(raccolta di pensieri)
L’etica laica è fondata sull’utilità. Essere etici conviene, è utile. Conviene all’intera umanità, e quindi anche a ogni singolo individuo. Eppure quel singolo individuo potrebbe chiedersi: “Per quale motivo non dovrei agire direttamente per la mia utilità, per il mio interesse personale, anche se in contrasto con l’interesse dell’umanità?”
Un’etica che si fonda sull’utilità è la negazione di se stessa. Semplicemente non esiste. Nulla più è morale o immorale, tutto è utile o dannoso.
Il laicismo, da sempre, maschera il proprio vuoto morale con un moralismo ipocrita, che si vanta di non avere certezze se non quella di essere onesto. Un moralismo che assume di volta in volta le forme dell’ambientalismo, del pacifismo o del giustizialismo, e che per convincere se stesso e gli altri di esistere ha bisogno di condannare. E di usare violenza.
La morale, quella vera, non si nutre di condanne, ma della Misericordia e dell’Amore di un Padre, se non ci fosse il quale non potremmo mai essere, come siamo, fratelli.
Morale “laica”
Soffocando qualche sbadiglio, scorro, per dovere, i logori ma sempre ripetuti dibattiti sull’esistenza e i contenuti di una fantomatica “morale laica”, di un’ “etica della sola ragione”, di un “decalogo che faccia a meno dell’ipotesi-Dio”. Ecco di nuovo – e ogni volta con l’aria di scoprire chissà quale novità – libri e conseguenti paginoni di giornale su questa chimera. Vincendo la noia, varrà allora la pena ricordare come gli stessi campioni del razionalismo, quando accettano di usare sino in fondo la ragione, riconoscano che nessuna morale è davvero “laica”.
Quanto ai contenuti; e che, in ogni caso, non è in grado di regolare le azioni dell’uomo. Vediamo, dunque, poiché, a quanto pare, anche tra cattolici c’è qualcuno che prende troppo sul serio certe nobili quanto impotenti “tavole umanistiche di valori”.
Quanto ai contenuti, in una inchiesta giornalistica, la scrittrice Lalla Romano ricorda una verità che dovrebbe essere scontata per chiunque: “Per laica si intende una morale che dipenda dalla coscienza. Ma questa non può essere laica, visto che si è venuta formando in base al messaggio cristiano”. A conferma, la Romano cita il famoso brano di Croce che, pur sacerdote del laicismo, dovette riconoscere che all’interno della cultura occidentale (ma non solo qui, come confessò un Gandhi che, per la sua etica “umanistica”, attinse largamente al vangelo) “non possiamo non dirci cristiani”.
Si può credersi agnostici o atei, ma i concetti fondamentali di ogni etica (“persona”, “rispetto”, “amore”, “responsabilità”, le idee stesse di “morale”, “coscienza”, “ragione”; magari “uomo” stesso) vengono dritti dritti dal profetismo giudeo-cristiano che si è incarnato, trasformandole dall’interno, nelle categorie filosofiche del mondo classico. Come mi ripeté, tra i molti altri, quell’ammirevole testimone di laicità che fu Arturo Carlo Jemolo: “Gli umanesimi che si credono laici, i decaloghi che si vorrebbero nati dalla sola ragione, vengono in realtà dalla sensibilità cristiana che è divenuta midollo insostituibile della nostra cultura”. (Tutto il marxismo, ad esempio, e la sua etica, sarebbero incomprensibili senza la tradizione biblica. La quale, per una misteriosa “astuzia della storia”, ha finito, percorrendo questa strada, per diventare nutrimento anche di africani, cinesi, vietnamiti).
“Dobbiamo rassegnarci, noi umanisti – mi confermava lo storico e sociologo Léo Moulin, rocciosamente agnostico – Ogni nostra morale sedicente laica non è che un cristianesimo senza Cristo”. Comunque, al di là dei suoi contenuti teorici, e per venire alla sua concreta efficacia, la chimerica “etica della sola ragione”, messa in pratica, non funziona per niente (come la storia degli ultimi secoli e la cronaca di tutti i giorni dimostrano ad abundantiam).
Quel che è peggio, questa figlia prediletta del razionalismo non è in grado di giustificare razionalmente se stessa e finisce dritta dritta nell’irrazionale se vuol spiegare per qual motivo dovremmo rispettarla. Sono tanti anni che vado in giro a porre ai miei intervistati domande di questo tipo: “Ammesso – e non concesso – che sia possibile parlare di “coscienza” senza fare riferimento a categorie cristiane, perché dovremmo seguirne la voce anche quando, come si verifica quotidianamente, è in contrasto col nostro interesse o comodo? Senza un Legislatore al di fuori di noi, è ragionevole fissarci e seguire leggi per il nostro agire?”.
Sono anni, dunque; ma non ho trovato nessun “uomo di ragione” che mi desse una risposta ragionevole. Tra gli altri, ho vivo il ricordo di un incontro tra i tanti con quel pontifex maximus del nostro laicismo che è Norberto Bobbio il quale, alle obiezioni, non poteva far altro che ripetere, come in una litania sacrale: “Eppure, malgrado tutto, dobbiamo considerare un imprescindibile dovere il rispetto e la tolleranza per tutti…”.
Aggiungendo però, onestamente, da quel galantuomo che è, di non sapere dire a quale chiodo appendere simile “dovere”. Come Bobbio, se sto alla mia esperienza di intervistatore di persone e di lettore di libri, sono tutti i maestri della “morale laica”: nobili auspici, caldi e rinnovati appelli, ma niente che possa appagare la ragione.
Il credente Jemolo, invece, e proprio grazie alla sua fede, la ragione poteva permettersi di usarla: “È impossibile fondare qualsiasi morale praticabile da tutti e sempre, prescindendo dall’idea di un Legislatore e di un Giudice che ci sovrastino. Ai miei amici filantropi sempre ho domandato: “perché amare?”. Gli uomini, spesso, non sono affatto amabili e neanche rispettabili. Perché, allora dovremmo farlo, senza riferirci a un Padre comune, a un Giudice che ci attende?”.
Come scrisse una volta quel Manzoni che Jemolo molto amava: “Ogni morale senza religione non è che un codice senza tribunali. Le leggi possono essere perfettissime, ma chi può rispettarle se non c’è chi le garantisca?”. Manzoni, beato lui, non conobbe le dolcezze dei sindacati: avete mai visto che fine fanno quelle versioni di “morale laica” che sono i “codici di autoregolamentazione” senza sanzione, quando si scontrano con l’interesse corporativo?
Ancora sua, del Gran Lombardo, l’ironica osservazione a chi riponeva attese miracolistiche in una “educazione morale” che avrebbe portato a una società di giusti e di buoni pur senza religione: “Mi sembrate muratori scriteriati che continuano a rafforzare i muri! Se le fondamenta non ci sono, la casa cadrà comunque”. Si può stare, certo, senza religione. Accettando però di stare anche senza morale. Ché, come gridava Dostoevskij con il suo modo profetico: “Se Dio non c’è, tutto è permesso”.
Fu quanto, nella lucidità del folle, vide anche Nietzsche. Ma è proprio questo che non vogliono accettare le anime belle della filantropia umanistica. Vorrebbero le leggi senza Legislatore e Tribunale: ma sono realtà che, o stanno insieme, o insieme svaniscono. E questa non è apologetica. Questo non è che umile buon senso e modesta esperienza.Vittorio Messori
Il Pane dell’uomo
(..) Il socialismo attuale, sia in Europa che da noi, vuole eliminare completamente Cristo e si adopera innanzitutto per il pane, si affida alla scienza e sostiene che la causa di tutte le sciagure umane è una soltanto: la miseria, la lotta per l’esistenza, “l’ambiente che divora l’uomo”.
Ma Cristo a ciò ha risposto: “Non di solo pane vive l’uomo”, proclamando la verità sull’origine anche spirituale dell’uomo. L’idea del diavolo poteva andar bene soltanto per l’uomo-animale, ma Cristo sapeva che l’uomo non può vivere di solo pane. (..)
Se si fosse trattato soltanto di placare la fame di Cristo, perchè si sarebbe dovuto portare il discorso sulla natura spirituale dell’uomo in generale ? E sarebbe stato anche inutile, giacché anche senza il consiglio del diavolo Egli avrebbe potuto già da prima procurarsi del pane, se avesse voluto.
A proposito: Lei ha certo presenti le teorie di Darwin e di altri sull’origine dell’uomo dalla scimmia. Ebbene, senza formulare nessuna teoria, Cristo dichiara esplicitamente che nell’uomo, oltre alla dimensione animale, c’è anche quella spirituale. E quindi, qualunque sia l’origine dell’uomo (nella Bibbia non è affatto spiegato in che modo Iddio lo formò dal fango, lo prese dalla terra), è un fatto che Dio gl’ispirò il soffio della vita (ma è terribile che l’uomo, attraverso il peccato, possa nuovamente trasformarsi in animale).
Fëdor Michailovic Dostoevskij
Lettere
L’etica che non c’è
Alcuni dicono che comportarsi bene, se non significa fare ciò che giova a un determinato individuo in un determinato momento, significa tuttavia fare ciò che giova all’insieme del genere umano; e che quindi in questo non c’è niente di misterioso. Gli esseri umani, in fin dei conti, non sono privi di senno, e capiscono che si può essere veramente sicuri o felici soltanto in una società nella quale ognuno agisca correttamente; per questo cercano di comportarsi bene.
Ora, è verissimo che sicurezza e felicità possono derivare soltanto dall’onestà, equità e gentilezza reciproca degli individui, classi e nazioni. E’ una delle verità più importanti del mondo. Ma come spiegazione del nostro modo di sentire riguardo al giusto e all’ingiusto, alla ragione e al torto, è fuor di proposito. Se io chiedo: “Perché dovrei essere altruista?” e voi rispondete: “Perché giova alla società”, io posso ribattere: “Perché dovrei curarmi di ciò che giova alla società, quando non giova a me personalmente?” ; e voi allora dovrete dire: “Perché bisogna essere altruisti”, il che ci riporta al punto di partenza. Dite una cosa vera, ma non fate un passo avanti.
Clive Staples Lewis
Il cristianesimo così com’è, Adelphi
Sillabo di Pio IX: la profezia
Le leggi e i costumi non abbisognano di sanzione divina, e nemmeno bisogna che le leggi umane si conformino al diritto di natura, e ricevano da Dio la forza obbligatoria.
Allocuzione Maxima quidem , 9 giugno 1862
Proposizione LVI del Sillabo, cap. VII
Errori circa l’etica naturale e cristiana
Ecco profetizzato l’avvento del cosiddetto “pensiero debole”, che nega l’esistenza di qualsiasi verità, riducendo la convivenza civile a semplice convenzionalismo. Gli stessi diritti “civili” vengono determinati dagli interessi temporanei dei diversi gruppi, non dipendendo assolutamente da valori perenni e metastorici. Ciò, secondo lo studioso Marco Invernizzi, produce le contraddizioni insolubili da cui è afflitto il cosiddetto progressismo: sostegno ai diritti dell’individuo ma non a quelli del feto umano, campagne contro l’estinzione di alcune specie animali e contemporaneo favore per l’eutanasia, solidarietà ai comportamenti sessuali contro natura ma non alla famiglia, eccetera.
Secondo Augusto Del Noce tutto è cominciato nel Seicento con Cartesio, per proseguire poi con gli illuministi del secolo successivo. Cominciò perché “si diede valore assoluto alla ragione umana, a quella soltanto”, estromettendo tutta la dimensione trascendente, la metafisica; tutto ciò che, appunto, va “al di là della fisica”. Sui temi a quel punto irrisolvibili (Dio, l’Aldilà, il miracolo) calò il “divieto di fare domande”.
Fino al culmine dell’ateismo marxista. A Marx non importava discutere sull’esistenza di Dio: Dio non esiste perché non deve esistere, altrimenti l’uomo ne è dipendente e non può più rifare il mondo a sua immagine e somiglianza. Ma Del Noce andava più in là: “Checchè ne dicano marxisti e liberals di ogni risma che non vogliono riconoscere i parenti imbarazzanti, fascismo e nazismo (pur assai diversi tra loro e non assimilabili affatto tout court) non sono negazioni della modernità; ne sono figli legittimi.
Si situano anch’essi tra le ideologie che hanno decretato l’inesistenza o almeno l’irrilevanza di Dio, sono un momento come gli altri della secolarizzazione. Non sono, come hanno cercato di farci credere i “progressisti”, degli errori contro la cultura moderna, sono degli errori dentro quella stessa cultura”.
Nel 1978, quando l’eurocomunismo sembrava cultura egemone, il filosofo pubblicava Il suicidio della rivoluzione, in cui avvertiva fin dalla copertina che “l’esito dell’eurocomunismo non può essere che quello di trasformare il comunismo in una componente della società borghese ormai completamente sconsacrata”.
Infatti oggi il comunismo ha assunto l’ideologia più borghese di tutte, quella del “liberalismo di sinistra”, che fa del partito comunista “un partito radicale di massa” e che, in quanto tale, trova il sostegno della grande finanza internazionale. Del Noce: “Persa per strada l’utopia rivoluzionaria, l’essenza di surrogato religioso, è restato al marxismo soltanto il suo aspetto fondamentale, di prodotto dell’illuminismo scientista, del razionalismo che esclude Dio per una scelta previa e obbligata”.
Esso “si è rovesciato nel suo contrario: voleva affossare la borghesia e ne è divenuto una delle componenti più salde ed essenziali”. L’esito finale è la caduta di tutti gli ideali e di tutti i valori, il nichilismo, che si cerca di nobilitare cambiandogli nome (“pensiero debole”). Nichilismo nella sua forma più volgare, vera e finale ideologia per le masse: il consumismo, che è per Del Noce “l’alienazione massima, la trasformazione di tutto in merce con un prezzo, e il raggiungimento della massima illibertà, crocifiggendo l’uomo indifeso al desiderio, all’invidia, all’affanno di procurarsi sempre più beni”.
Giovanni Cantoni così sintetizza: “La nota dominante del comunismo “classico” era socio-economica, la “lotta di classe”; quella del neocomunismo è socio-culturale, è il relativismo, che postula l’assenza di valori assoluti, è “pensiero debole” da intronizzare non più attraverso l’egemonia culturale del partito (che sarebbe gramscismo), ma con un political drag dell’arcipelago associazionistico che si raccoglie di volta in volta attorno all’abortismo e all’animalismo, alla deep ecology (ecologia profonda), all’omosessualità, al femminismo, all’antiproibizionismo (prodotti non elencabili perchè in continua emersione). L’opera tende soprattutto a infiltrare i mass media di disvalori”.
Diamo la parola conclusiva al premio Nobel per la letteratura Octavio Paz, secondo il quale, di fronte a tutto ciò, si deve cercare di “riscattare un sentiero abbandonato e che bisogna ripercorrere” per “recuperare la capacità di dire no, di riannodare la critica delle nostre società obese e addormentate, risvegliare le coscienze anestetizzate dalla pubblicità”. Per discendere “nel fondo dell’uomo, là dove è custodito il segreto della risurrezione. Bisogna dissotterrarlo”.
Rino Cammilleri
L’ultima difesa del Papa Re
Elogio del Sillabo di Pio IX , ed. Piemme
Caino, l’omicida protetto da Dio
Come definiremmo Caino? Tutti lo identifichiamo come il primo omicida, il criminale, il sovvertitore dell’ordine, l’irrompere della violenza, la barbarie. Ma, per quanto possa sorprendere, la Bibbia dice che Caino (Gen.4,17) è il fondatore della città, cioè della civiltà, l’instauratore dell’ordine e della legge.
Dopo l’assassinio del fratello Abele, il Signore gli mostra quanto è orrendo il suo atto e visto il terrore di Caino (“Chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere”), proclama: “Chiunque ucciderà caino subirà la vendetta sette volte!”. Poi “impose a Caino un segno, perchè non lo colpisse chiunque lo avesse incontrato”. Una pagina profonda e misteriosa. Da cui prendiamo questi elementi: il divieto da parte di Dio di uccidere Caino e il fatto che proprio lui, l’assassino, diventa il fondatore della civiltà, cioè di una città (Enoch, dal nome del figlio) che sorge dal deserto e che, insieme alla legge e al rito, vede fiorire la tecnologia, con Tubalkàin, e l’arte con Iabal.
Scrive James Williams:“Il segno di Caino è il segno della civiltà. E’ il segno dell’assassino protetto da Dio”. Naturalmente l’idea dell’“assassinio fondatore” è un classico in tutte le culture. Anche Roma nasce dall’assassinio di Remo. Cosa rende unico il testo biblico? “L’assassinio di Remo ci pare un atto forse deplorevole – scrive René Girard – ma giustificato dalla trasgressione della vittima. Remo non ha rispettato il limite ideale tracciato da Romolo tra l’interno e l’esterno della città”. In tutti i miti fondatori la vittima è colpevole. “Nel mito di Caino invece – nota Girard – Caino ci è presentato come un volgare assassino”. Certo, poi Dio risponderà al suo appello per scongiurare il conflitto generalizzato e questa situazione di effimera tregua è appunto la civiltà.
Ma così la Bibbia demitizza tutti i miti fondatori della civiltà: rivela infatti che “la vittima è innocente e che la cultura fondata sull’assassinio- conclude Girard – mantiene dall’inizio alla fine un carattere omicida che finisce per ritorcersi contro di essa e distruggerla, una volta esaurite le virtù ordinatrici e sacrificali dell’origine violenta”. Tanto è vero che “la legge contro l’assassinio non è nient’altro che la ripetizione dell’assassinio. Ciò che la distingue dalla vendetta selvaggia è il suo significato, più che la sua natura intrinseca” (Girard). In soldoni, è proprio Caino ad aver affermato nel mondo “la pena di morte”, che non è un opporsi al male con il bene, ma un tentativo di limitare la vendetta generalizzata col monopolio dell’omicidio attribuito a un solo soggetto con funzioni d’ordine: lo Stato.
Agostino nella Città di Dio ricorda che un giorno Alessandro Magno cattura un pirata e gli chiede perchè mai infesti i mari. Quello gli risponde: “Per lo stesso motivo per cui tu infesti la terra. Ma poiché io lo faccio con una barca insignificante, mi chiamano malfattore, e poichè tu lo fai con una flotta eccezionale, ti chiamano imperatore”. Agostino definisce “vera e opportuna” questa risposta, aggiungendo tre righe esplosive: “Rinunciato alla Giustizia, cosa sono gli Stati se non una grossa accozzaglia di malfattori?
Anche i malfattori del resto, non formano dei piccoli Stati?”. Secondo Agostino, se una banda di malfattori “si allarga sempre più, occupa una regione, fissa una sede, conquista città e soggioga popoli, assume più apertamente il nome di regno, che non gli viene dalla rinuncia alla cupidigia, ma dal conseguimento dell’impunità”.
Questa è la storia politica, almeno dell’antichità. Per questo i cristiani hanno fin dall’inizio un atteggiamento di rispetto delle “potestà terrene”, ma con una radicale diffidenza: sanno di essere stranieri. “Il fondatore della città terrena fu un fratricida”, e su tutta la civiltà grava la dinamica omicida. L’unica novità – per lui – accade quando da questa “progenie condannata fin dall’origine” nasce la “città di Dio”, formata da chi, senza alcun merito,“predestinato e scelto dalla grazia” è “reso straniero sulla terra”. Si chiama “grazia” l’irrompere di Dio nella storia umana.
L’Incarnazione rivela che solo in Dio non c’è alcuna violenza. Gesù infatti non si oppone alla violenza, si consegna nelle mani dei suoi carnefici, accetta ogni sofferenza che essi vogliono infliggergli e invoca il perdono su di loro. Così si rivela all’uomo una forza fino ad allora sconosciuta, l’Amore, che è più potente e più originaria di quelle della violenza e del potere a cui obbedisce Caino. Così Gesù spazza via le religioni che fin dalle origini avevano pensato il divino come tirannia e il rapporto con esso come sacrificio, cioè violenza ritualizzata. Per ben due volte infatti, nel vangelo, Gesù cita il detto di Osea: “Misericordia io voglio e non sacrificio”.
Un’ultima curiosità. Tommaso Federici ha studiato le genealogie bibliche. Secondo lui il clan discendente da Caino, i Qeniti, sarebbe stato assimilato da Israele, nella tribù di Giuda, stanziandosi nella regione di Betlemme. E attraverso Davide da quel ceppo familiare sarebbe disceso anche Gesù. Dunque “i Davididi sono i Qeniti o Cainiti”. Ecco “sopra quale abisso è disceso l’Immortale Eterno per assumere la carne dei peccatori. Cristo Signore così riassume in sé ogni Caino d’ogni tempo, per salvarlo”, scrive Federici e Gesù dunque è “il segno” che Dio aveva posto sopra Caino “per cui questi ha salva la vita”.
Non il segno provvisorio e ambivalente della civiltà e della legge, ma quello della grazia.
Antonio Socci
Il Foglio, 12 giugno 2001
Moralismo e morale
La corruzione della moralità – oggi particolarmente in voga – si chiama moralismo. Il moralismo è la scelta unilaterale dei valori per avallare la propria visione delle cose. Normalmente gli uomini capiscono che, senza un certo ordine, non si può concepire la vita, il reale, l’esistere. Ma come definiscono quest’ordine?
Considerando la realtà secondo i vari punti di vista da cui partono, la descrivono nei suoi dinamismi stabili e mettono in fila un seguito di principi e di leggi, adempiendo i quali sono persuasi che l’ordine si crei. Ecco allora che si scandiscono, in ogni epoca, le varie proposizioni analitiche in cui la riflessione distende le sue pretese: “Bisogna fare così e così”. I farisei definivano l’ordine con un numero quasi infinito di leggi: da un certo punto di vista il fariseo è l’uomo affezionato all’ordine, il difensore della morale intesa come quell’ordine affermato e delineato, in quanto possibile all’uomo, secondo tutti i suoi dettagli.
Il moralismo si traduce in due sintomi gravi. Il primo è, appunto, il fariseismo. Nessuno è più antievangelico di chi si considera onesto, perchè non ha più bisogno di Cristo. Il fariseo vive senza tensione, perchè stabilisce lui stesso la misura del giusto e la identifica con ciò che crede di poter fare. Come contraccolpo, egli usa la violenza contro chi non è come lui. Il secondo sintomo perciò è la facilità alla calunnia. Da un lato, dunque, giustificazione per se stessi. Dall’altro, odio e condanna del prossimo. (..)
Nel Regno di Dio non c’è nessuna misura, nessun metro. “Nessuno giudichi, perchè Dio solo giudica”. San Paolo dice anche: “Io non giudico nessuno, neanche me stesso”. Solo Dio misura tutti i fattori dell’uomo che agisce e la sua misura è oltre ogni misura: si chiama misericordia, qualcosa per noi di ultimamente incomprensibile. Come l’uomo Gesù che ha detto di coloro che lo uccidevano: “Padre, perdona loro perchè non sanno quello che fanno”: sull’infinitesimo margine della loro ignoranza Cristo costruiva la loro difesa. La nostra imitazione di Lui è nello spazio della misericordia.
Per questo la moralità è una tensione di ripresa continua. Come un bambino che impara a camminare: cade dieci volte, ma tende a sua madre, si rialza e tende. Il male non ci ferma: possiamo cadere mille volte, ma il male non ci definisce, come invece definisce la mentalità mondana, per cui alla fine gli uomini giustificano quello che non riescono a non fare. (..)
Luigi Giussani
Generare tracce nella storia del mondo, Rizzoli
Ateismo: la scuola dell’odio
In Cecoslovacchia dopo il 1948 il terreno era “ideologicamente” ben preparato per l’ingresso dell’ateismo comunista. Specialmente presso la maggior parte degli intellettuali esso incontrò una mentalità in larga misura secolarizzata. Per un individuo imbevuto di tale mentalità l’ideologia materialista non era del tutto estranea e l’ateismo statale ufficiale non era altro che l’apice della “liberazione” da Dio, che era già cominciata con l’Illuminismo e che era continuata nel periodo successivo. (..)
Ma, nello stesso tempo, la liberazione da Dio era anche la “liberazione” dai principi dell’etica e della morale, che sono ancorati non solo nella Bibbia, bensì pure nel cuore e nella natura umana. Il principio dell’amore, dell’amare e dell’essere amato, ogni persona lo porta in sé. Il punto di partenza dell’ateismo era esattamente l’opposto, cioè la dottrina dell’odio di classe, che a poco a poco permeò anche i cuori e la vita delle persone e addirittura delle famiglie.
A tale odio i bambini venivano educati fin dai banchi della scuola. Tra i più diversi nemici di classe i credenti erano un bersaglio preferito in questa educazione all’odio. Sulla base di questi principi educativi poteva succedere che un insegnante domandasse ai bambini di una classe se qualcuno di loro credeva ancora in Dio. Qualcuno rispondeva di sì, e allora l’insegnante istigava gli altri bambini a deriderli, perché essi erano “oscurantisti da retroguardia”.
Un simile modo di agire era però anche un modo per nascondere propri errori e per tranquillizzare la propria coscienza. Poteva mai un simile modo di agire, praticato per decenni, non lasciare delle conseguenze nelle anime? E’ possibile eliminare queste conseguenze semplicemente in pochi anni? Poco tempo fa, nel corso di un programma della televisione statale ceca, un membro di un gruppo giovanile ha pubblicamente definito la chiesa una “organizzazione criminale”.
L’ateismo ha negato senza riserve Dio Padre, il Creatore, quale fondamento della dignità umana, ma in questo modo la fraternità proclamata dalla Rivoluzione francese, poi diventata una “fraternità socialista” tra gli uomini e i popoli, ha perso il proprio fondamento. Senza il Padre comune gli uomini non possono sentirsi fratelli! Possiamo presupporre quasi con una logica matematica che ogni “fraternità” senza Dio degenera in un totalitarismo. La prova che ce ne ha fornito il comunismo non è sufficiente? Non dimentichiamolo: non comprendere la propria storia significa essere condannati a riviverla.
Non esiste alcuna terapia rapida e facile per la malattia dell’ateismo. Ma lo sviluppo della secolarizzazione lavora qui con noi. Un noto sociologo della religione ha alcuni decenni fa “formulato” un dogma sulla irreversibilità del processo della secolarizzazione. Poi, sotto la pressione dello sviluppo, ha dovuto smentirlo, allorché vide che il vuoto religioso, che la secolarizzazione si lascia alle spalle, cerca di nuovo Dio.
L’uomo secolarizzato odierno cerca, cerca Dio, cerca risposte alle sue domande circa il vero senso della vita. Da parte nostra la terapia deve essere assolutamente radicale e cominciare esattamente lì dove l’ateismo ha prodotto i guasti più gravi. Si tratta in modo particolare di due settori.
L’ateismo non ha distrutto solo l’immagine di Dio, ma ha distrutto anche il senso della comunione e della fraternità nel cuore dell’uomo. Si tratta perciò di riportare Dio dalla periferia al centro della vita umana, di restaurare la sua vera immagine (non la sua caricatura, che è spesso scambiata per tale immagine) e di rinnovare la communio della chiesa. La chiesa deve diventare un segno della presenza di Dio! Un luogo dove Dio è presente, malgrado tutta la debolezza degli uomini, come un dono promesso per l’umanità. (..)
card. Miloslav Vlk
Concilium, marzo 2000
La tragedia della Rivoluzione francese
Un’aula della Sorbona, a Parigi. Fuori un tiepido gennaio. Dentro comincia la prima lezione dell’anno 1989. Sulla cattedra è il professor Pierre Chaunu, una delle autorità per la storia moderna, membro dell’Institut de France, con una sessantina di titoli al suo attivo.
Esordisce in tono sarcastico: “Dunque questa è la prima lezione dell’anno: voi sapete che cadono nell’89 una quantità di anniversari importanti”. E snocciola una filza di eventi storici, scientifici, economici, ma neanche una parola sulla Grande Commemorazione, quella che infiamma la Francia da otto anni: “Ho dimenticato qualcosa?” chiede beffardo il professor Chaunu, “no, non mi sembra ci sia altro di importante da ricordare”.
È stato il Grande Guastafeste del bicentenario della Rivoluzione. Brillante, corrosivo, preparatissimo, ha appena dato alle stampe un libro di fuoco, La révolution declassée, dove fa a pezzi il mito della Rivoluzione dell’89 e soprattutto il conformismo degli intellettuali di corte e la retorica di regime di questo bicentenario. I suoi stessi avversari non osano contestarlo: persino Max Gallo, obtorto collo, lo ha definito “un ottimo storico”.
Ed è praticamente invulnerabile, non essendo né cattolico, né reazionario (è infatti protestante e liberale). C’è una lunga tradizione liberale di critica aspra alla Rivoluzione, che comincia addirittura a fine Settecento con l’inglese Edmund Burke. Ma Chaunu si è spinto oltre.
Ha guidato le ricerche di alcuni giovani e brillanti storici francesi fra documenti e dossier finora rimossi dalla storiografia ufficiale, e ne sono venuti fuori libri esplosivi, sconvolgenti, come quelli di Reynald Secher sul genocidio della Vandea. Incontriamo Chaunu nella sua casa di Caen.
Professore, il suo libro è uscito in Francia a marzo, già da alcuni anni lei si è ribellato al coro degli intellettuali e alle ingiunzioni del potere politico, contestando la legittimità di queste celebrazioni. Perché?
È una mascherata indecente, un’operazione politica elle sfrutta le stupidaggini che la scuola di Stato insegna sulla Rivoluzione. Pensi alle bétises del ministro della Cultura Lang: “L’89 segna il passaggio dalle tenebre alla luce”. Ma quale luce? Stiamo commemorando la rivoluzione della menzogna, del furto e del crimine. Ma trovo scioccante soprattutto che, alle soglie del ’92, anche tutto il resto d’Europa festeggi un periodo dove noi ci siamo comportati da aggressori verso tutti i nostri vicini, saccheggiando mezza Europa e provocando milioni di morti. Cosa c’è da festeggiare? Eppure qua in Francia ogni giorno una celebrazione, il 3 aprile, il 5, il 10. È grottesco.
Ma è stato comunque un evento che ha cambiato la storia
Certo, come la peste nera del 1348, ma nessuno la festeggia. Ad un giornalista tedesco ho chiesto: perché voi tedeschi non festeggiate la nascita di Hitler? Quello è sobbalzato sulla sedia. Ma non è forse la stessa cosa?
Dica la verità, lei è diventato reazionario. Ce l’ha con la modernità?
lo sono liberale, con una certa simpatia per l’illuminiamo tedesco e inglese. Ma proprio questa è la grande menzogna che pare impossibile poter estirpare: tu sei contro la Rivoluzione, dunque tu sei contro la modernità, sei per la lampada a petrolio e per la carrozza a cavalli. Al contrario. Io sono contro la Rivoluzione francese proprio perché sono per la modernità, per la penicillina, per il vaccino contro il vaiolo. Perché non festeggiamo Jenner che con la sua scoperta, dal ‘700 a oggi, ha salvato più di un miliardo di vite umane? Questo è il progresso. La Rivoluzione ha semmai bloccato il cammino verso la modernità; ha distrutto in pochi anni gran parte di ciò che era stato fatto in mille anni. E la Francia, che fino al 1788 era al primo posto in Europa, dalla Rivoluzione non si è più sollevata.
Ma lei lo può dimostrare?
Guardi, circa trent’anni fa ho contribuito a fondare la storia economica quantitativa, e oggi, con i modelli econometrici, chiunque può arrivare a queste conclusioni. Sono fatti e cifre. Tutte le curve di crescita del mio Paese si bloccano alla Rivoluzione. Era un Paese di 28 milioni di abitanti, il più sviluppato, creativo, evoluto, con un trend da primato: la Rivoluzione, insieme alle devastazioni sull’apparato produttivo, ha scavato un abisso di due milioni di morti, un crollo di generazioni che ha accompagnato il crollo economico.
Nella produzione media procapite, Francia e Inghilterra, i due Paesi più sviluppati del mondo, avevano rispettivamente, nel 1780, un indice 110 e 100. Ebbene nel 1815 la Francia era precipitata a 60, contro 100 dell’Inghilterra, che da allora non ha avuto più concorrenti. È stato il prezzo della Rivoluzione.
Ce ne spieghi almeno un motivo.
Attorno al ’93 – e per un decennio – la Francia ha cominciato a vivere al 78 per cento del prelievo sul capitale e per il 22 per cento sulle tasse e le rendite, che non venivano reinvestite, ma consumate, bruciate e rubate per arricchire la Nomenklatura. È stata una dilapidazione spaventosa, un impoverimento storico. Quando Chateaubriand è tornato in Francia, nel 1800, ha avuto un’intuizione fulminante: “è strano: da quando sono partito non hanno più pitturato persiane e porte”. Quando le finestre sono sverniciate e le latrine non funzionano può star certo che c’è stata una rivoluzione.
Ma comunque la Rivoluzione ha spalancato il pensiero umano.
Oh, santo cielo! Ma è stata una colossale distruzione di intelligenze e di ricchezze. Se lei taglia la testa a Lavoisier, il fondatore della chimica moderna, a 37 anni, il costo per l’umanità è enorme. Moltiplichi quel caso per cento. Come finì tutta l’élite scientifica e intellettuale? Quelli che non sono emigrati sono stati massacrati. Una perdita gigantesca. Sarebbe questa la conquista della civiltà?
Il 43 per cento dei francesi, nel 1788, sapeva firmare, sapeva scrivere. Dopo la Rivoluzione si crolla al 39 per cento, perché si erano sottratti i beni alla Chiesa (che per secoli aveva educato il popolo) e si erano distribuiti alla Nomenklatura. E le chiese trasformate in porcili e i tesori d’arte devastati.
E’ vero: fecero a pezzi le statue di Notre Dame, distrussero Cluny, e quasi tutte le chiese romaniche e gotiche…
Le ripeto: furto, menzogna e crimine, questa è la vera trilogia della Rivoluzione, che ha messo a ferro e fuoco l’Europa. I francesi sono persuasi che la democrazia sia nata nell’89 e che l’umanità abbia imitato loro. È pazzesco! In realtà la sola rivoluzione da festeggiare sarebbe quella inglese del 1668: da lì è venuto il sistema rappresentativo e il governo parlamentare, lo Stato liberale che tutta Europa ha imitato.
Ma qualcosa di buono ci sarà pùr stato: per esempio la Dichiarazione dei diritti dell’uome e del cittadino.
Quello fu l’inganno più perverso. Le due Costituzioni più democratiche che siano mai state fatte sono quella sovietica di Stalin del 1936 e quella dei ghigliottinatori francesi del 1793. I loro frutti furono orrendi. Al contrario, il Paese che ha fondato la libertà, l’Inghilterra, non ha mai avuto Costituzioni. Delle Dichiarazioni io me ne infischio! E d’altra parte libertà, fraternità e uguaglianza non esistono che davanti a Dio.
Le dirò che il miglior giudizio sulla Dichiarazione dei diritti dell’uomo lo formulò Fustelle de Coulange, il più grande storico francese dell’800 e mio predecessore all’Accademia di scienze morali e politiche. Egli disse: questi principi hanno mille anni, semmai la Dichiarazione li formula in modo un po’ astratto. Ma una cosa nuova c’è: hanno spacciato dei principi antichi per una scoperta loro e l’hanno usata come un’arma contro il passato. Questo è perverso.
La conseguenza politica della Filosofia dei Lumi, no?
No. L’Illuminismo c’è stato in tutta Europa. Kant non era certo da meno di Voltaire. Ma la Rivoluzione c’è stata solo qui da noi. Non si può certo credere che i francesi fossero gli unici a pensare, in Europa. Dunque non c’è un nesso storico. È una menzogna anche parlare di fatalità storica, inevitabile. La persecuzione contro la Chiesa e il progetto di sradicare il cristianesimo dalla Francia ebbe come sua prima causa degli interessi finanziari, non questioni metafisiche.
Ci spieghi, professore.
Nel XVII secolo tutti gli Stati europei hanno istituzioni rappresentative. La Francia però, a poco a poco, le lasciò cadere in desuetudine. Per questo divenne una sorta di paradiso fiscale, perché – è noto – non si possono aumentare le imposte senza istituzioni rappresentative. Un esempio: la pressione fiscale fra 1670 e 1780 in Francia rimane ad un indice 100, mentre in Inghilterra sale da 70 a 200, in proporzione. La Francia si trova così ad avere uno Stato moderno, un moderno esercito, 450mila uomini, una potenza di prim’ordine, ma con risorse finanziarie vicino alla bancarotta perché per poterle mantenere come l’Inghilterra dovrebbe aumentare le tasse del 100 per cento.
Dunque viene chiamata ad affrontare la questione la rappresentanza del popolo, gli Stati generali.
Sì, i rappresentanti eletti però sono la più colossale assemblea di dementi che la storia abbia mai visto. Irresponsabili. Sfrenati solo nelle pretese, perché nessuno voleva farsi carico dei sacrifici (basti pensare che fra i deputati del Terzo stato c’erano un banchiere, 30 imprenditori e 622 avvocati senza causa). Non capiscono nulla di economia, hanno chiaro solo che a pagare devono essere gli altri. Così cominciano a vedere cosa possono confiscare: prima sopprimono la decima alla Chiesa, che nessuno nel popolo chiedeva di sopprimere perché significava sopprimere i finanziamenti per le scuole e gli ospedali. Si confiscano i beni del clero, donati alla Chiesa nel corso dei secoli, che ammontavano però solo al 7-8 per cento delle terre. Si comincia a diffondere l’idea che la Chiesa nasconda i suoi tesori, si confiscano i beni delle Abbazie.
E l’operazione si dà pure una maschera ideologica.
Certo. Si impone la Costituzione civile del clero, perché senza modificare e manomettere la struttura della Chiesa non avrebbero potuto rubare. I beni della Chiesa, che da secoli mantenevano scuole e ospedali, vengono accaparrati da una masnada di 80mila famiglie di ladri, nobili e borghesi, destra e sinistra: è per questo che tuttora la Rivoluzione in Francia è intoccabile! Perché fu una Grande Ruberia a vantaggio della classe dirigente. Il furto ha bisogno della menzogna e della persecuzione perché non era facile imporre ai preti e al popolo il sopruso. Per questo si impose il giuramento ai preti e chi non giurò fu massacrato. La Rivoluzione è stata una guerra di religione.
E in Vandea cos’è accaduto?
Il popolo si ribellò per difendere la sua fede. Il Direttorio voleva imporre la coscrizione militare obbligatoria (è una loro invenzione perché fino ad allora solo i nobili andavano a far la guerra e per il tributo del sangue erano esonerati dalle tasse). Nello stesso giorno chiudono tutte le, loro chiese. I contadini vandeani si sono ribellati: allora tanto vale morire per difendere la nostra libertà. Hanno imposto ai nobili, assai refrattari, di mettersi al comando dell’esercito cattolico di Vandea e sono andati al massacro, perché sproporzionata era la loro preparazione al confronto di quella dell’esercito di Clébert. Così la Vandea è stata schiacciata senza pietà. Ma vorrei ricordare che sotto le insegne del Sacro Cuore combatterono anche dei battaglioni dei paesi protestanti della Vandea. Cattolici, protestanti ed ebrei affrontarono insieme la ghigliottina, per esempio a Montpellier, per difendere la libertà.
Ma in Vandea non finisce così.
Questo è il capitolo più orrendo. Nel di cembre 1793 il governo rivoluzionario d ordine di sterminare la popolazione dell 778 parrocchie: “Bisogna massacrare le donne perché non riproducano e i bambini perché sarebbero i futuri briganti”. Questo scrissero. Firmato dal ministro della Guerra del tempo Lazare Carnot. Il generale Clébert si è rifiutato di eseguire quell’ordine: “Ma per chi mi prendete? Io sono un soldato non un macellaio”. Allora hanno mandato Turreau, un cretino, alcolizzato, con un’armata di vigliacchi.
Fu il massacro?
Nove mesi dopo il generale Hoche, nominato comandante, arrivò in Vandea. Restò inorridito. Scrisse una lettera memorabile e ammirabile al governo della Convenzione: “Non ho mai visto nulla di così atroce. Avete disonorato la Repubblica! Avete disonorato la Rivoluzione! Io porto alla vostra conoscenza che a partire da oggi farò fucilare tutti quelli che obbediranno ai vostri ordini…”. Cosa aveva visto? 250.000 massacrati su una popolazione di 600.000 abitanti, paesi e città rase al suolo e bruciate, donne e bambini orrendamente straziati. A Evreux e a Les Mains si ghigliottinavano a decine colpevoli solo di essere nati a Fontaine au Campte. Questo fu il genocidio vandeano. È questo che festeggiamo?
Fece scandalo, nel 1983, quando lei, per la prima volta, usò la parola genocidio, imputando la Rivoluzione. Perché?
I fatti parlano. Nessuno ha saputo negarli. E nulla può giustificare un simile orrore. Ma prima di me, nel 1894, fu un rivoluzionario socialista, Babeuf, che denunciò “il popolicidio della Vandea” (in un libro introvabile che noi abbiamo fatto ristampare). Non c’è differenza alcuna fra ciò che ha fatto il governo rivoluzionario in Vandea e ciò che ha fatto Hitler. Anzi una c’è. Hitler era scaltro e non dette mai per scritto l’ordine di eliminazione degli ebrei. Questi dell’89, oltreché assassini, erano anche stupidi e dettero l’ordine per scritto e lo pubblicarono perfino su Le Moniteur.
Certe persecuzioni hanno rinsaldato la fede del popolo. Ma questa francese sembra aver cancellato la cristianità.
Sì, è così. Per 15 anni fu resa impossibile la trasmissione della fede. Un’intera generazione. Pensi che Michelet fu battezzato a 20 anni e Victor Hugo non ha mai saputo se era stato battezzato o no. Le chiese chiuse. I preti uccisi o costretti a spretarsi e sposarsi o deportati e esiliati. Francamente io non capisco come oggi i cattolici possano inneggiare alla Rivoluzione, Altra cosa è il perdono e altra solidarizzare con i carnefici, rinnegando le vittime e i martiri. Penso che la Chiesa tema, parlando male della Rivoluzione, di sembrare antimoderna, di opporsi alla modernità. lo credo che sia il contrario. E sono orgoglioso che sia stato un Paese protestante come l’Inghilterra a dare asilo ai preti cattolici perseguitati. Infatti non c’è libertà più fondamentale della libertà religiosa”.
da Il Sabato, 29 aprile 1989
Voltaire: a lezione di antisemitismo
Gli ebrei di Alsazia e Lorena non hanno certo un buon ricordo della rivoluzione francese del 1789. Lo ricorda anche René Gutman, attuale gran rabbino di Strasburgo, tracciando un profilo del gran rabbino David Sintzheim, presidente del Gran Sinedrio all’epoca di Napoleone. I giacobini compirono in quelle regioni stragi e saccheggi analoghi a quelli contro i cristiani. E le sinagoghe, come le chiese, vennero devastate. L’intolleranza dei tolleranti, di cui naturalmente nei nostri manuali di filosofia non c’è traccia.
Un esempio per tutti? Il padre della Tolleranza per eccellenza, Voltaire, scriveva queste parole a proposito del popolo ebraico: “Non troverete in loro che un popolo ignorante e barbaro, che unisce da tempo la più sordida avarizia alla più detestabile superstizione e al più invincibile odio per tutti i popoli che li tollerano e li arricchiscono”. È quantomeno interessante scoprire, nei molti articoli loro dedicati nel Dizionario filosofico e in vari Dialoghi, quanto livore l’autore del Candide nutra verso gli ebrei.
A mettere in luce il suo atteggiamento ostile – e non solo il suo – nei confronti del popolo ebraico è stato lo storico Leon Poliakov nella celebre Storia dell’Antisemitismo. Il campo è però più ampio. Attilio Milano nella Storia degli ebrei in Italia nota come nonostante gli illuministi professassero una salda volontà di lotta contro l’oscurantismo e l’intolleranza, “non tutti seppero liberarsi dai vecchi preconcetti ed esprimere un giudizio equanime sulla questione ebraica”. E qui l’autore cita esplicitamente Montesquieu, D’Alembert e – udite, udite – proprio Voltaire.
Insomma, praticamente tre fra i più famosi illuministi francesi. Voltaire se la prende contro i riti e le tradizioni di questo popolo: “Ricordo bene che ci sono molti paesi, tra cui quello dei giudei, in cui talvolta gli uomini vengono mangiati gli uni dagli altri”, dice il Cappone in uno dei Dialoghi di Voltaire. E la Pollastra gli risponde: “Passi per questo. È giusto che una specie così perversa divori se stessa e che la terra venga purificata da questa razza”. Se queste affermazioni non sono sufficienti ve ne sono altre in cui Voltaire si scaglia contro la fede nei miracoli del Vecchio Testamento oppure quando li definisce “i più rozzi tra gli asiatici”.
Si sa molto bene quanto il celebre illuminista abbia attaccato la Chiesa, eppure non sembra sia stato più tenero verso gli ebrei: ovviamente il suo obbiettivo era la lotta a tutto ciò che lui non poteva comprendere e che, quindi, bollava come intolleranza. Solo in un determinato periodo della sua vita cambiò atteggiamento, come mette in evidenza Poliakov. E cioè quando andò in esilio a Londra.
Poi mutò nuovamente quando si dedicò all’attività finanziaria “riversando su questi capri espiatori la riprovazione che aveva per se stesso”. Nonostante l’atteggiamento ostile che molti illuministi mostrarono nei loro confronti, gli ebrei francesi più laici apprezzarono comunque il filosofo illuminista per la sua presunta lotta all’intolleranza senza sospettare che, come spiega ancora Poliakov, lo schiacciamento di quella che Voltaire definiva “l’Infame” preluderà a stragi ben più vaste.
È forse necessario, quindi, rivedere la tesi secondo cui la Chiesa cattolica sarebbe dietro ogni forma di antisemitismo e riflettere su quanto ha detto lo storico ebreo Michael Tagliacozzo (cit. da Antonio Gaspari, Gli ebrei salvati da Pio XII, ed. Logos, Roma, 2001): “Per capire l’essenza dell’antisemitismo bisogna riflettere su una frase che Hitler pronunciò durante una conversazione a tavola: “Odio gli ebrei perché hanno dato al mondo quell’uomo Gesù”. D’altronde, Voltaire stesso riconosce il profondo legame fra ebrei e cristiani”. L’odio agli ebrei è andato spesso di pari passo con quello ai cristiani. Molte volte l’uno preparava all’altro. Ecco perché fa riflettere che Solovev concluda il suo Breve racconto sull’Anticristo con la sconfitta del male tramite un’alleanza fra ebrei e cristiani.
Debora Donnini
Tempi , 12 aprile 2001
Morte di Dio, morte dell’uomo
(..) Secondo una suddivisione oggi purtroppo accettata in tutto l’Occidente, la storia degli ultimi millecinquecento anni viene distinta in due parti. La prima, dalla fine dell’Impero Romano al Rinascimento, corrisponde ad un unico periodo, chiamato Medioevo, nel quale vengono fatti coesistere i secoli oscuri della prevalenza barbarica e i successivi secoli della Res Publica Christiana e del Sacro Romano Impero, gli unici, questi, in cui il cristianesimo ha permeato in qualche modo la vita della società. Si tratterebbe in sostanza di un unico periodo regressivo per l’umanità.
La seconda parte comincia con il Rinascimento, che rappresenta l’inizio dell’età moderna, o del progresso. In realtà nel Rinascimento ha avuto luogo la rinascita del paganesimo, non più però nella sua versione antica, che dava anche spazio a Dio, o almeno agli dei, tanto che Cicerone poteva scrivere: “Apud nos omnia religione reguntur” (presso di noi tutto si regge sulla religione), e nel quale potevano comparire figure come Virgilio naturaliter christianus. Il nuovo paganesimo rinascimentale, invece, dopo aver conosciuto Cristo, lo respingeva: era dunque contro cristo e contro Dio. Partendo appunto da lì si è arrivati nel nostro secolo alla proclamata “morte di Dio”, che costituisce il nucleo caratterizzante la filosofia laicista contemporanea.
Quella esclusione di Dio dalla vita concreta della società ha prodotto fin da subito frutti amari: anzitutto, durante lo stesso Rinascimento, ha prodotto un primo piccolo Hitler o Stalin, con il Duca Valentino, che è stato assunto da Macchiavelli come il modello della politica nuova e razionale, quella del fine che giustifica i mezzi. Non a caso ai nostri giorni Gramsci, fornendo il più moderno studio della politica preconizzata dal comunismo, ha dato al Partito il nome di “Nuovo Principe”.
Più tardi, un secondo frutto tipico dell’esclusione di Dio dalla società degli uomini è stato, durante la Rivoluzione francese, il tremendo massacro vandeano, che ha presentato caratteristiche di genocidio e di menzogna molto simili a quelle comparse poi su scala molto maggiore nel nostro secolo.
Infine il frutto maggiore, almeno fino ad oggi, è costituito appunto dalle stragi naziste e comuniste nel nostro secolo, che hanno comportato milioni e milioni di morti. La “morte di Dio”, infatti, comporta come stretta conseguenza la nullificazione dell’uomo. Di tutto questo la gente sa ben poco, perchè il nostro è il tempo delle mezze verità, cioè in conclusione della menzogna. (..)
Eugenio Corti
da un’intervista a Tracce , maggio 1997
La schiavitù della menzogna
(..) La menzogna è sempre non libertà e non è un caso, soprattutto però non è falso, che nel ricordo di Israele l’Egitto appare come una casa di schiavi, come un luogo di non-libertà. Solo la verità rende liberi. Dove l’utilità viene anteposta alla verità l’uomo diventa schiavo dell’utilitarismo e di coloro che possono decidere quale sia l’utile. (..)
I temi del vero e del bene non sono separabili. Platone aveva ragione identificando il punto più alto del divino con l’idea del bene. Inversamente se non possiamo conoscere la verità riguardo a Dio, allora anche la verità riguardo a ciò che è bene e a ciò che è male resta inaccessibile. In tal caso non esiste il bene e il male; rimane solo il calcolo delle conseguenze: l’ethos viene sostituito dal calcolo.
Detto ancora più chiaramente: le tre domande sulla verità, sul bene, su Dio sono un’unica domanda. E se a essa non c’è risposta, allora brancoliamo nel buio riguardo alle cose essenziali della nostra vita. Allora l’esistenza umana è veramente “tragica” – allora certamente capiamo anche cosa debba significare redenzione. Il concetto biblico di Dio riconosce Dio come il Bene, come il Buono (cfr. Mc 10,18).
Questo concetto di Dio raggiunge il suo culmine nell’affermazione giovannea: «Dio è amore» (1Gv 4,8). Verità e amore sono identici. Quest’affermazione – se ne raccoglie tutta la sua portata – è la più grande garanzia della tolleranza; di un rapporto con la verità, la cui unica arma è essa stessa e quindi l’amore.
Card. Joseph Ratzinger
Riv. Tracce , aprile 2002
Il dramma dell’umanesimo ateo
(..) Umanesimo positivista, umanesimo marxista, umanesimo nietzschiano; molto più che un ateismo propriamente detto, la negazione che sta alla base di ognuno di essi è un antiteismo, e più precisamente un anticristianesimo. Per quanto siano tra loro contrapposte, le loro implicazioni, sotterranee o manifeste, sono numerose, e come hanno un fondamento comune nel rifiuto di Dio, così pure arrivano a esiti analoghi, il più importante dei quali è l’annientamento della persona umana.
Feuerbach e Marx, così come Comte e Nietzsche, erano convinti che la fede in Dio stesse scomparendo per sempre, che questo sole stesse tramontando sul nostro orizzonte per non sorgere mai più. Il loro ateismo si credeva e si voleva definitivo, pensando di avere un vantaggio sugli antichi ateismi, quello di eliminare completamente il problema che aveva fatto nascere Dio nella coscienza.
Antiteisti come Proudhon, e in un senso ancor più radicale, essi non sono arrivati a concludere come lui che l’esistenza di Dio, quanto quella dell’uomo, “è provata dal loro antagonismo eterno”. Essi non hanno avuto come lui quel senso di un ritorno offensivo del mistero, e di un mistero che non è solo quello dell’uomo, dopo ogni sforzo tentato per vincerlo. Dietro la varietà dei suoi stili, il loro “umanesimo” ci appare ugualmente cieco.
Nietzsche stesso è rimasto sepolto nella sua notte, e tuttavia il sole non ha smesso di sorgere! Quando Marx non era ancora morto e Nietzsche non aveva ancora scritto i suoi libri più scottanti, un altro uomo, pure lui genio inquietante ma più veritiero profeta, annunciava con strani bagliori la vittoria di Dio nell’anima umana, la sua eterna resurrezione.
Dostoevskij non è che un romanziere. Non propone un sistema, non fornisce alcuna soluzione ai terribili problemi che pone al nostro secolo l’organizzazione della vita sociale. È, se vogliamo, in una condizione di inferiorità. Ma sappiamo almeno riconoscere il significato di un simile fatto. Non è vero che l’uomo, come sembra talvolta si dica, non possa organizzare il mondo terreno senza Dio.
È vero però che, senza Dio, non può alla fin dei conti che organizzarlo contro l’uomo. L’umanesimo esclusivo è un umanesimo disumano. Del resto, la fede in Dio, quella fede che ci inculca il cristianesimo in una trascendenza sempre presente e sempre esigente, non ha come scopo di sistemarci comodamente nella nostra esistenza terrena per farci addormentare in essa – per quanto febbricitante possa essere il nostro sonno. Ma, piuttosto, essa ci rende inquieti e incessantemente viene a rompere quell’equilibrio troppo bello delle nostre concezioni mentali e delle nostre costruzioni sociali.
Irrompendo in un mondo che tende sempre a chiudersi, Dio vi apporta senza dubbio un’armonia superiore, ma che può essere raggiunta solo a prezzo di una serie di rotture e di lotte, serie lunga tanto quanto il tempo stesso. “Non sono venuto a portare la pace, ma la spada”: Cristo è anzitutto il grande turbatore. Questo non vuol dire certamente che non vi sia una dottrina sociale della Chiesa che deriva dal Vangelo.
Tanto meno ciò tende a distogliere i cristiani, uomini e membri della città come i loro fratelli, dallo sforzo di risolvere, in conformità con i princìpi della loro fede, i problemi della città: essi anzi vi si sentono spinti da una necessità in più. Ma nello stesso tempo sanno che, siccome il destino dell’uomo è eterno, non deve fermarsi alla vita di quaggiù.
La terra, che senza Dio potrebbe cessare di essere un caos solo per diventare una prigione, è in realtà il campo magnifico e doloroso dove si prepara la nostra esistenza eterna. Così la fede in Dio, che nulla potrà mai strappare dal cuore dell’uomo, è la sola fiamma nella quale si conserva, umana e divina, la nostra speranza.
Henri De Lubac
Il dramma dell’umanesimo ateo, Jaka Book