecc. per arroccarsi su un improbabile dialogo teologico “sull’anima e Dio”.
Vediamo più da vicino i problemi emersi.
I. La Lettera dei 138: “Una parola comune tra noi e voi”
Nella Lettera dei 138 è piena di buona volontà: i dottori islamici dicono di voler guardare “a ciò che unisce” islam, cristianesimo e altre religioni. Essi hanno perfino fatto lo sforzo di esprimersi in modi “cristiani”, dicendo che il cuore della religione è “amare Dio e il prossimo”.
L’Islam non si esprime così. Questa è un’espressione dell’AT, ripresa da Gesù in un senso più realistico, concreto e universale nella parabola del buon samaritano (Luca 10, 23-37). Gesù dice due cose importanti: anzitutto, egli mette il primo comandamento come “uguale” al secondo (e questo non era così chiaro nemmeno nell’AT); in secondo luogo egli precisa chi è il prossimo, non il “più vicino a me” (come espresso dai dotti islamici nella loro lettera in arabo, con la parola jâr, vicino), ma quello al quale io mi faccio “prossimo”.
Il Vangelo rovescia infatti la domanda dello scriba (“chi è il mio prossimo?”) e si chiede chi si è comportato come “prossimo” del moribondo. Il prossimo è dunque ogni persona umana, anche il nemico, come era il caso del samaritano per gli ebrei.
Nel Vangelo si trovano spesso parabole in cui Gesù rovescia i valori comuni: il fariseo e il pubblicano; i pagani rispetto ai giudei; il bambino rispetto all’adulto.
Il pericolo più grosso della lettera dei 138 è nei suoi silenzi, su ciò che essa non tratta: non si accenna, ad esempio, ai problemi della comunità internazionale verso la comunità musulmana e ai problemi reali interni alla comunità musulmana.
La Umma si trova in un momento molto delicato, in una fase di estremismo e di radicalismo diffusi in una parte significativa dei musulmani, che è una forma di esclusivismo: chi non la pensa come noi è nostro nemico. Questo è evidente ogni giorno sulla stampa musulmana, e vediamo violenze e attacchi in Iraq, Iran, Pakistan, Afghanistan, fra i musulmani sunniti e sciiti, o contro cristiani o ebrei, o semplicemente contro il musulmano che è tollerante … e ci sono!
Il pericolo per l’Islam non è la violenza: questa è presente in tutto il mondo e in tutte le religioni e le ideologie. Il pericolo è di giustificare tutto questo attraverso la religione. Anche certe violenze contro le donne e i loro diritti sono giustificati con il Corano. Ad esempio, un donna musulmana non può divorziare, perché il divorzio è un diritto del marito, lei può solo chiedere il favore d’essere ripudiata da lui.
Lui, in base al Corano si può anche risposare (fino a 4 mogli) e rifarsi una vita, ma la donna, che vive separata, non ha questo diritto. Lei, una giovane sposa, si lamentava con me perché “non c’è giustizia”. Queste situazioni in cui uno si appoggia al Corano o alla sharia per escludere l’altro, sono frequenti.
II. La risposta del papa: 4 campi di collaborazione
Nella risposta del pontefice – inviata attraverso il card. Tarcisio Bertone, segretario di stato vaticano – Benedetto XVI esprime “profondo apprezzamento” per lo spirito positivo che ha ispirato la Lettera dei 138 e per l’appello a un impegno comune al fine di promuovere la pace nel mondo.
Detto questo il papa suggerisce di cercare quanto è comune. Ma gli elementi non sono identici.
Anzitutto egli fa una annotazione: cerchiamo quanto è comune “senza dimenticare le nostre differenze”. Ciò significa che per il papa vi sono differenze fra le due comunità che vanno tenute presenti, non nascoste: possiamo essere fratelli e differenti, fratelli e opposti. Questa è una regola d’oro, trattandosi di religioni e di dogmi.
Nella Lettera dei 138 si suggerisce che le cose “in comune” sono la fede in un unico Dio. I dotti islamici citano proprio il Corano quando dice “Veniamo a una cosa comune fra noi”, che richiede di non mettere nulla vicino a Dio. Ma questo è proprio detto ai cristiani, che vicino a Dio, mettono Gesù Cristo.
Per il papa “le cose comuni” esistono, ma esistono anche le differenze e bisogna tenerle presenti.
Le “cose comuni” che il papa elenca sono 3:
– la fede nell’unico Dio, creatore provvidente;
– Dio, giudice universale, “che alla fine dei tempi considererà ogni persona secondo le sue azioni” (1);
– siamo chiamati “ad impegnarci totalmente con lui e ad obbedire alla sua sacra volontà” (2) .
Il papa allora propone un’applicazione concreta: formare un gruppo di dialogo per cercare un terreno comune. Tale terreno va trovato a diversi livelli:
a) Il primo è trovare valori che garantiscano “il rispetto reciproco, della solidarietà e della pace”.
“Rispetto” qui significa anche che vi sono differenze che occorre garantire e accoglierle. Ad esempio, un musulmano può dire a un cristiano: io non sono d’accordo su quel che tu credi, che cioè Gesù ha natura umana e divina. Voi cristiani siete politeisti perché mettete affianco al Dio unico, i vostro Gesù Cristo e lo Spirito Santo, cioè altri dèi. Io dico: cerchiamo di vivere il rispetto reciproco.
Tu hai pieno diritto nel dire che la concezione islamica esclude la Trinità, la divino-umanità. Ma lasciami il diritto di poter dire ad esempio che Maometto non è un inviato di Dio. Posso riconoscere che egli è una grande personalità sul piano umano, politico, un riformatore sociale e spirituale, che ha portato anche rilievi negativi, ma non è un profeta. Ho il diritto di dirlo o no? Come tu hai diritto a dire che non credi nella divinità di Cristo – e sei coerente nella tua fede –, noi anche abbiamo diritto di dire quello che pensiamo su Maometto (3). Insomma, non esistono degli argomenti “tabù”, ma esistono solo dei modi e dei metodi tabù, perché violenti e irrispettosi.
b) L’altro livello è quello della vita umana come “sacra”. Questa dimensione etica abbraccia un campo molto largo, che va dal rigetto dell’aborto fino alla fine naturale della vita umana. Ma è inserita anche la non violenza, che è una delle forme più nobili del rispetto della vita umana. E significa anche un amore a tutte le opere della cultura e del progresso umano: per l’uguaglianza fra gli uomini, per i diritti umani: un rispetto alla vita e a ciò che la fa esprimere e fiorire.
Nel discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2006, il papa diceva: “è necessario accogliere le vere conquiste dell’illuminismo, i diritti dell’uomo e specialmente la libertà della fede e del suo esercizio, riconoscendo in essi elementi essenziali anche per l’autenticità della religione”.
Per Benedetto XVI, “il contenuto del dialogo tra cristiani e musulmani sarà in questo momento soprattutto quello di incontrarsi in questo impegno per trovare le soluzioni giuste”. Insieme ai musulmani, impegnarsi “contro la violenza e per la sinergia tra fede e ragione, tra religione e libertà”. Il fondamento è “la dignità di ogni persona umana”, espressa dai diritti umani.
A questo punto il papa suggerisce ai 138 quattro temi da affrontare:
1) diritti umani. Questo è il primo punto per fondare il dialogo;
2) conoscenza obbiettiva della religione dell’altro. Ossia conoscere l’altro per come l’altro si definisce. Il cristiano deve conoscere l’Islam per come il Corano e i musulmani odierni lo definiscono; il musulmano deve conoscere il cristianesimo attraverso i Vangeli e l’insegnamento della Chiesa (4). Una conoscenza obbiettiva è fondamentale per un reale rapporto;
3) Condivisione dell’esperienza religiosa. Questo elemento non è stato messo in evidenza finora. L’esperienza religiosa è più della conoscenza. Riconosce che anche se il dogma dell’altro, non è quello mio, egli può arricchirmi dal punto di vista umano e spirituale. Alcuni giorni fa, in volo da Beirut a Parigi, ho potuto passare 3 ore a colloquiare con un giovane africano proveniente dalla Mecca, dove aveva compiuto il pellegrinaggio. È stato bellissimo e profondo. E questo ci è servito ad apprezzare, ma anche rettificare l’immagine che abbiamo l’uno dell’altro (5).
4) Impegnarsi per educare i giovani. Se non prepariamo i giovani a vivere già oggi questo rispetto reciproco, domani ci potremmo trovare ancora in un conflitto fra noi.
Fin qui la lettera del Papa: breve, ma molto densa, segno della sua profonda riflessione.
III. La risposta al papa di Ghazi Ibn Talal: solo dialogo teologico
La risposta dei 138, a firma di Ghazi Ibn Talal, principe di Giordania, data dal 12 dicembre 2007. Dopo alcuni preamboli, la lettera dice che essi accettano l’idea del dialogo e che in marzo invieranno alcuni rappresentanti per precisare i dettagli dell’organizzazione e delle procedure.
Ma poi (al n. 4 del testo) propongono una distinzione tra intrinseco e estrinseco, e spiegano: «Per “intrinseco” intendiamo ciò che si riferisce alle nostre anime e alle loro caratteristiche interiori, e per “estrinseco” intendiamo ciò che è riferito al mondo e quindi alla società».
Essi propongono di partire dalla Lettera da loro scritta, “Una parola comune tra noi e voi”, e di concentrarsi «essenzialmente un’affermazione del Dio Unico, e del duplice comandamento di amare Lui ed il prossimo». Tutto il resto appartiene all’estrinseco, di cui fa parte anche l’impegno nella società.
Onestamente, trovo che questa distinzione sia debole e perfino non islamica. Perché se “intrinseco” è l’anima ed “estrinseco” è il mondo e la società, allora significa che il Corano parla tantissimo delle cose “estrinseche” e pochissimo delle cose “intrinseche”.
Il Corano parla del mondo, del commercio, della vita in società, della guerra, del matrimonio, ecc, ma parla pochissimo dell’anima e del rapporto con Dio. Ma soprattutto il Corano non fa mai questa distinzione. Anzi, il problema dell’Islam è proprio quello di non fare alcuna differenza fra questi due livelli. Come mai i 138 vogliono affrontare solo le cose “intrinseche”? Temo che abbiano paura di affrontare tutta la realtà delle due religioni.
La risposta di Ghazi continua: “È su questa comune base intellettuale e spirituale, quindi, che capiamo che stiamo perseguendo, Dio volendo, un dialogo sui tre temi generali di dialogo che Sua Eminenza ha saggiamente menzionato nella sua lettera:
1) “effettivo rispetto della dignità di ogni persona umana”;
2) “conoscenza obiettiva della religione dell’altro” attraverso “la condivisione dell’esperienza religiosa”; e
3) “un impegno comune alla promozione del rispetto e dell’accettazione reciproci tra i giovani”(6).
Il principe continua esortando al dialogo, citando un convegno organizzato dalla Comunità di sant’Egidio.
E infine essi si distaccano da “alcune recenti dichiarazioni provenienti dal Vaticano e da consiglieri vaticani – che non possono essere sfuggite all’attenzione di Sua Eminenza –– riguardo al principio di fondo del dialogo”. Penso che le persone a cui si riferiscono siano proprio il card. Tauran (e forse p. Christian W. Troll e me stesso), che abbiamo espresso le nostre difficoltà sulla possibilità di un dialogo teologico fra cristiani e musulmani.
Lo stesso principe dice di ritenere “inerentemente” impossibile “un accordo teologico completo tra cristiani e musulmani”, ma nonostante ciò egli desidera che il dialogo avvenga su questo piano, «“teologico” o “spirituale” o in qualsivoglia altro modo – per la ricerca del bene comune e per il bene del mondo intero, Dio volendo».
Il principe dunque riafferma il suo impegno di collaborazione sul piano teologico e spirituale. E qui vi è un’ambiguità: l’Islam, più che il cristianesimo, mescola il teologico con il politico e perfino con il militare. E loro qui pretendono di parlare solo del teologico.
Con ogni probabilità dietro il pensiero di Ghazi vi è qualche teologo. Penso a un’intervista a CNS del 31 ottobre scorso, del prof. Aref Ali Nayed riprodotta su “Islamica magazine”, che ripete: “molti teologi musulmani non sono affatto interessati a un dialogo puramente etico-sociale”; il vero “dialogo deve essere teologicamente e spiritualmente fondato”.
Alcuni mesi fa egli ha anche affermato che la sua concezione del dialogo “esclude tutto ciò che non è teologico e spirituale”. Ma onestamente non si può fare questa distinzione: non si possono non affrontare le conseguenze umane e sociali delle posizioni teologiche.
IV – Conclusione
Per riassumere, perciò, dobbiamo dire che si comincia a vedere qualche buon frutto importante per il dialogo. E bisogna ricordare che tutto è partito da Regensburg, da quella lezione magistrale che sembrava aver distrutto ogni base per il dialogo ed invece lo ha fatto risorgere.
Il discorso di Regensburg era impostato sul regno della ragione come fondamento del dialogo. Il che suppone tutto il movimento delle religione di fronte all’illuminismo, ma senza impoverire la ragione. Insomma, il fondamento di tutto non è la religione, ma la ragione umana che è ciò che è comune a tutti gli esseri umani (7).
Il discorso di Regensburg parte proprio da questo problema: come trovare un fondamento comune all’umanità e alle religioni, compreso anche l’Islam?
Nello stato moderno, il fondamento comune si esprime con la dichiarazione universale dei diritti umani, della libertà di religione, ecc… Anche nel dialogo fra cristiani e musulmani, occorre prendere questi come la base del dialogo, altrimenti non arriveremo a nulla. In passato molti teologi musulmani hanno rifiutato la dichiarazione universale dei diritti umani e ne hanno stilato una “islamica”, accusando quella “universale” di essere solo “occidentale”. Ma questo nega che vi possa essere universalità e quindi nega che possiamo avere principi comuni. Questo è il fondamento del conflitto fra il mondo islamico e l’occidente, o il resto del mondo.
Kofi Annan, invitato una volta dall’Organizzazione dei Paesi islamici aprendo un convegno, ha detto con chiarezza: non può esistere una dichiarazione “islamica”, “africana”, “cristiana” “buddista” dei diritti dell’uomo. La dichiarazione o è universale, o non può esistere.
Invece la lettera del principe al-Ghazi sembra dire che i diritti umani non importano e sono solo una questione politica. Interessa solo il dialogo teologico. Ma a cosa serve parlare del Dio unico, se non riconosco che l’uomo ha una dignità assoluta ad immagine di Dio? Che la libertà di coscienza è sacra; che il credente non ha più diritti del miscredente; che l’uomo non ha più diritti della donna; ecc..?
Bisogna affermare che l’uomo è anteriore alla religione: rispettare l’uomo viene prima del rispetto della religione. É questo l’approccio cristiano.
Non vorrei che alcuni teologi, trovandosi in difficoltà sull’affermazione della dignità di ogni uomo, cercano una via d’uscita nel dialogo teologico. Ma in questo modo si rischia di produrre solo falsità.
Ma questo è un problema interno anche all’Islam in se stesso. Finché esso non avrà basato tutto sulla persona umana e reinterpretato la fede alla luce dei diritti umani, non sarà mai moderno.
Nelle due dichiarazione islamiche sui diritti umani, si afferma spesso che l’islam ammette i diritti umani, “purché siano conformi alla legge”. A un lettore ingenuo che legga la traduzione in inglese, questo potrebbe andare anche bene. Il punto è che quanto riportato nelle traduzioni inglesi come “legge”, nelle stesure delle dichiarazioni in lingua araba sono tradotte come “conformi alla sharia”. Ciò significa che i diritti umani “islamici” rischiano di riproporre le solite ingiustizie e violenze: apostasia, blasfemia, lapidazione, ingiustizie verso le donne e i figli, ecc… (8) .
Certo, il dialogo interreligioso non può essere concentrato solo sui diritti umani, ma non può nemmeno fare come se non ci fosse un grave problema proprio su questa realtà.
Mi sia permesso per concludere citando un passo della lettera di san Giacomo (2, 14-26), anche se un po’ lungo. Nel nostro contesto mi pare assai importante, sia per la domanda del versetto 19, sia perché fa l’esempio di “Abraham, l’amico di Dio” (Khalil Allah, come diciamo in arabo), così rispettato dai musulmani:
[14] Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? [15] Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano [16] e uno di voi dice loro: “Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi”, ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? [17] Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa. [18] Al contrario uno potrebbe dire: Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede. [19] Tu credi che c’è un Dio solo? Fai bene; anche i demòni lo credono e tremano! [20] Ma vuoi sapere, o insensato, come la fede senza le opere è senza calore? [21] Abramo, nostro padre, non fu forse giustificato per le opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull’altare? [22] Vedi che la fede cooperava con le opere di lui, e che per le opere quella fede divenne perfetta [23] e si compì la Scrittura che dice: E Abramo ebbe fede in Dio e gli fu accreditato a giustizia, e fu chiamato amico di Dio. [24] Vedete che l’uomo viene giustificato in base alle opere e non soltanto in base alla fede. [25] Così anche Raab, la meretrice, non venne forse giustificata in base alle opere per aver dato ospitalità agli esploratori e averli rimandati per altra via? [26] Infatti come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta.
Note:
1) Che saremo giudicati sulle azioni, sui fatti, è un pensiero comune a cristiani e musulmani. Il Corano parla di «coloro che credono in Dio e nell’Ultimo Giorno e compiono il bene» (2:62 = 5:69). Ma ciò significa che c’è un’etica – che può essere anche comune. Costruire un’etica comune sarebbe una cosa molto importante. Già in passato si è avuto qualcosa di simile. Alla Conferenza Onu del Cairo sulla popolazione e lo sviluppo, nel 1994, il Vaticano ha votato con i paesi islamici. Diversi ambasciatori hanno criticato la Santa Sede perché andava con gli integralisti. In realtà su questioni di diritto alla vita, cristiani e musulmani convergono. Lo stupore viene solo dall’occidente secolarizzato, che ha creato un’etica relativista, che lascia decidere all’individuo, in modo soggettivo, ciò che è bene e ciò che è male. Questo punto esige un lavoro urgente e grande.
2) Quando si dice questo, il musulmano si trova perfettamente a suo agio perchè l’obbedienza è la struttura di vita dell’uomo islamico, è l’abbandono alla volontà di Dio, l’islâm. E anche per il cristiano, la dedizione a Dio (e agli uomini) è un ideale grande. Ma su questo punto è necessario allargare e precisare il discorso: cosa significa siamo chiamati “a dedicarci totalmente”? Per un estremista islamico, dedicarsi a Dio potrebbe significare anche uccidere, mettere una bomba, farsi saltare in aria. Anche qui risalta una differenza fra cristiani e musulmani, su cui è necessario impegnarsi: la non-violenza è una scelta spirituale, non politica.
3) Su questo punto noi cristiani nel mondo arabo soffriamo tanto, perchè non ci è lecito dire davvero quello che pensiamo. Spesso i musulmani ci chiedono “uno scambio di favori”: noi crediamo che Gesù è un profeta, voi dovete credere che Maometto è un profeta.
4) in questa conoscenza obbiettiva reciproca, il pericolo maggiore lo corrono i musulmani. Essendo l’islam venuto dopo del cristianesimo, e essendoci nel Corano riferimenti a Gesù, a Maria, e ai cristiani, molto spesso i musulmani non fanno la fatica di conoscere il cristianesimo per come i cristiani si comprendono, ma si accontentano di quello che dice il Corano. I cristiani, invece, per scoprire l’Islam hanno solo la possibilità di conoscerlo leggendo il Corano.
5) Questo significa che possiamo condividere la religiosità senza rinunciare ai nostri principi. Si può anche pensare di pregare insieme. Tante volte in passato si è fatta la critica a Ratzinger che era negativo sugli incontri di Assisi, dove dal 1986, personalità religiose si sono incontrati a pregare. La polemica che è scaturita tante volte era se persone di diverse religioni potevano pregare insieme. La posizione dell’allora card. Ratzinger era che bisognava evitare tutto ciò che poteva suggerire confusione o sincretismo. Ma pregare insieme, come l’ha fatto il papa a Istanbul nella moschea, è il massimo del rispetto e del dialogo.
6) Va notato che essi non si sono accorti che i punti citati dal papa sono 4 e non 3: la condivisione dell’esperienza religiosa, nel testo del papa, è un 3° punto.
7) Su questo fatto, la teologia islamica del X secolo aveva le idee molto chiare e rispettava un fondamento comune a tutti gli uomini. Poi il mondo islamico si è rinchiuso sempre di più, perfino contro i musulmani razionalisti (come Averroé).
8) Vale la pena domandarsi anche quanto peso ha avuto la Lettera dei 138 nel mondo islamico. Nel campo degli esperti vi è stata una crescita dell’assenso: da 138 firmatari si è passati a 216. Ma nella popolazione non è passato nulla. Io ho visto solo pochi articoli in lingua araba, su giornali arabi e islamici. Nessuno di essi faceva un’analisi del contenuto della lettera dei 138. Alcuni davano solo la notizia bruta, altri raccontava solo che cristiani e musulmani volevano incontrarsi sulla fede del Dio unico. Non si può dire quindi che questa lettera abbia mosso il mondo islamico.
(A.C. Valdera)