di Angelo Panebianco
Ciò che accade in Italia, il nuovo grande scontro sulla questione dell’aborto, può essere interpretato in vari modi.
Se ne ho capito il senso, lo scopo della campagna per la moratoria sull’ aborto lanciata dal direttore del Foglio Giuliano Ferrara è davvero ambizioso: non quello, come pensano i poveri di spirito, di «attaccare la 194», la legge sulla interruzione della gravidanza.
Ma quello, niente meno, di favorire una rivoluzione culturale, al termine della quale l’aborto torni a essere considerato dalla coscienza pubblica, anziché «un diritto della donna, fondamento di una maternità consapevole», come una riprovevole forma di soppressione della vita, e la legge sull’interruzione della gravidanza (da mantenere) ciò che in effetti era, in origine, per gli stessi che la vollero: il «male minore», il solo mezzo per impedire il ritorno di mammane e aborti clandestini.
Si tratterebbe di una rivoluzione culturale perché andrebbe a colpire in uno degli snodi più delicati una certa «ideologia della modernità». Quella campagna, sostenuta anche da qualche non credente, è inevitabilmente in sintonia con le aspirazioni della Chiesa e di gran parte del mondo cattolico. E sta attraversando con la potenza di un ciclone il campo, già da tempo sconvolto, degli equilibri fra poteri secolari e potere religioso. Con ricadute sull’intero arco delle forze politiche italiane.
A seconda della loro natura e collocazione le forze politiche italiane corrono, in questa temperie, rischi diversi. Quelle di destra corrono il rischio dell’«eccesso di zelo» (lo ha rilevato un politico cattolico accorto come Pier Ferdinando Casini). Per debolezza culturale o calcoli sbagliati le forze di destra rischiano di appiattirsi sulle posizioni dell’intransigentismo cattolico perdendo di vista che loro compito (e della politica in genere) dovrebbe essere la ricerca di un punto di equilibrio fra mondo cattolico e mondo laico.
Il rischio più grosso, però, lo corre il Partito democratico (i mezzi silenzi e le incertezze di Walter Veltroni sono significativi). Semplicemente, sta andando in pezzi la «ragione sociale» vera che sta dietro alla costituzione di quel partito, ossia l’incontro fra gli eredi della tradizione comunista e gli ultimi adepti del «cattolicesimo democratico » (l’ex sinistra democristiana e dintorni).
Nonostante ciò che piacerebbe al suo leader, il Partito democratico non è (non è ancora?) un equivalente italiano del Partito democratico americano: se lo fosse, il partito non avrebbe respinto a muso duro il tentativo di ingresso di Marco Pannella.
È invece il punto di approdo di una lunghissima storia di contatti e valutazioni convergenti su un ampio arco di questioni pubbliche fra comunisti prima, ed ex comunisti poi, e la sinistra democristiana. È questo il cosiddetto «incontro di culture diverse» che sta alla base del Partito democratico. Un incontro che doveva essere reso possibile dalla comune sensibilità per la lotta alle «ingiustizie sociali», maturata nella lunga fase in cui per i cattolici (dopo il Concilio Vaticano Secondo) non sembrava esserci altro spazio se non quello assicurato dalla loro accettazione dello spirito del tempo.
Ma due fatti hanno inceppato il meccanismo. Il primo è dato dalla circostanza per cui, in un assetto bipolare, un partito a vocazione maggioritaria non può restringere, pena il suicidio elettorale, il suo bacino di influenza nel mondo cattolico al solo ambito dei cattolici democratici. Con inevitabili contraccolpi.
Il «caso Binetti» è rivelatore: la mite senatrice, una cattolica senza legami con il cattolicesimo democratico, ha oggi sottratto a Berlusconi il ruolo di personaggio più dileggiato dalla sinistra italiana. Il secondo fatto è dato dalla circostanza per cui, nel nuovo clima culturale, i cattolici democratici sono ormai sulla difensiva entro il mondo cattolico. Il loro futuro politico non appare più molto roseo. Il fallimento dei «Dico» (punto di equilibrio fra le due culture e vera «carta dei valori» del Partito democratico) è stato premonitore, anche se pochi ne hanno colto subito il significato.
La difficoltà del Partito democratico sta nel fatto che esso deve cambiare cavallo, modificare la propria ragione sociale, o rischiare il fallimento. E ricordo che l’eventuale fallimento del Partito democratico sarebbe un dramma per il sistema politico: bloccherebbe la ricomposizione, a sinistra come a destra, del nostro spappolato sistema dei partiti, manderebbe alla deriva la nostra già provata democrazia.
Tocca all’immaginazione e all’energia del leader, Veltroni, trovare una via d’uscita. La via d’uscita, forse, è un vero partito americano: nel quale abortisti e antiabortisti, mangiapreti e clericali, socialisti e liberali, cattolici conciliati con i cosiddetti tempi e cattolici contro possano combattersi, anche aspramente, senza che ciò minacci la sopravvivenza del partito.
Ciò richiede però un contesto istituzionale, quello proprio delle democrazie maggioritarie, con un ruolo deterrente contro le scissioni. Tutto si tiene. Una riforma elettorale «maggioritaria» è, fra le altre cose, l’unica possibilità residua per consentire al Partito democratico di sopravvivere alla fine del sogno che lo ha fatto nascere: l’incontro fra due culture
(A.C. Valdera)