Ag. Zenit (ZENIT.org) martedì,
23 giugno 2009
Mostra al Meeting di Rimini sulla storia delle riduzioni gesuitiche del Paraguay
ROMA, Dalla fine del 1500 fino alla metà del 1700, l’incontro tra i gesuiti e gli indios guaranì del Paraguay ha dato vita a un sistema giudiziario, un’organizzazione della sanità e della vita urbana e un’economia senza precedenti.
Nel Natale del 1609 sorse la prima “riduzione” della Compagnia di Gesù ad opera di San Ignacio Guazú, a sud dell’attuale Asunción. Molte altre se ne aggiunsero in seguito, tanto da arrivare a costituire un sistema produttivo capace di sostenere più di 140 mila persone in 30 riduzioni. Da questa esperienza ebbero origine anche opere artistiche di ottima fattura, nate sotto la guida di famosi artisti europei, come Brassanelli o Primoli, così come imponenti basiliche i cui resti sono conservati a Trinidad e Jesus, in Paraguay o a San Ignazio Minì in Argentina.
A goderne fu anche il progresso scientifico, come dimostrano gli scritti di padre Bonaventura Suarez, che nella foresta, lontano dalla civiltà del tempo, riuscì a creare un osservatorio astronomico. Per conoscere la storia di queste riduzioni gesuitiche del Paraguay basterà visitare la mostra dal titolo “Una vita felice per Dio e per il Re” che verrà allestita in occasione della trentesima edizione del Meeting per l’Amicizia fra i popoli, in programma a Rimini dal 23 al 29 agosto prossimi.
L’esposizione si sviluppa dentro questi luoghi, ripercorrendone la storia e mostrandone lo svolgimento della vita quotidiana attraverso fotografie, pannelli e video, permettendo anche di ascoltare la musica e le diverse opere artistiche nate nelle riduzioni. In una intervista a “Meeting”, padre Aldo Trento, missionario della fraternità San Carlo Borromeo ad Asunción, in Paraguay dal 1989, nel parlare della concezione della vita negli indios guaranì ha affermato che “per loro Dio, Tupa, era colui che aveva creato l’uomo immortale”.
In seguito, ha aggiunto, “all’arrivo della vipera la terra era stata contaminata e il guaranì era diventato mortale. Da quel momento essi avevano incominciato a peregrinare alla ricerca della terra senza il peccato”. “All’annuncio dei missionari che la terra senza il male era la Vergine Maria dalla quale era nato il fiore della passione simbolo di Cristo, i guaranì avevano aderito spontaneamente al cristianesimo perché era il compiersi della attesa del cuore”, ha spiegato.
“Il punto di evangelizzazione dei gesuiti – ha sottolineato – era che gli indios incontrassero l’avvenimento di Cristo e non la morale cristiana, perché la morale cristiana cozzava contro una concezione cannibalistica e poligamica della vita”. La crisi delle riduzioni, tuttavia, iniziò con il regno dei Borbone “che trattavano l’America Latina come una sorta di loro giardino”, ha spiegato padre Trento.
E “mentre tutti gli altri dovevano importare dall’Europa, l’opera gesuitica aveva raggiunto il suo massimo splendore. Producevano dieci volte più di quello che mangiavano, quindi esportavano e avevano flotte mercantili”. “Per cui alcuni gruppi organizzati, non potendo sopportare quello che si era generato dalla fede, avevano atteso l’occasione giusta e cercato la motivazione per eliminarli, e l’accusa più grande era stata quella di aver cercato di creare una monarchia”, ha raccontato il missionario.
In questo contesto, ha aggiunto, ha inoltre avuto origine la leggenda nera delle conversioni forzate degli indios. Tuttavia, si è domandato padre Trento, “come avrebbero potuto dei missionari, un sacerdote e dei fratelli laici tenere in piedi un territorio più grande della Francia se quegli indios fossero stati obbligati?”.
“Come avrebbero potuto degli indios convertiti forzatamente – si è chiesto ancora – esprimere quell’arte, quell’architettura, quella pittura, quelle sculture cui perfino Voltaire, Chateaubriand, Montesquieu hanno dovuto inginocchiarvisi davanti?”.
Inoltre, ha spiegato, “all’interno delle riduzioni non tutti erano battezzati: i gesuiti facevano una battaglia contro gli altri evangelizzatori, non si dovevano battezzare gli indios se non ne erano coscienti. Quindi si pretendeva una coscienza di quello che era l’avvenimento cristiano, almeno nelle linee essenziali”. Ed “è impressionante – ha continuato – leggere i diari dei gesuiti del tempo da cui trapela la passione per la gloria di Cristo. Era gente innamorata di Cristo e a loro non importava fare strutture, esse crescevano perché cresceva la coscienza di Dio come colui che fa la realtà”.
“D’altra parte come avrebbe potuto un indio, che è fatalista e a cui non importa niente del lavoro, fare quelle opere d’arte se non ci fosse stata una passione grande, immensa per Cristo? Sarebbe stato impossibile”, ha concluso.
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