Il progressivo disancoraggio della legge positiva dalla legge divina e naturale – processo che caratterizza nell’età moderna lo sviluppo della legislazione civile e della scienza del diritto e dello Stato – mette in crisi l’indissolubilità, sottoponendo il matrimonio al pieno dominio della volontà mutabile dei contraenti, e quindi al diritto della revoca, cioè al divorzio.
di Graziano Borgonovo
Tale proprietà essenziale, che qualifica l’identità stessa del matrimonio, corrisponde alle esigenze primarie dell’amore, perché è l’espressione dell’amore sponsale, totale e incondizionato nella sua natura. “Il dono della persona esige per sua natura di essere duraturo ed irrevocabile.
L’indissolubilità del matrimonio scaturisce primariamente dall’essenza di tale dono: dono della persona alla persona. In questo vicendevole donarsi viene manifestato il carattere sponsale dell’amore“, aveva già scritto il Papa nella Lettera alle Famiglie (n. 11). È proprio la totalità della reciproca donazione/accettazione personale, caratteristica dell’unione coniugale, a richiedere l’indissolubilità del matrimonio.
La donazione integrale comprende infatti la temporalità della persona. Se si escludesse la dimensione temporale della donazione non ci sarebbe più il dono totale della persona e pertanto neanche l’amore sponsale. Non è perciò sull’intensità variabile dell’amore, ma sulla mutua donazione dell’alleanza coniugale – così come sul bene della persona dei figli – che si fonda l’indissolubilità del matrimonio.
L’atto fondante del matrimonio è il patto coniugale, cioè l’irrevocabile e reciproco consenso personale, con cui “i coniugi mutuamente si danno e si ricevono” (Gaudium et Spes, n. 48). Nel patto i contraenti “si uniscono”; nel matrimonio – inteso come vincolo coniugale – “rimangono uniti”.
Se il matrimonio si confondesse con il patto, cioè con il suo atto fondante, sarebbe suscettibile di cambiamenti ogni volta che i coniugi decidessero di mutare il consenso. Invece, il consenso, una volta prestato, diventa irrevocabile – perché implicante il dono totale della persona – , e da quel momento si instaura il vincolo come una realtà stabile e permanente. Il consenso non ha in seguito alcuna forza per mutare la realtà oggettiva e giuridica (del matrimonio) che pure ha creato. Il patto coniugale è il momento fondante, unico e irripetibile. Per l’unico consenso delle due distinte volontà, i coniugi diventano una sola carne (una caro), ciò che corrisponde alle esigenze proprie dell’amore sponsale.
“Da un punto di vista giuridico, la tesi del divorzio e quella dell’indissolubilità del matrimonio affondano le radici in due differenti concezioni della libertà, tali da indurre rispettivamente a negare o ad affermare la possibilità stessa di un patto irrevocabile. In fondo, tutto il dissidio poggia sulla considerazione se la libertà impedisca o, al contrario, giustifichi l’esigenza, giuridicamente tutelata, della mutua fedeltà dei coniugi” [A. de Fuenmayor, Ripensare il divorzio, Ares, Milano 2001, p. 20].
Di contro alla possibilità di donazione permanente inscritta nella natura della libertà, molti, “ai nostri giorni, ritengono difficile o addirittura impossibile legarsi ad una persona per tutta la vita” (Familiaris consortio, n. 20). Dalla cultura secolarizzata contemporanea, l’uomo viene inteso come una soggettività individuale, un essere incapace di “dare se stesso”, dal momento che ciò comporterebbe la negazione della libertà, intesa come possibilità di continua e persistente negazione.
Paradossalmente, questa concezione della libertà nega all’uomo la possibilità stessa di raggiungere ciò a cui è chiamato e verso cui tende con la posizione di atti liberi: l’amore personale, la comunione e, in ultima analisi, la trascendenza. Ciò che rappresenta la miglior cartina di tornasole (perché fornita dalla stessa struttura elementare dell’esperienza umana) per smascherare il carattere menzognero di tale idea di libertà.
Il progressivo disancoraggio della legge positiva dalla legge divina e naturale – processo che caratterizza nell’età moderna lo sviluppo della legislazione civile e della scienza del diritto e dello Stato – mette in crisi l’indissolubilità, sottoponendo il matrimonio al pieno dominio della volontà mutabile dei contraenti, e quindi al diritto della revoca, cioè al divorzio.
È necessario e doveroso lo sforzo della Chiesa di ribadire continuamente, da una parte, l’origine divina, e dall’altra parte, il carattere naturale del matrimonio. La legge civile non potrà mai modificare la struttura fondamentale del matrimonio, perché ciò implicherebbe la soppressione della struttura stessa di dono inscritta nella natura propria dell’essere personale.
All’invito del Papa di promuovere iniziative “rivolte al riconoscimento pubblico del matrimonio indissolubile negli ordinamenti giuridici civili […], mediante provvedimenti giuridici tendenti a migliorare il riconoscimento sociale del vero matrimonio nell’ambito degli ordinamenti che purtroppo ammettono il divorzio” (Udienza alla Rota Romana, cit., n. 9), si può forse ricondurre la suggestiva proposta di recente rilanciata da Amadeo de Fuenmayor e relativa alla tutela dell’indissolubilità matrimoniale in uno Stato laico pluralista.
Si tratta, in sostanza, di poter “dotare di tutela giuridica l’impegno matrimoniale di coloro che hanno rifiutato, per tutta la loro vita, il fantasma del divorzio. Si tratta di accordare protezione legale a quanti desiderano progettare la propria unione in un orizzonte senza ombre, a quanti vogliono vedere tutelata civilmente l’irrevocabilità del proprio patto coniugale”.
E questo perché, “quando il legislatore civile stabilisce una normativa divorzistica e, in forza del principio di uguaglianza, la applica a ogni matrimonio, egli in verità non sta ottemperando al principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, sebbene da un superficiale esame potrebbe sembrare il contrario” [Ibid., pp. 24-26].
La residua “libertà-di-non-divorziare” concessa a chi rifiuta il divorzio si rivela insufficiente perché, di fatto, “c’è chi vuole contrarre un matrimonio indissolubile assumendosene tutte le conseguenze, come del resto la legge stessa riconosce come regime ottimale. L’unica soluzione degna di una società pluralista è quella di un doppio regime di matrimonio civile, uno dissolubile, l’altro indissolubile, che i coniugi devono scegliere al momento di contrarre il matrimonio”.
Che una soluzione simile risulti “avversata dai divorzisti, perché in tal modo il matrimonio divorziabile verrebbe immediatamente percepito come un matrimonio di serie B, implicitamente ammettendo che l’indissolubilità è una caratteristica intrinseca dell’autentico matrimonio “naturale”” [C. Cavalleri, Echi dal Giubileo. Quale eredità per la famiglia, in: G. Borgonovo (a cura di), Quo vadis familia? La famiglia ieri, oggi e domani, Piemme, Casale Monferrato 2001, p. 102], appare oltremodo sintomatico.
Lungi dal rappresentare l’ideale ultimo di riferimento, tale ipotesi di “doppio regime di matrimonio civile” sembra costituire una pista giuridica percorribile nel contesto delle “leggi imperfette”, tipiche di una società pluralista [Cfr. A. de Fuenmayor, op. cit., pp. 72-76 e 92-96, così come AA.VV., I cattolici e la società pluralista. Il caso delle “leggi imperfette” (a cura di J. Joblin e R. Tremblay), ESD, Bologna 1996, volume che raccoglie gli atti del Simposio organizzato in Vaticano dalla Congregazione per la Dottrina della Fede il 9-12 novembre 1994].