di Gustave Thibon
Un avventuriero aspira al potere supremo, il “proletariato” vuole spazzar via le classi dominanti, i popoli “poveri e dinamici” sentono di possedere tutti i diritti nei confronti dei loro vicini ricchi. Naturalmente, si sono inventati, per giustificare questa malattia vergognosa, dei vocaboli pieni di grandezza: il povero attacca il ricco in nome del “diritto all’esistenza”, il fisiologicamente tarato che vuole sposarsi in dispregio a ogni dovere si appella al suo “diritto all’amore”, le nazioni conquistatrici sbandierano la teoria dello “spazio vitale”. Ma queste grosse parole non servono che a rendere più ripugnante l’egoistica realtà che nascondono.
Come tutte le aberrazioni umane, queste aspirazioni insensate possiedono tuttavia un fondamento nella realtà. L’egualitarismo – e consideriamo questa definizione come fondamentale – rappresenta la caricatura e la corruzione del senso dell’armonia e della unità sociale. Una critica seria dell’egualitarismo implica pertanto uno studio preciso delle condizioni di tale armonia e unità. Non si può definire una malattia che in funzione della salute.
Le ineguaglianze naturali e le ineguaglianze sociali.
Se gli uomini sono tutti uguali in quanto uomini, essi però incarnano, per così dire, a gradi molto diversi, l’essenza umana. Basta mettere a confronto fra di loro gli individui, i popoli e le razze per constatare una moltitudine pressoché infinita di ineguaglianze naturali. Gli uomini nascono ineguali in salute, in forza fisica, in intelligenza, in volontà, in amore, ecc.. Una tale ineguaglianza presenta un carattere di necessità assoluta: non v’è possibilità di scampo o di rimedio; se si tratta di un male, quel male è incurabile.
Così quell’ineguaglianza è ammessa da tutti gli spiriti sani, non solo di fatto ma di diritto. Vicino a queste ineguaglianze naturali fra gli uomini si può osservare l’ineguaglianza delle funzioni e dei privilegi inerenti alla gerarchia sociale. Gli uomini non hanno la stessa posizione nella società e sono inugualmente potenti, inugualmente ricchi, ecc.. E qui si impone una osservazione capitale: queste ineguaglianze sociali non sono ricalcate sulle ineguaglianze naturali; anzi, è raro che gli esseri meglio dotati dalla natura siano anche quelli che esercitano il potere o detengono la ricchezza.
Questo stacco fra i doni naturali e la missione sociale è espresso in modo esatto dalla Scrittura: “Ho anche visto sotto il sole che la corsa non è degli agili, né la guerra dei valorosi, né il pane dei saggi, né la ricchezza degli intelligenti, né il favore dei sapienti, poiché tutto è legato, per essi, al tempo e alle circostanze”.
Si può facilmente capire come un tale margine di contingenza fra le capacità naturali degli uomini e la loro posizione sociale abbia ispirato seri dubbi sulla legittimità di certe ineguaglianze. Nessuno può nulla contro il fatto che di due uomini l’uno sia forte e l’altro debole, l’uno intelligente e l’altro sciocco; invece si avverte istintivamente che la differenza per cui l’uno è principe e l’altro plebeo, l’uno ricco e l’altro miserabile non ha davvero nulla di fatale, e che in un buon numero di casi il rapporto potrebbe essere invertito senza danno. Ciò solleva un’altra questione.
Problema dell’ineguaglianza artificiale.
Gli spiriti semplicisti sono portati a considerare le ineguaglianze sociali come artificiali. Occorre intendersi sul senso di quest’ultima parola. Se s’intende dire con ciò che le differenze sociali non s’impongono con il peso della necessità primordiale e diretta che caratterizza le differenze naturali, e che esse son in parte l’opera dell’uomo, come una casa, un poema, un campo coltivato, ecc., siamo d’accordo. Ma se artificiale vuol significare fittizio, irreale e, per conseguenza, illegittimo e meritevole di distruzione, facciamo molte riserve. La natura umana infatti implica la vita in società e la vita in società la gerarchia e le sue differenze.
L’artificiale delle ineguaglianze sociali rappresenta una forma di naturale in secondo grado: è il prodotto spontaneo della natura di un essere fatto per creare e organizzare. Capisco benissimo, potrà controbattere l’egualitaria; e per questo non il principio delle ineguaglianze sociali intendo denunciare come artificiale, ma il fatto che tali ineguaglianze appoggino così poco sulle differenze naturali. Ciò che è ingiusto, e che bisogna distruggere, è uno stato sociale, in cui viene osservato un simile divorzio fra le capacità degli uomini da un lato e la loro missione e i loro privilegi dall’altro. L’argomentazione non è sufficiente.
Una differenza di posizione sociale o economica fra due uomini non merita di essere condannata per il solo fatto che non s’appoggia su una ineguaglianza naturale. Un cittadino dotato può sempre dirsi a ragione, di fronte agli errori di quel monarca o di quel finanziere: “Perché non io? Userei meglio di quell’uomo del potere o della fortuna”. Ma la risposta è facile: Di quale mezzo disponete per entrare in possesso di quel potere o di quella fortuna? Possedete una ricetta infallibile per condurre automaticamente “i più degni” al sommo della scala sociale? Se è così, le vostre rivendicazioni sono legittime.
Rousseau, segnalando non senza ragione, nel Contratto sociale, le carenze del sistema ereditario, aggiungeva che la democrazia elettiva avrebbe quasi necessariamente conferito il potere al meglio della nazione. Ahimè! basta dare uno sguardo ai nuovi padroni che ci ha largito ormai da più di un secolo quel sistema elettorale da cui si attendeva l’età d’oro, per constatare che la scissura tra le ineguaglianze umane e le ineguaglianze sociali non tende affatto a restringersi. Gli accidenti del strugle for life si sono rivelati ancor più disastrosi di quelli del sistema ereditario… Sarebbe certamente augurabile che la gerarchia sociale si basasse sulla gerarchia naturale. Ma una simile armonia rappresenta un ideale verso il quale una società sana deve tendere incessantemente senza mai sperare di realizzarlo pienamente.
Se bastasse, per respingere un sistema sociale, constatare che non conduce necessariamente i migliori ai primi posti, tutte le forme di società dovrebbero essere eliminate in blocco… Rimane tuttavia il fatto che i diversi sistemi sociali sono inugualmente imperfetti, e, fatta giustizia delle esagerazioni egalitarie, rimane altresì il fatto che vi è molto di artificiale, nel senso peggiore del termine, nelle ineguaglianze sociali. Per cui il problema si sposta in questo senso: cos’è una ineguaglianza artificiale?
L’ineguaglianza organica e l’ineguaglianza anarchica.
Non sappiamo se l’ultimo sovrano di Bisanzio, Costantino Dragases, che si fece uccidere sugli spalti della sua città dopo una difesa eroica, fosse, tra gli innumerevoli abitanti del suo impero, il più degno del potere supremo; e non sappiamo neppure se il più ricco proprietario del nostro villaggio, che lavora lui stesso e fa lavorare numerosi operai, “meriti” in modo speciale la sua fortuna economica. Ma sappiamo bene che né l’uno né l’altro godono di privilegi artificiali: li sentiamo a posto, servono a qualche cosa: il primo faceva il suo mestiere di re, il secondo fa il suo mestiere di ricco.
Se pensiamo, al contrario, a certo monarca moderno che abbandona il suo popolo dopo averlo esortato a combattere sino all’ultima goccia di sangue o a certo “fortunato” vincitore della lotteria nazionale immerso in un lusso o in piaceri imbecilli, abbiamo l’impressione nettissima che quei due uomini sono stati l’oggetto di un favore assurdo del destino: non sono a posto, non servono a nulla, non fanno il loro mestiere… E’ chiaro: l’ineguaglianza delle posizioni e dei privilegi diventa fittizia e ingiusta nella misura in cui essa non corrisponde più all’ineguaglianza delle “missioni”, delle cariche e delle responsabilità.
Un re che “lascia cadere” il suo popolo pensando che all’estero ci sono ancora palazzi e casinò dove la vita è piacevole, è un cattivo re; un ricco che non redime la sua fortuna economica, sia con iniziative benefiche, sia con quella distinzione e quel lusso dei sentimenti che talora l’ozio materiale favorisce, è un cattivo ricco.
Allorché non sappiamo qual signore medioevale diceva, per spiegare la differenza fra un gentiluomo e un tanghero, che, posti l’uno e l’altro fra la morte e il disonore, il tanghero opta per la vita, e il gentiluomo per la morte, sommariamente definiva il principio di una sana uguaglianza: il rischio vicino al privilegio, il rischio corrispettivo del privilegio… Sventuratamente, è tendenza naturale dell’egoismo umano ricercare i privilegi senza i rischi e i pesi.
Ci si vuole innalzare non già, come sarebbe legittimo, per meglio donarsi e impegnarsi, ma per meglio disimpegnarsi, per potersela cavare a buon mercato! Si fa combinare in forma paradossale la sete di emergere con il desiderio di mettersi al coperto: si vuol essere tanto più al sicuro quanto più si è in alto, il che, propriamente, è un assurdo. E le ineguaglianze create da tale atteggiamento sono anarchiche per essenza; come il piacere sessuale separato dalla funzione procreatrice, non hanno alcuna finalità collettiva; possono assomigliarsi a corpi estranei nell’organismo sociale.
Tale culto della falsa ineguaglianza e dell’ascesa senza merito né sacrificio, necessariamente va di pari passo con il culto del denaro. In una società sana, la sorte personale dei capi e dei potenti è legata a quella degli uomini che governano o dei beni che possiedono: il principe fa corpo col suo popolo, il padrone con la sua terra, ecc.; la felicità e la sicurezza di questi uomini dipendono in gran parte dal compimento del loro dovere sociale. Il ricco, all’opposto (in quanto detentore di moneta anonima), non è inserito in nessuna funzione precisa nella società: qualunque sia la sua abdicazione, la sua rinunzia nei confronti dei suoi doveri sociali, godrà dovunque degli stessi privilegi e della stessa sicurezza. Si pensi ai re in esilio, ai finanzieri cosmopoliti, e magari ai piccoli rentiers egoisti…
L’ineguaglianza artificiale consiste dunque anzitutto nella ineguaglianza finanziaria, senza correttivo né base funzionale. Una società si dichiara malsana nella misura in cui tende a fondare la sua gerarchia sulla diversità morta delle fortune economiche (8), a detrimento della differenza vivente delle funzioni. Tale tendenza fu, come si sa, la caratteristica indelebile della società capitalistica…
Riassumendo: perché un’ineguaglianza sociale sia legittima, non è necessario che sia ricalcata su una differenza di valore personale (l’ideale del right man in the right place, si presenta come un asintoto…), ma basta che ciascuno eserciti una funzione organica e serva meglio che può, nel suo ordine, il bene collettivo.
Sorgente del falso egualitarismo.
Ci sia permesso ora una breve divagazione psicologica sulle radici del terribile istinto di uguaglianza che sconvolge la società. Il primo riflesso dell’egualitarismo è questo grido: perché io no? Da quale stato d’animo sorge? Prendiamo un uomo qualunque, che invidia la sorte di un grande personaggio e dice a sé stesso: come vorrei essere al suo posto! Che cosa invidia a quel destino privilegiato? Gli impegni, i rischi e l’austera gioia di servire (per la maggior parte del suo tempo quel tale non ci pensa neppure), o piuttosto il prestigio, la fortuna e tutte le possibilità di piacere e di agio che nel suo pensiero fanno tutt’uno con la posizione del personaggio invidiato?
La risposta è troppo facile… L’istinto egalitario ha le stesse sorgenti dell’istinto edonistico, è il segno della medesima decadenza. L’edonismo infatti nasce da un processo di disgregazione affettiva per il quale la sete della felicità, naturale in tutti gli uomini, si separa dalla sete di agire, di donarsi, di lottare, dallo slancio verso la virtù, nel senso etimologico e generale del termine. Nell’uomo sano, questi due istinti sono strettamente legati l’uno all’altro: la felicità è il coronamento dello sforzo e del dono, ingrandisce in funzione della perfezione acquistata.
Il decadente, all’opposto, non associa l’idea di felicità a quella di perfezione e di ascensione; non conosce altra perfezione che il godimento e la sicurezza: Dio, per lui, non è purezza, ma facilità e riposo. Così, per poco che la sua posizione sociale sia inferiore, egli è spontaneamente egualitaria: in questo ordine della felicità materiale e del rifiuto di servire, che solo esiste per lui, e di fronte a privilegi senza la missione, di privilegi che permettono la sine-cura, l’ultimo degli uomini può legittimamente ambire i posti più alti.
Di fronte al denaro, soprattutto: ognuno si sente degno di essere l’eletto di questa divinità anonima, ognuno si sente capace, in definitiva, di godere e di non far nulla! D’altronde, non è effetto del caso che le epoche in cui il primato sociale è devoluto al denaro siano anche quelle in cui imperversa la peggiore febbre egualitaria. Ma questi operai che vorrebbero per sé la vita facile di un grigio cliente di palazzo, questo vecchio contadino che la necessità costringe ancora, in cerca di benessere, a curvare la schiena sulla terra e che la vuota oziosità del piccolo pensionato suo vicino esaspera di gelosia, tutti i cuori contratti da un corrosivo: “perché io no?”, che cosa invidiano, in realtà, ai loro fratelli “privilegiati”?
Per quanto strano possa sembrare, essi invidiano loro il loro nulla! Diretta verso il privilegio senza doveri, verso il peccato (perché il rifiuto di servire è la definizione stessa del peccato), la volontà di uguaglianza diventa una volontà di nulla, una vertigine di autodegradazione e di morte. E in questo risiede il segreto e la logica del “comunismo”. Non vi sono che due cose assolutamente comuni a tutti gli uomini: il loro nulla originale e il Dio che li ha creati. Se essi sono troppo deboli o troppo peccatori per unirsi nel culto di quel Dio, invincibilmente tendono a comunicare nel nulla. Ma l’egualitarismo non conduce al nulla puro e semplice: l’uomo e la società hanno la vita dura.
Peccato capitale contro l’armonia – che non è se non un gioco di uguaglianze fondate sulle funzioni e i doveri, – l’egualitarismo genera il caos o, per meglio dire, sostituisce al gioco delle ineguaglianze organiche un guazzabuglio di ineguaglianze assurde e divoratrici, frutto dell’intrigo e del caso – di tutto ciò che v’è di meno umano nell’uomo. E’ chiaro, per esempio, al dire dei testimoni più autorevoli, che il “comunismo” sovietico, fondato di diritto sull’egualitarismo più rigido, ha dato vita, di fatto, alle ineguaglianze più rivoltanti che la storia abbia mai conosciuto.
Ineguaglianze e armonia.
Ascoltiamo una melodia. Ogni nota vi occupa un posto differente nella scala dei suoni, tutti gli elementi musicali (e i silenzi stessi) sono ineguali fra loro e, senza queste ineguaglianze, la melodia non esisterebbe più. Ma essa non esisterebbe lo stesso se si sopprimesse, fra i suoi diversi elementi, quella specie di uguaglianza profonda che risulta dalla comunione e dalla fusione nell’unità del medesimo tutto: non avremmo più, allora, che un caos di suoni. Tale duplice esigenza di ineguaglianza e di uguaglianza si ritrova nella scala della società umana.
Alla piatta nozione di uguaglianza, giova sostituire la nozione profonda di armonia. La sola uguaglianza reale e auspicabile fra gli uomini non può risiedere né in seno alle nature né in seno alle funzioni, non può essere che una uguaglianza di convergenza. Essa riposa sulla comunione, e la comunione non esiste senza la differenza: i grani di sabbia del deserto sono identici ed estranei gli uni agli altri… In ogni armonia, l’interdipendenza corregge e corona l’ineguaglianza: le note di una melodia sono così ben legate le une alle altre nell’unità dell’assieme che, prese separatamente, non hanno più né anima né funzione. Così deve pure essere per la vita sociale.
In mancanza dell’impossibile catastrofica comunanza di doveri e di privilegi, bisogna che esista fra gli uomini, e soprattutto fra chi dirige e chi è diretto, una specie di comunanza di destino. I veri capi sono per un popolo una testa e sono a un tempo distinti da lui e a lui uniti: la testa e il corpo vivono, soffrono e muoiono insieme… Ma i cattivi padroni – benché siano quasi tutti ardenti egalitaristi e pretendano, con una falsa e lusingatrice umiltà, di identificarsi al popolo – sono estranei a quelli che dirigono, non sono testa per nessuno, e tutta la loro abilità consiste nel far muovere dal di fuori e per il loro profitto personale i riflessi di un corpo decapitato…
E questo ci conduce a formulare la seguente legge: una istituzione è sana nella misura in cui favorisce questa salutare interdipendenza fra i membri della gerarchia sociale. Organizzazioni come il sistema feudale e il sistema corporativo sotto I'”ancien régime” servivano a tale scopo: esse non hanno dovuto soccombere a un vizio formale, ma al difetto delle persone. E’ chiaro, invece, che i miti sociali che ha il XIX secolo (capitalismo, suffragio universale, funzionarizzazione dei cittadini, ecc.) sono malsani nel loro principio, perché atomizzano gli uomini. Non di qualche ritocco, ma d’una generale rifusione hanno bisogno le istituzioni moderne.
Missione della Francia cristiana.
Si rabbrividisce al pensiero degli abissi di miseria e di corruzione da cui i popoli verrebbero inghiottiti qualora, passata la febbre e l’emorragia guerriera, ci ritrovassimo in un clima morale e politico simile a quello che è seguito all’ultima guerra. Esauste come sono, non è possibile che le strutture sociali di oggi resistano lungamente alla crisi che le ha scosse e che è opera loro!
Tutti sono d’accordo nel prevedere e desiderare, a breve scadenza, lo schiudersi di un nuovo mondo. Se questa attesa è destinata a essere soddisfatta, siamo certi che il genio e il cuore dei Francesi vi contribuiranno potentemente. Il popolo francese possiede infatti, in grado unico, il doppio senso dell’uguaglianza e dell’ineguaglianza.
Nessun altro è altrettanto individualista, altrettanto ribelle al gregarismo: proprio in Francia è possibile constatare, in ordine alle funzioni e alle precedenze sociali, le ineguaglianze più numerose e sottili: siamo il popolo che presenta il massimo di “distinzione” (nel duplice significato del termine) e, conseguentemente, il minimo di uguaglianza.
Ma siamo altresì il popolo in cui la coscienza dell’uguaglianza profonda fra gli uomini si è affermata, sana, col massimo di giustizia, e ha causato, corrotta, le più grandi rovine. Dopo il “chi t’ha fatto re?” gettato in faccia al primo capetingio da un suo suddito e il “fango comune” che Bossuet ricordava ai grandi, abbiamo avuto, ahimè, la terribile mistica egalitaria della rivoluzione francese.
Teniamo i due capi della catena: tocca a noi unire in una sintesi armoniosa lo spirito di uguaglianza e lo spirito d’ineguaglianza. Vano sarebbe abbandonarsi ora a fantasiose anticipazioni, e voler tracciare il disegno esatto della società futura. Ma con certezza si può prevedere che essa sfuggirà alla vorace marea del materialismo solo a condizione di veder rinascere degli istituti imparentati al corporativismo nell’ordine economico e allo spirito della cavalleria e del sacerdozio nell’ordine politico.
Simili istituzioni e solo esse saranno in grado di frenare efficacemente l’egualitarismo, sostituendo all’inuguagIianza materiale e qualitativa una ineguaglianza orientata verso la qualità e lo spirito, o, almeno, facendo della prima non più un valore assoluto, ma semplicemente il sostegno o lo strumento della seconda. E, contemporaneamente, esse lavoreranno a ristabilire la sana uguaglianza, poiché la materia divide, e lo spirito unisce.
Il nostro ideale respinge, insieme, l’egualitarismo che vuol cancellare le differenze sociali e la falsa mentalità aristocratica che tenderebbe a indurirle in differenze di essenza (sarebbe ridicolo che il capo contraccambiasse l’amore che gli si porta, diceva già Aristotele…); consiste nel purificare e organizzare Ie ineguaglianze in vista di un’uguaglianza più profonda; più precisamente nel mettere l’ineguaglianza al servizio dell’unità. Ma tale unità che cos’è, se non l’amore, e che cos’è l’amore, se non Dio? Attraverso le loro ineguaglianze naturali e sociali, tutti gli uomini sentono oscuramente che procedono dalla stessa origine e concorrono al medesimo fine.
Il cattivo egualitarismo nasce dall’irrigidimento egoista di tale intenzione, che è vera soltanto sulla linea dell’amore: come tutte le grandi aberrazioni dell’uomo, esso deriva dal rifiuto della condizione di creatura e dall’ambizione di essere come Dio. La vera uguaglianza è il frutto di un amore comune; presuppone dunque l’oblìo e il dono di sè. Ma se ciascuno non pensa che a sè, se l’inferiore si irrigidisce nella sua invidia, e il superiore nei suoi privilegi, che nome daremo alla febbre di uguaglianza che nasce in un simile mondo?
Essa non è più allora che un pretesto o un vessillo nella lotta, vecchia come il peccato, fra piccoli dei affamati che considerano come ingiustizia assoluta, ma riparabile, ogni limite alla loro volontà di godimento o di potenza, e dei quali ciascuno vuole tutto avere e per sè solo. E’ infatti una legge fatale: gli uomini che si scostano daIl’amore comune sono votati all’odio reciproco. E lo spirito di uguaglianza procede necessariamente dall’una o dall’altra di queste due sorgenti. Così non v’è solida struttura sociale senza clima religioso.
Un solo amore comune è capace di avvicinare efficacemente gli uomini: l’amore supremo. Tutti i miti, in nome dei quali si è preteso unire gli uomini fuori di Dio, hanno moltiplicato la separazione e l’anarchia. Chi non raccoglie con me, disperde… La Francia ritroverà la sua missione solo ritrovando il suo Dio.
Ignorando quel Dio, la rivoluzione del 1789 fece deviare verso il nulla la grande idea cristiana di uguaglianza. Il mondo attende ora una rivoluzione francese cristiana. L’egualitarismo ateo è malsano perché non ha altra risorsa che limare fino al nulla le differenze umane. Ma l’egualitarismo cristiano è sano perché è fondato sul superamento e non sull’estinzione di tali differenze: esso le prolunga fino alla loro origine e al loro fine comuni, cioè l’amore eterno. Così si compie, nell’unità di quest’amore, la sintesi dell’uguaglianza e dell’ineguaglianza.