di Giovanni Cantoni
1. L’Insorgenza e la sua problematica
Fra le ragioni all’origine dell’oblio che ha accompagnato e che accompagna da circa due secoli il fenomeno dell’Insorgenza in Italia (1792-1815) (1) ha avuto e ha certamente parte rilevante la «malizia ideologica» di storici e di storiografi. Tuttavia sulla «fortuna» del fenomeno ha inciso e incide in misura non trascurabile anche il suo carattere localistico.
Infatti per la sua rilevazione, identificazione ed emersione bisogna non solamente catalogare piccoli avvenimenti — oggetto di studi eruditi, nel senso limitativo del termine «erudizione», inteso come complesso di cognizioni non organicamente unite o, almeno, non organizzate benché altamente specializzate —, ma, subito dopo, svolgere una riflessione su di essi all’interno anzitutto di una «rete», poi di un modello ideale, che integri appunto sia la «piccolezza» dei fatti sia la carenza di protagonisti di misura consistente e/o la presenza di un protagonista per certo consistente ma generico qual è il «popolo».
Quanto ho appena affermato trova conferma nell’attenzione pressoché unica riservata per un lungo lasso di tempo, all’interno del fenomeno costituito dall’Insorgenza in Italia, al solo periodo del cosiddetto Triennio Giacobino (1796-1799) se non, addirittura, al solo 1799 e, nell’ambito di questo anno, solamente alla Santa Fede e al cardinale Fabrizio Ruffo di Baranello (1744-827) (2), trascurando altri episodi, altre espressioni dello stesso fenomeno pur significative, ma d’inevitabile misura minore in quanto prodottesi in Kleinstaat, in piccole realtà statuali (3), comunque decisamente meno estese del Regno di Napoli.
2. «Stato»
In altri termini: per l’identificazione dell’Insorgenza serve non solo il superamento di tali limitazioni cronologiche e della prospettiva localistica, ma anche l’uso di un modello, che sia applicabile a ogni situazione spazio-temporale, circa il gradimento sociale o il mancato gradimento di ogni evento — espresso oppure esprimibile istituzionalmente o con modalità para– oppure extra– istituzionali, non escluso l’uso della forza, ma non soltanto attraverso l’uso di essa — e che indaghi sulla consistenza appunto sociologica, sullo spessore sociale, sull’estensione nello spazio e nel tempo di entrambe le reazioni ipotizzate.
Queste notazioni non solamente inducono ma costringono a incrociare la storia degli avvenimenti con quella delle istituzioni, rilevando così frizioni analoghe e concomitanti fra il soggetto della vita sociale, ossia la società, il popolo, e la sua organizzazione politica, il suo ordinamento politico, il suo contenitore, cioè lo Stato.
Comincio dallo Stato, del quale si è perduta — e non solo nel linguaggio corrente — l’origine come sostantivizzazione del participio passato del verbo «essere»: status civitatis, status societatis, «stato della società», condizione politica del corpo sociale, del popolo. Questa perdita di consapevolezza linguistica si è fatta in qualche modo dottrina, finalmente consapevole accettazione dell’imprecisione, quest’ultima talora presente, benché denunciata in quanto tale, anche nello specialista; per esempio, lo storico del diritto Emilio Bussi (1904-1997) confessa: «[…] continueremo ad usare la parola Stato, ben sapendo, però, di non farne sempre un uso esatto» (4); e, nello stesso senso, un altro storico del diritto, Paolo Grossi, afferma: «[…] noi moderni usiamo correntemente concetti e termini come “Stato” […] caricandoli di quei contenuti che la coscienza moderna vi ha grevemente sedimentato; concetti e termini compromessi inevitabilmente da quei contenuti. Se, come disinvoltamente si fa da storici e anche da storici del diritto, siffatti concetti e termini vengono trapiantati nel tessuto medievale quasi che un continuum legasse quel tessuto a noi; se invece, come positivamente è, il rapporto medievale/moderno si pone all’insegna della discontinuità con un cambiamento dei valori portanti dell’universo politico e giuridico, quei concetti-termini si risolvono in una forzatura della realtà storica e, anziché strumenti di comprensione, fungono piuttosto da pericolose matrici di fraintendimenti ed equivoci» (5).
Ma la consapevolezza dell’equivocità dell’uso è per certo assente nella comune degli uomini, a partire da quelli perfettamente disinformati, se mai questa genia esista. Per verificare la tesi basta recensire il lessico di un quotidiano, in cui, sempre per esempio, non si distingue «Stato» da «Stato»: in questo modo si ammette, attraverso l’unicità dell’uso terminologico, che «[…] lo Stato è ciò a cui si riconnettono le forme dei vari assetti del potere e della coscienza che si ha della loro natura» (6), però non si ammette che «[…] in ogni momento storico vi è una coesistenza di tipi statali, come di idee, di consapevolezze e perfino di ideologie che vi corrispondono» (7), e non si riconosce che «[…] in una medesima area geografica […] si possono dispiegare contemporaneamente profili irriducibili di Stato» (8).
Inoltre termini quali «società», «Stato», «nazione», «Paese» e «patria» sono utilizzati in modo ampiamente fungibile, cioè vengono trattati alla stregua di sinonimi. Così «Stato» è divenuto categoria specificata da varia aggettivazione — antico, feudale, patrimoniale, moderno, e così via — e il predominante riferimento temporale, di nuovo per esempio, nel caso di «moderno» ne ha prima messi in ombra, poi tendenzialmente annientati, i caratteri specifici.
3. Lo sviluppo dello «Stato moderno»
Trascuro il problema in sé. Mi limito a rilevare che un segmento del problema evocato, «Stato moderno», non è equivalente a «Stato contemporaneo», a «Stato oggi», ma è termine storicamente determinato, tecnico (9), cioè indica l’organizzazione politica che si è sviluppata soprattutto a partire dalle Signorie del tardo Medioevo italiano per quindi sfociare nei Principati del Rinascimento (10) e che ha raggiunto la sua perfezione, nel senso di punto d’arrivo della sua maturazione strutturale e storica, con lo Stato totalitario.
Nello sviluppo della realtà «Stato moderno» il tempo della Rivoluzione Francese del 1789 è significativo, dal momento che in esso s’inverano quasi puntualmente le linee di tendenza presenti nello Stato assolutista o d’Antico Regime, e costituisce premessa indispensabile dei futuri sviluppi.
Della prima fase del processo è sintesi felice — impreziosita dalla contemporaneità — quanto scritto segretamente al re di Francia, Luigi XVI di Borbone (1754-1793), da Honoré-Gabriel Riqueti, conte di Mirabeau (1749-1791), meno di un anno dopo l’inizio della Rivoluzione dell’Ottantanove: «Confrontate il nuovo stato di cose con l’antico regime; da questo confronto nascono il conforto e la speranza. Una parte degli atti dell’assemblea nazionale, ed è la parte maggiore, è palesemente favorevole a un Governo monarchico. Non vi sembra nulla essere senza Parlamento, senza paesi di Stato [Pays d’État, province che hanno conservato i propri Stati Provinciali, cioè una propria assemblea rappresentativa], senza Ordini del clero, della nobiltà, dei privilegiati? L’idea di formare una sola classe di cittadini sarebbe piaciuta a Richelieu [Armand-Jean du Plessis, cardinale e duca di (1585- 1642)]: questa superficie tutta uguale facilita l’esercizio del potere. Parecchi periodi di governo assoluto non avrebbero fatto per l’autorità regia quanto questo solo anno di rivoluzione» (11).
Quanto agli sviluppi, riflettendo sulla puntuale descrizione della problematica colpisce la coerenza, la continuità fra la tesi — e l’ipotesi — assolutistica e la Gleichschaltung, l’«uniformizzazione» del corpo sociale operata dal regime nazionalsocialista, benché si tratti di realtà analoghe e non identiche dal momento che la monarchia assoluta non va in nessun modo confusa, in quanto tale, con lo Stato assoluto (12). Ebbene, a proposito della Gleichschaltung lo studioso di Scienza Politica Paolo Farneti (1936-1980) scrive: «[…] il livellamento demagogico del nazismo in Germania ha portato a termine una rivoluzione (che implicava la liquidazione della classe aristocratica e del suo potere nell’amministrazione e nell’esercito e della classe media indipendente, come fattore “costante” della politica tedesca) che avrebbe dovuto esser stata attuata dalla Repubblica di Weimar [1919-1933]» (13).
4. «Stato moderno»: una «quasi-Chiesa»
Passo da osservazioni di carattere strutturale sulla realtà «Stato moderno » alla qualificazione e alla rilevanza sociale della stessa realtà. Prendendo in esame l’influenza reciproca, l’interazione fra la sfera religiosa e quella temporale all’inizio dell’«autunno del Medioevo» (14), lo storico tedesco del diritto e delle istituzioni medioevali, Ernst Hartwig Kantorowicz (1895-1963), nota come, allora, «[…] il centro di gravità, se così possiamo dire, si spostò dall’autorità personale del Medioevo alle forme collettive dei tempi moderni, ai nuovi stati nazionali e alle altre comunità politiche. Gli scambi e gli influssi tra la Chiesa e lo Stato non riguardarono più il singolo detentore del potere, ma le comunità. […] lo Stato dimostrava una tendenza crescente a diventare una quasi-Chiesa e una monarchia mistica fondata su basi razionali. In queste acque — torbide, se vogliamo — il nuovo misticismo dello Stato trovò la sua origine e il suo sviluppo» (15).
E ancora: «Quando la nazione si trovò a indossare le vesti papali del principe, lo Stato assoluto moderno fu in grado di avanzare pretese allo stesso modo della Chiesa perfino in assenza di un Principe» (16). Dunque, «fino al Rinascimento — sintetizza lo studioso spagnolo d’istituzioni politiche Dalmacio Negro Pavón —, la storia d’Europa è solamente una serie di capitoli nella storia della Chiesa e, di conseguenza, della religione cristiana. La religione era il pubblico nel suo significato semantico di populus, il popolare, il comune, la res publica. Da qui la frequente caratterizzazione della civitas christiana, la forma storico-politica medioevale che si accorda idealmente con l’ordine naturale di creazione divina, come una res publica christiana.
«Il Rinascimento è l’epoca della comparsa dello Stato, al cui consolidamento ha contribuito in modo decisivo la Riforma protestante. E non sarebbe esagerato affermare, con finalità ermeneutiche, che, a partire dal secolo XVI, la storia d’Europa si può intendere, interpretare e sintetizzare come una serie di capitoli della storia dello Stato, dell’ordine statale. Lo Stato, che concentra e centralizza ogni genere di potere, il Potere, è cresciuto a spese della diminuzione della Chiesa, che difendeva la società naturale, l’ordine naturale. Invertendo lo stato delle cose, il particolarismo statale ha sostituito l’universalismo ecclesiale» (17).
L’esito dell’itinerario, del processo, è ben descritto non da uno storico, ma da un politologo inglese contemporaneo, Robert Cooper: «Molto tempo fa, le nostre vite e le nostre morti, le nostre città ed i nostri villaggi, le nostre menti ed i nostri corpi erano governati dal grande mistero della religione. Al centro di ogni villaggio e di ognicomunità sorgeva la chiesa; e nel cuore di ogni città esisteva una cattedrale imponente. Le dinastie andavano e venivano; ma la chiesa continuava a rappresentare la fonte ultima di un’autorità a cui persino re e imperatori s’inchinavano (qualche volta, se non altro).
«Oggi, la nostra vita è governata da un mistero altrettanto grande: lo Stato. E tanto più misterioso in quanto nostra creazione; cui dedichiamo, peraltro, una scarsa attenzione. «Paghiamo le tasse (qualche volta, se non altro) e ne rispettiamo le leggi. Ci lamentiamo della sua burocrazia e della sua inefficienza, ma difficilmente possiamo immaginare una vita in cui non ci sia posto per lo Stato» (18). E ancora: «La nascita dello Stato moderno risale a circa cinquecento anni fa, allorché, gradualmente, i regni cessarono di essere proprietà privata del re, e quest’ultimo cessò di essere un soggetto privato, diventando invece la personificazione della collettività su cui regnava: la res publica.
Sempre a quell’epoca, gli ambasciatori cominciarono a trascurare il compito di trovare al re una consorte che portasse in dote un altro regno e presero invece a coltivare alleanze che avevano meno a che fare con legami di sangue, matrimoni o terre. È l’epoca in cui Machiavelli [Niccolò (1469-1527)] comincia a tracciare una differenza tra morale della sfera privata, in cui a dominare erano sempre la chiesa e l’etica cristiana, e le regole che governano gli Stati» (19).
5. Rivolte, rivoluzioni, Rivoluzione
A questo punto incrocio — come ho già annunciato — l’itinerario di sviluppo dello Stato moderno con le reazioni a tale sviluppo, ben note come ribellioni o rivolte, ma generalmente non collegate fra loro, mentre — mi pare — tale collegamento concettuale, pur se per certo non fattuale, è verosimile e coerente dal punto di vista sostanziale. Infatti, «rivolta» è termine con il quale si può indicare una manifestazione d’insofferenza di un corpo sociale nei confronti d’ingiustizie consuetamente vissute come imputabili a singoli, non a strutture, e intesa a correggere appunto tali ingiustizie, eventualmente a rettificare una struttura politico-sociale, non — dichiaratamente e consapevolmente — a rifondarla bensì a riportarla ai suoi princìpi originari (20).
Per contro, quando è in questione la struttura in sé, il termine più proprio per indicare il fenomeno può essere quello di «rivoluzione», che prende di mira formalmente persone, ma sostanzialmente strutture (21). In questa prospettiva le rivolte che accompagnano lo sviluppo dello Stato moderno possono facilmente venire classificate se non come insorgenze, almeno come pre-insorgenze. Certo, senza la completezza dell’Insorgenza vero nomine, che reagisce alla Rivoluzione Francese, ma con tratti sostanziali di profonda analogia con tale reazione.
Per intendere i termini di cui mi servo sia per descrivere che per interpretare il fenomeno «Insorgenza » ritengo preventivamente non solo utile, ma decisamente indispensabile approfondire un poco la distinzione enunciata fra le rivolte e le rivoluzioni e introdurre la loro concettualizzazione. Infatti le prime, le rivolte, rivelano, attraverso il dissenso materiale, fisico, il venir meno del consenso, cioè del momento «democratico», del momento di democrazia implicita, «passiva», «debole», presente in ogni regime politico, si voti o non si voti periodicamente, valga o non valga il principio one man one vote, «un uomo un voto»; invece le seconde, le rivoluzioni, nascono dal proposito — di diversa consapevolezza, ampiezza e profondità e di diversa natura, dal momento che possono derivare da errore e/o da malizia — di mutare l’ordinamento politico della società e, attraverso il mutamento dell’ordinamento politico, la società stessa quando non — con interventi e disposizioni nel campo della biotecnologia — l’umanità in quanto tale, finalmente la natura umana.
Ancora: le prime, le rivolte, colgono implicitamente la distinzione fra la società e il suo ordinamento politico o Stato. Infatti queste realtà hanno diversa origine, dal momento che la società nasce direttamente dalla natura umana, mentre lo Stato ne deriva indirettamente, al punto che — con il linguaggio della Scolastica — si potrebbe qualificare quest’ultimo come «di diritto naturale secondario», dal momento che prevede il passaggio dall’implicita sovranità sociale all’esplicita sovranità politica attraverso la mediazione di procedure più o meno evidentemente di natura pattizia, grazie alla realizzazione del cosiddetto «patto sociale» (22).
Di questo costituisce strumento fondamentale il giuramento nella sua forma promissoria, il cui modello, sotto il profilo storico e in qualche modo sotto quello fondativo, si trova nello «Stato nell’alto Medioevo (Personenverbandsstaat [Stato come unione di persone])» (23), in cui «[…] ogni uomo in qualche modo attraverso il sacramentum iuris diventa soggetto attivo, con poteri e ruoli naturalmente molto differenziati ma non qualitativamente diversi, in una società nella quale, nel disfacimento dell’antico ordinamento e sotto la pressione della vitalità barbarica, il diritto è allo statu nascenti» (24).
Si tratta, dunque, di un modello che dice relazione sia al mondo europeo continentale sia a quello della Magna Europa (25), il mondo «creato» (26) o «coniato» (27) nelle più diverse parti dell’orbe dall’uomo europeo, abitato dall’uomo occidentale e cristiano, e del quale lo storico messicano Carlos Pereyra (1871-1942) traccia un identikit abbastanza somigliante quando constata che «con la scoperta dell’America il mondo occidentale trovò una seconda Europa, prolungata fino all’Oceania. L’Africa non ha smesso di essere l’Africa: quasi completamente posseduta e dominata da europei, ha solo piccole porzioni europeizzate e nell’insieme conserva la propria fisionomia di continente nero. Soltanto in America e in Oceania vediamo le esperienze d’Europa assumere proporzioni gigantesche» (28).
Dal canto loro le seconde, le rivoluzioni, estendono erroneamente e/ dolosamente il momento patrizio dallo Stato, cioè dall’ordinamento politico, alla società, e di questa estensione è espressione in equivoca la nozione del cosiddetto «contratto sociale» (29). Si tratta — sia detto di passaggio, con l’intento di favorire la comprensione del processo — di un’operazione analoga — benché di direzione rovesciata, perché fatta dal basso all’alto — a quella che connota un uso improprio della virtù politica per eccellenza, la prudentia (30), quando essa, invece di mediare fra princìpi e fatti, quindi dall’alto al basso, viene attivata per mediare all’interno della costellazione dei princìpi, perciò finisce per produrre compromessi non di fatto, ma di principio.
Ancora: mentre il patto intende realizzare un istituto naturale, cioè iscritto da Dio nella natura degli uomini, il contratto aspira a ricreare quando non a inventare tale istituto. Comunque, in termini molto semplici — ma che non per questo mi paiono banali — la società nasce dal rapporto che lega padri e figli, genitori e figli: si tratta di un rapporto che talora trascende la relazione biologica e si viene estendendo con espressioni simili al rapporto di consanguineità, al rapporto biologico, e su questo esemplate; dal canto suo lo Stato, l’ordinamento politico, è costituito dal rapporto che può legare uomini adulti e liberi, proprio perché adulti però non dimentichi della propria natura, del proprio passato e della propria famiglia, quindi della natura, del passato e della famiglia, cioè non tali da poterli dimenticare: se ne può considerare tipo il matrimonio, il più rilevante degl’istituti possibili.
Così, per esempio, nel tempo storico che va dal secolo XV al secolo XVIII, le rivolte esprimono non solo — anche se non sempre — forte insoddisfazione contro un cattivo governo, contro una cattiva gestione dell’ordinamento politico, ma denunciano e si oppongono al costituirsi dell’Antico Regime in senso stretto ovvero all’assolutismo — più o meno «illuminato» — dei monarchi e all’accentramento delle strutture del potere, quindi sono, per un certo verso, pre-insorgenze non contro lo Stato moderno nella sua maturità — come ho anticipato, per la sua «perfezione» bisognerà attendere lo Stato totalitario del secolo XX — bensì contro ogni fase di formazione di tale Stato moderno, così definito in senso tecnico e — come ho già sottolineato — per nulla equivalente a «Stato di questo tempo» (31).
Il processo che viene ostacolato dalle rivolte prevede la fine sia delle sovranità sociali sia delle libertà concrete, e il trionfo della Libertà astratta e della Sovranità concentrata nello Stato e da questo trasformata appunto da superiorità in puro potere e, in quanto potere, monopolizzata.
L’unitarietà del processo descritto, pur nella diversità delle sue fasi e delle sue espressioni, a partire dalla Rivoluzione Francese ha suggerito a più soggetti, di diversa competenza e di diverso campo d’azione, ma tali da costituire involontariamente una scuola di pensiero e d’azione culturale — ne indicherò più avanti alcuni esponenti — e continua a suggerire a chi tale scuola segue la concettualizzazione, l’elevazione a categoria di tale processo, l’indicazione di esso e del suo spirito con il termine «Rivoluzione», con la maiuscola, come l’indicazione dell’opposizione a tale processo con il termine di «Contro-Rivoluzione». E della Contro-Rivoluzione l’Insorgenza si rivela momento in cui la resistenza al processo rivoluzionario si fa da passiva attiva.
6. Una relazione fra reazione e rivoluzione
Prima di procedere nell’itinerario identificativo dell’Insorgenza come categoria storico-politica, dopo aver descritto quanto differenzia rivolte e rivoluzioni, merita almeno un cenno una loro significativa relazione. Di essa trovo tracce e suggestioni illuminanti in due documenti, di diversa portata. Il primo è l’Auto-retrato filosófico de Plinio Corrêa de Oliveira (1908- 1995), in un passaggio del quale il pensatore brasiliano, storico, filosofo e teologo della storia, scrive: «Attraverso vicissitudini storiche ben note, la Rivoluzione Francese, apparentemente chiusa con l’instaurazione dell’Impero, si propagò in tutta l’Europa nello zaino delle truppe di Napoleone [Bonaparte (1769-1821)]. Le guerre e le rivoluzioni che segnarono il periodo dal 1814 al 1918, cioè dalla caduta di Napoleone fino a quella degli Asburgo, dei Romanov e degli Hohenzollern, hanno costituito un insieme di sommovimenti nel corso delle quali l’intera Europa si trasformò secondo lo spirito della Rivoluzione Francese. I risultati della II Guerra Mondiale [1939-1945] non fecero che accentuare ancora di più questa metamorfosi. Attualmente, delle antiche monarchie europee ne resta soltanto una mezza dozzina, tutte così timide nel farsi sentire e così docili nel lasciarsi modellare sempre più dallo spirito repubblicano, da dar l’impressione che si scusino continuamente di essere ancora in vita…
«Facendo queste osservazioni, non voglio assolutamente negare che, nelle strutture distrutte in questo modo, esistessero abusi reali, i quali richiedevano di venire corretti. Né voglio dire che l’adozione di una forma di governo elettiva e popolare possa derivare soltanto dallo spirito ugualitario e liberale che sto analizzando. Questo non sarebbe vero in dottrina né sarebbe giustificato dal punto di vista della storia. Il Medioevo conobbe diverse strutture politiche aristocratiche, benché non monarchiche, come la Repubblica di Venezia, e diverse strutture senza carattere monarchico né aristocratico, come certi cantoni elvetici e certe città libere tedesche. Tutte queste forme di governo convivevano pacificamente fra loro, perché si capiva la legittima diversità di forme di governo secondo i tempi, i luoghi e le altre circostanze.
«La Rivoluzione esplosa alla fine del Medioevo era animata da uno spirito completamente diverso da quello che aveva portato alla formazione degli Stati aristocratici o borghesi dell’Europa medioevale. Questo spirito comportava l’affermazione della libertà assoluta e anarchica, e dell’uguaglianza completa, come uniche regole di ordine e di giustizia, valide per tutti i tempi e per tutti i luoghi. «A sua volta, questo spirito minò la società borghese, politicamente ugualitaria, a cui aveva dato origine. E, infine, passò a manifestarsi nella più audace delle sue affermazioni, nella terza grande Rivoluzione dell’Occidente [dopo la prima, costituita da Umanesimo, Rinascimento e Riforma, e la seconda, la Rivoluzione Francese], che è il comunismo.
«La tesi ugualitaria si espresse nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo — magna charta della Rivoluzione Francese e dell’epoca storica da essa inaugurata — in tutta la sua evidenza: “Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti”. Chiaramente questo principio è suscettibile di una buona interpretazione. Fondamentalmente, cioè considerati nella loro natura, gli uomini sono veramente uguali. Sono disuguali soltanto per i loro caratteri accidentali. D’altra parte, essendo dotati di un’anima spirituale, e quindi d’intelligenza e di volontà, sono fondamentalmente liberi. I limiti di questa libertà si trovano soltanto nella legge naturale e divina e nel potere delle diverse autorità spirituali e temporali alle quali gli uomini si devono assoggettare.
«Nessuno può negare che in ogni tempo vi siano state autorità che hanno violato la fondamentale uguaglianza e la fondamentale libertà dell’uomo. È evidente che nel corso della storia si poterono osservare, in senso contrario, successivi movimenti di difesa contro gli eccessi dell’autorità per cercare di contenerla nei suoi giusti limiti. Ed è ugualmente indiscutibile che tali movimenti, in quanto circoscritti a questo obiettivo, meritano soltanto plauso. L’uguaglianza e la libertà — rettamente intese — potevano essere utilmente richiamate nel secolo XVIII come in qualsiasi altra epoca.
«È certo che, nel 1789, fra i rivoluzionari della prima ora, vi erano persone che desideravano soltanto un giusto contenimento del Pubblico Potere, e che intendevano l’uguaglianza e la libertà promulgate dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo nel loro significato più orientato al bene» (32).
Il secondo documento è un discorso di Papa Benedetto XVI, dove si situa uno di quegli obiter dicta — nel linguaggio giuridico in cui il termine nasce sono «affermazioni parentetiche», quasi annotazioni a piè di pagina, talora «portate nel testo» grazie alla loro reiterazione — che possono aiutare a orientarsi nel mondo e nella vita storici.
«Nella grande disputa sull’uomo, che contraddistingue il tempo moderno, il Concilio [Ecumenico Vaticano II (1962-1965)] doveva dedicarsi in modo particolare al tema dell’antropologia. Doveva interrogarsi sul rapporto tra la Chiesa e la sua fede, da una parte, e l’uomo ed il mondo di oggi, dall’altra […]. La questione diventa ancora più chiara, se in luogo del termine generico di “mondo di oggi” ne scegliamo un altro più preciso: il Concilio doveva determinare in modo nuovo il rapporto tra Chiesa ed età moderna. Questo rapporto aveva avuto un inizio molto problematico con il processo a Galileo [Galilei (1564-1642)].
Si era poi spezzato totalmente, quando Kant [Immanuel (1724-1804)] definì la “religione entro la pura ragione” e quando, nella fase radicale della rivoluzione francese, venne diffusa un’immagine dello Stato e dell’uomo che alla Chiesa ed alla fede praticamente non voleva più concedere alcuno spazio. Lo scontro della fede della Chiesa con un liberalismo radicale ed anche con scienze naturali che pretendevano di abbracciare con le loro conoscenze tutta la realtà fino ai suoi confini, proponendosi caparbiamente di rendere superflua l’”ipotesi Dio”, aveva provocato nell’Ottocento, sotto Pio IX [1846-1878], da parte della Chiesa aspre e radicali condanne di tale spirito dell’età moderna.
Quindi, apparentemente non c’era più nessun ambito aperto per un’intesa positiva e fruttuosa, e drastici erano pure i rifiuti da parte di coloro che si sentivano i rappresentanti dell’età moderna. Nel frattempo, tuttavia, anche l’età moderna aveva conosciuto degli sviluppi. Ci si rendeva conto che la rivoluzione americana [1776-1782] aveva offerto un modello di Stato moderno diverso da quello teorizzato dalle tendenze radicali emerse nella seconda fase della rivoluzione francese» (33).
I due passi suggeriscono anzitutto di avanzare la tesi secondo cui non tutte le rivoluzioni sono rivoluzioni, cioè momenti della Rivoluzione; quindi a dar corpo alla tesi secondo cui la reazione precede sempre la rivoluzione (34). Quanto alla prima tesi, essa appare evidente nella corrispondenza e nell’analogia fra la «rivoluzione americana» e la «prima fase della rivoluzione francese», dal momento che, fra «[…] i rivoluzionari della prima ora, vi erano persone che desideravano soltanto un giusto contenimento del Pubblico Potere, e che intendevano l’uguaglianza e la libertà promulgate dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo nel loro significato vero» e che «i parlamenti, nello Stato moderno, sono retroguardie feudali che tendono a scomparire» (35), come prova — fattualmente e ad abundantiam — l’atteggiamento verso la convocazione degli Stati Generali — gli États Généraux, l’assemblea feudale riunita la prima volta da re Filippo IV Capetingio il Bello (1268-1314) nel 1302, poi riunita ventidue volte in 487 anni, cioè fino al 1789, quando non veniva convocata dal 1614 — da parte di coloro che diverranno il simbolo dell’opposizione alla Rivoluzione dell’Ottantanove, i vandeani (36).
Circa la seconda tesi, quanto non funziona nella vita socio-politica sollecita un moto restauratorio che, in qualche modo, fa perdere l’equilibrio al corpo sociale. E tale moto, che nasce per migliorarne la condizione, può venire sfruttato per mutarne la natura. Così, in termini storico-simbolici, si può affermare che la Guerra d’Indipendenza Americana, benché in parte infiltrata dallo spirito propriamente rivoluzionario d’epoca — in proposito lo storico francese Marc Léopold Benjamin Bloch (1886-1944) cita un illuminante proverbio arabo secondo cui «gli uomini somigliano più al loro tempo che ai loro padri» (37) —, quindi ricuperata dalla Rivoluzione, dallo spirito del processo indicato con questo termine, non precorre la Rivoluzione Francese, ma, piuttosto, l’Insorgenza vandeana (1793- 1796) (38), mentre il savoiardo conte Joseph de Maistre (1753-1821) suggerisce piuttosto di rubricare fra gli avvenimenti precorritori la Rivoluzione Puritana degli anni dal 1640 al 1660 (39). La relazione fra la Guerra d’Indipendenza Americana e l’Insorgenza vandeana è espressa magnificamente dalla vita del nobile bretone Charles-Armand Tuffin, marchese de la Rouërie (1751-1793), la cui parabola merita di esser ricordata per le sue perfezione ed esemplarità.
Nato a Fougères, in Bretagna, nel 1751, egli combatte la Guerra d’Indipendenza di quelli che saranno gli Stati Uniti d’America con il nome di Colonel Armand, e in America rimane dal 1777 al 1784. Rientrato in Francia, con altri undici nobili si reca a Parigi a perorare la causa delle sopravviventi libertà bretoni — la Bretagna è ancora formalmente un ducato unito alla Francia nella persona del sovrano ed è già stata teatro, nel 1675, di una rivolta anti-fiscale detta Révolte du Papier Timbré o Rivolte des Bonnets Rouges (40) —, libertà conclusivamente annullate in quegli anni dalla politica accentratrice della monarchia assoluta: non viene ricevuto dal re, Luigi XVI di Borbone (1754-1793), è arrestato e rinchiuso alla Bastiglia dal 14 luglio al 15 agosto 1788, un anno prima del fatale 1789.
La conferma dell’abolizione di tali libertà da parte degli Stati Generali, il 4 agosto 1789, lo trasforma in contro-rivoluzionario e dal 1790 al 1793 sarà alla testa dell’Association Bretonne, da lui stesso fondata, che prepara l’insurrezione. Tradito da uno dei suoi, inseguito, muore in clandestinità il 30 gennaio 1793, in delirio all’annuncio dell’assassinio del re, avvenuto il 21 dello stesso mese. Sarà decapitato post mortem dai rivoluzionari (41).
Nei medesimi termini, che ho evocato relativamente alla Guerra d’Indipendenza dell’America Settentrionale, si deve correttamente parlare delle Indipendenze iberoamericane (1808-1826) (42). In entrambi i casi si tratta di fenomeni sorgivamente reazionari contro il mutamento rivoluzionario delle rispettive madripatrie, come, nello stesso episodio francese, la convocazione degli Stati Generali, nel 1789, non fu il primo atto della Rivoluzione Francese, che invece va riconosciuto nella trasformazione di tale parlamento, nello stesso anno, in Assemblea Nazionale. In tutti i casi si può notare che, quando le reazioni non precedono le rivoluzioni, è vistosa l’assenza di consenso sociale, sì che è possibile di conseguenza affermare che le rivoluzioni senza reazioni d’appoggio finiscono male, come provano, esemplarmente, i casi di Francisco Antonio Gabriel de Miranda (1752- 1816), in Venezuela nel 1806, di Carlo Pisacane, duca di San Giovanni (1818-1857), in Italia nel 1857, e di Ernesto «Che» Guevara de la Serna (1928-1967), in Bolivia nel 1967; se ne evince che sempre le rivoluzioni, quando hanno successo, o hanno una reazione d’appoggio, cioè il popolo è già mosso da motivi fondati, o sono golpe, tentativi, com’è ormai universalmente accettato nel caso della Rivoluzione d’Ottobre (43); oppure, quando non s’innestano su reazioni spontanee, sono gli stessi rivoluzionari a promuovere le reazioni su cui innestarsi.
Comunque, in tutti i casi evocati, si è trattato di reazioni almeno ricuperate, con maggiore o con minor successo e più o meno rapidamente, da rivoluzioni, ma sempre culturalmente latenti in quanto reazioni implicite oppure presenti come realtà riflesse, benché minoritarie dal punto di vista quantitativo, o localizzate, cioè esposte alla trasformazione in folklore locale: non è stato forse questo il destino degli scrittori statunitensi «sudisti»?
7. Resistenza e reazione, Insorgenza e Contro-Rivoluzione
La Rivoluzione Francese costituisce dunque passaggio politico-sociale nodale di un processo di cui sono momenti le diverse rivoluzioni, da quella «inglese» del 1688, la cosiddetta Gloriosa Rivoluzione, a quella «francese» del 1789, che rappresentano «salti di qualità» nella struttura dell’ordinamento politico degli Stati europei. Per individuare il tratto comune e fondamentale di queste rivoluzioni, si può parlare — con formulazione di Papa Giovanni Paolo II (1978-2005) — de «[…] il processo di secolarizzazione, cioè di estromissione della motivazione e della finalità religiosa da ogni atto della vita umana» (44), quindi anche dalla vita sociale, nel mondo occidentale e cristiano. In senso più ampio e in modo storicamente situato, lo stesso Pontefice afferma, in relazione all’Europa, che in essa, «purtroppo, alla metà dello scorso millennio ha avuto inizio, e dal Settecento in poi si è particolarmente sviluppato, un processo di secolarizzazione che ha preteso di escludere Dio e il cristianesimo da tutte le espressioni della vita umana.
«Il punto d’arrivo di tale processo è stato spesso il laicismo e il secolarismo agnostico e ateo, cioè l’esclusione assoluta e totale di Dio e della legge morale naturale da tutti gli ambiti della vita umana. Si è relegata così la religione cristiana entro i confini della vita privata di ciascuno» (45).
Ebbene, per relazione al soggetto storico in cui esplode e ha corso un processo rivoluzionario, in cui si stende una catena di rivoluzioni, la prima rivolta, la prima reazione è popolare, irriflessa, dunque, talora, anche confusa: è l’Insorgenza. In tutta Europa il popolo minuto — il popolo dei minores o almeno una parte non irrilevante di esso —, consuetamente più incline a resistere che a reagire, intuisce che, con le guerre d’invasione e con la conflittualità culturale e sociale, i rivoluzionari non intendono soltanto impadronirsi del potere per semplicemente proporsi come i nuovi titolari di esso e i nuovi percettori di tributi, ma se ne vogliono servire per «cambiare la vita», per «rifare il mondo», con mosse precorritrici di ogni totalitarismo, e da questo lontane solamente per rudimentalità di strumentazione: a quest’ultimo proposito, l’esempio più puntuale di quanto affermo è fornito dalla differenza fra i metodi di eccidio di massa messi in opera dai rivoluzionari «bleu», i repubblicani francesi in Vandea (46), e quelli poi utilizzati nel secolo XX dai rivoluzionari «rossi» e da quelli «bruni», cioè dai socialcomunisti russi e dai nazionalsocialisti tedeschi (47).
All’Insorgenza segue la reazione degl’intellettuali, cioè la reazione riflessa — così verificando storicamente e socialmente il detto scolastico secondo cui nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu — qual è quella, alla fine del secolo XVIII e nella prima metà del secolo XIX, della triade costituita dal già citato Maistre, dal francese Louis de Bonald (1754-1840) e dallo spagnolo Juan Donoso Cortés (1809-1853).
Preceduta in termini cronologici da quella dell’anglo-irlandese Edmund Burke (1729-1797), non cattolico ma, si potrebbe dire, a illuminazione cattolica, e dotato, dall’esperienza storica della sua area politico-culturale, delle categorie utili a comprendere il fenomeno, ovvero quelle fornite dalla Rivoluzione Puritana.
Anche se nei fatti, a proposito di quest’ultima e come sempre, non tutto è però chiaro come in sede classificatoria, «tassonomica»; così, fra i conservatori anglosassoni, è fonte di discussione la natura ultima di tale Rivoluzione Puritana, al cui riguardo Ernesto Galli della Loggia accoglie l’ipotesi della rivolta: «La destra nasce — afferma — dalla Rivoluzione francese, dalla rottura ideologica che essa determina e che influenzerà tutto il seguito della politica europea fino ai nostri giorni. La sostanza di questa rottura ideologica, molto specifica, verte sulla sovranità. Non era questo il caso di precedenti e comunque importanti cesure, come quelle prodotte dalle rivoluzioni inglese e americana. Esse non mettevano in causa il principio della sovranità, ma piuttosto il modo arbitrario in cui il potere veniva esercitato dal sovrano. In fondo, la differenza fra Rivoluzione inglese e Rivoluzione francese è inscritta nei processi ai rispettivi sovrani: Carlo I fu decapitato per come aveva esercitato i suoi poteri di re, Luigi XVI perché era il re, era un re» (48).
Il modello interpretativo sarebbe gravemente incompleto se non ricordassi che la resistenza prima, il moto popolare poi e, infine, la consapevolezza sono talora preceduti dall’intuizione del santo, dell’uomo spirituale, del poeta, che della catastrofe imminente ha pre-sentimento, talora anche pre-visione. Come pure di pre-visione dà testimonianza il grande chierico, attraverso l’uso di categorie storico-sociologiche. Il modello è verificato compiutamente nel «sistema» a suo modo costituito dalla predicazione di san Luigi Maria Grignion da Montfort (1673-1716) (49) e dalla sociologia di Giambattista Vico (1668-1744) (50), quindi dalla rivolta vandeana e dal pensiero contro-rivoluzionario francofono.
La dottrina della scuola che richiamo, espressa nei suoi «padri» in termini di fronteggiamento, di contrasto immediato dei fatti fondativi del sovvertimento dell’Antico Regime nella sua accezione più lata, e di tensione apocalittica a fronte della radicalità e della dimensione del fenomeno rivoluzionario — ma accompagnata dalla speranza teologale nella transitorietà del fenomeno stesso —, troverà però il tempo di una maggiore riflessione quando il fenomeno in questione si rivelerà di lunga durata — o come tale verrà finalmente còlto, percepito —, sì che alla «patristica» contro-rivoluzionaria seguirà quella che, in analogia con la cadenza storica della filosofia occidentale e della teologia cattolica, suggerisco di chiamare la «scolastica» contro-rivoluzionaria.
Così la dottrina della scuola — nella misura in cui coglie la differenza fra rivolta e rivoluzione, quindi l’esistenza della Rivoluzione — si «aggiorna» e si organizza intellettualmente negli esponenti francesi di essa nella seconda metà del secolo XIX, in Antoine Blanc de Saint-Bonnet (1815-1880), in Frédéric Le Play (1806-1882) e soprattutto in monsignor Henri Delassus (1836-1921), la cui opera Il problema dell’ora presente. Antagonismo di due civiltà, del 1904, costituisce in qualche modo il passaggio formale fra i due periodi (51).
E tale dottrina trova espressione matura negli esponenti del secolo XX, integrata in misura maggiore o minore da una fonte prima implicita e poi incipiente nei secoli XVIII e XIX ma esplicita nel secolo XX, il Magistero sociale della Chiesa Cattolica: lo svizzero Gonzague de Reynold (1880-1970), l’argentino don Julio Meinvielle (1905-1973), il già citato Corrêa de Oliveira — che nel 1959, in Rivoluzione e Contro- Rivoluzione, ne fornisce una sintesi magistrale (52) —, il francese Jean Ousset (1914-1994), che tenta di sistematizzarla in modo enciclopedico, e gli spagnoli Francisco Elías de Tejada y Spínola (1917-1978) e Rafael Gambra Ciudad (1920-2004).
8. Il popolo e la mentalità
Vengo al protagonista dell’Insorgenza, pre- o vero nomine: il popolo, la società. Le osservazioni di cui mi appresto a fare stato sono dello storico svizzero italiano Sandro Guzzi, che anzitutto dichiara di non volersi associare «a certe tendenze revisioniste della grande rivoluzione» (53), quindi fa propria la tesi giustificazionista di ogni «eccesso» rivoluzionario secondo cui «[…] nessuna conquista avviene senza relativi costi, sacrifici e senza ingiustizie» (54); e però gli «[…] sembra importante prenderne dovutamente coscienza in una prospettiva storica» (55).
In primo luogo — afferma —, «per comprendere i meccanismi profondi che influenzano i comportamenti popolari non è sufficiente analizzarne le “cause” immediate in un campo ritagliato secondo le competenze del ricercatore, ma è importante considerare la realtà vissuta dai ceti popolari nel complesso. Il rischio è altrimenti quello di situare i fenomeni in un contesto solo limitatamente pertinente» (56), mentre — appunto — «[…] la resistenza tradizionalista, a largo seguito popolare, mostra in luoghi disparati forme e motivi ispiratori molto simili. In questo senso, la dimensione strutturale, macrostorica, non può essere ignorata; si rischierebbe altrimenti di trattare un fenomeno europeo come un fatto locale, considerandolo — ancora una volta — in un contesto non pertinente» (57).
In secondo luogo si chiede: «Il popolo agisce in modo autonomo? Possiede una propria ideologia, o rappresenta un seguito più o meno passivo di altri gruppi? Esiste una politica popolare?» (58). «L’interrogativo ha senso solo se il termine “ideologia” è inteso come concetto generale, che abbraccia idee, comportamenti, attitudini differenti, tanto più quanto vasto ed eterogeneo è il campo considerato. Ma sarebbe fuorviante anche solo supporre che i personaggi popolari non avessero ideologia, o proprie idee sulla politica, la società, la famiglia, o che si facessero dettare tali idee dalle classi colte» (59).
Prova ne sia il fatto che, «nonostante la variabilità delle situazioni storiche e delle forme di espressione, alcune funzioni della resistenza — il riferimento a un’“economia morale”, il ruolo della religione, i tratti anticittadini e antiborghesi — appaiono come generali e costanti, esse furono condivise da popolazioni di regioni molto differenti fra loro» (60).
Dell’Insorgenza si sottolinea consuetamente il carattere di spontaneità. Ma questa spontaneità non ne esclude la ragionevolezza, cioè la ragionevole fondatezza nel caso concreto, né la circoscrive al popolo minuto lasciandone fuori altri segmenti della società, come per esempio la nobiltà, ma — eventualmente — solo la programmazione. Il che permette d’identificarne il motore nella mentalità (61), cioè ne «l’insieme delle disposizioni intellettuali, delle tendenze affettive e delle credenze fondamentali di un individuo» (62); o — ancora — ne «l’insieme delle reazioni abituali, caratteristiche di un individuo o di una collettività di fronte ai problemi della vita e dei rapporti con gli uomini» (63).
E — la proposta definitoria è del sociologo tedesco Theodor Geiger — «la mentalità è una disposizione spirituale (geistig-seelisch), è formazione dell’uomo attraverso il suo ambiente sociale e le esperienze che ne derivano. La mentalità, anche se collettiva, è spirito soggettivo, l’ideologia è spirito oggettivo. La mentalità è atteggiamento spirituale, l’ideologia invece è questo atteggiamento cristallizzato oggettivamente. La mentalità è una struttura mentale (Gistesverfassung), l’ideologia è riflesso ed auto-interpretazione. La mentalità è “anteriore”, appartiene ad un ordine primario, l’ideologia è “posteriore” e fa parte di un ordine secondario di cose. La mentalità è fluida, l’ideologia è ben strutturata. La mentalità è un orientamento vitale (Lebensrichtung) spontaneo, l’ideologia è conseguenza di una persuasione. Essa nasce dalla mentalità come autointerpretazione e viceversa: grazie a una mentalità tipica ad uno strato sociale sono disponibile per questa o quella dottrina ideologica, cioè essa è adeguata alla mie esigenze. In linguaggio figurativo, la mentalità è l’“atmosfera” come l’ideologia è la “stratosfera”» (64).
L’ipotesi formulata autorizza conclusivamente a proporre un modello completo, soggiacente a ogni insorgenza, benché non esplicitamente e completamente presente in ciascuna di esse, e a definirla reazione spontanea e non teorizzata a un passaggio del processo, più intuito che compreso, che interessa la vita politica e la sua massima espressione, lo Stato, e che porta allo Stato totalitario.
9. Fronda e Insorgenza transatlantica
L’ipotesi definitoria inserisce l’Insorgenza nel maggior quadro costituito dai fenomeni contro-rivoluzionari, cioè dei fenomeni che si oppongono al processo che lega ogni episodio rivoluzionario, indicabile e indicato simpliciter appunto come Rivoluzione (65). L’oggetto e la spontaneità che connotano l’Insorgenza autorizzano ad assimilare a essa anche fenomeni non solamente popolari, quale la Fronda (1648-1652/1653) (66), nella quale non manca certamente il popolo minuto, ma della quale è promotrice la nobiltà o, almeno, sulla quale appunto la nobiltà s’inserisce.
E dalla nobiltà verrà posteriormente — in perfetta coerenza con il modello proposto per l’Insorgenza e la strumentazione offerta da Geiger — la reazione intellettuale, i cui protagonisti saranno tutti aristocratici: gli ecclesiastici Jean le Laboureur de Bleranval (1623-1675), autore di Histoire de la Pairie de France e du Parlement de Paris, pubblicata postuma nel 1740 (67), e François de Salignac de La Mothe Fénelon (1651-1715), arcivescovo di Cambrai, autore di un Examen de conscience sur les devoirs de la royauté, del 1694, e del romanzo pedagogico Les aventures de Télémaque, del 1695, una vera e propria ars regnandi (68); quindi i laici Henri de Boulainvilliers, conte di Saint-Saire (1658-1722), nella cui ricca produzione storica sono pertinenti e rilevano le Lettres sur les ancien parlements de France qu’on nomme Etats généraux, del 1727, il Précis historique de la monarchie française, del 1732, e, dello stesso anno, l’Essai sur la noblesse (69); e, infine, Louis de Rouvroy, duca di Saint-Simon, meglio noto semplicemente come Saint-Simon (1675-1755), che ha lasciato Mémoires (70). Né mancano episodi in cui è presente soltanto l’aristocrazia e assente il popolo minuto, come nel caso della cospirazione antihitleriana del luglio 1944 (71).
Dopo aver evocato la Fronda, e l’Insorgenza come categoria atta a includerla, concludo con un riferimento ad altri fenomeni già ricordati, sia pure a grandissime linee, quali la Guerra d’Indipendenza Americana, la cosiddetta Rivoluzione Americana (72) — mi pare significativa, a questo riguardo, la notazione di Maistre secondo cui «[…] gli americani hanno costruito, e non fatto tabula rasa come i francesi» (73) —, e i moti indipendentistici iberoamericani come ad altrettante espressioni di un consistente fenomeno di contrasto alle diverse rivoluzioni, forse indicabile complessivamente — a misura della Magna Europa — come Insorgenza transatlantica (1775-1826) (74).
Questo riferimento suggerisce l’identificazione, accanto a un’«era delle rivoluzioni democratiche» (75), di un’«era delle contro-rivoluzioni»; inoltre, l’identificazione di questo fenomeno, tutt’altro che priva di potenzialità ermeneutiche dal punto di vista storico, non manca di feconde suggestioni sul piano politico.
10. Insorgenza e populismo
Titolando questa mia nota ho scritto dell’Insorgenza come di una possibile categoria storico-politica. Vengo al «politica». Dunque, per rimanere in Italia — quindi tacendo di altri episodi, per esempio quello che prende il nome dalla «città» di Canudos, la Guerra di Canudos, nel Nordeste del Brasile (1896-1897) (76), quello dei cristeros in Messico (1926-1929) (77), o quelli costituiti dalle rivolte anticomuniste dal 1917 a oggi (78) passando attraverso la Guerra di Spagna (1936-1939) —, dopo la prima Insorgenza, quella contro la Rivoluzione Francese, se ne possono inventariare una seconda, quella anti-risorgimentale (79); quindi una terza, fra la Grande Guerra (1914-1918) e la Seconda Guerra Mondiale, contro la paventata instaurazione in Italia di un regime socialcomunista e la sua proliferazione nel mondo, resa confusa ed egemonizzata dal movimento fascista (80), e, dopo il secondo conflitto, contro il possibile avvento elettorale del socialcomunismo, «silenziata» e oscurata dal democratismo cristiano politico, ecclesiastico e culturale (81).
Ma questa ipotesi interpretativa mi pare illumini anche il presente, cioè il tempo seguente la Terza Guerra Mondiale o Guerra Fredda (1946- 1989), la cronaca politica che trascolora quotidianamente in storia politica, sia nella sua dimensione magnoeuropea sia in quella italiana. Infatti, sempre per esempio, con la strumentazione interpretativa che ho descritta — benché a grandissime linee — si possono accostare, almeno grosso modo e non in termini miracolistici, fenomeni come quello costituito dall’amministrazione statunitense guidata dal 2001 da George Walker Bush, che riprende non solo in politica estera, ma anche in politica interna prospettive realistiche inspiegabili senza il riconoscimento dell’esistenza di un mondo americano «conservatore».
Tale mondo, correttamente colto da Maistre con il significativo giudizio storico-politico già ricordato secondo cui «[…] gli americani hanno costruito, e non fatto tabula rasa come i francesi», ha preso coscienza di sé e si è espresso anzitutto come scuola di pensiero a partire dagli anni 1950, definendo un’area che coincide solo parzialmente con il Partito Repubblicano (82); quindi ha avuto il sopravvento in campo politico a partire dagli anni 1980, inducendo lo storico inglese Maldwyn Allen Jones ad aggiornare, nel 1995, la sua Storia degli Stati Uniti d’America. Dalle prime colonie inglesi ai giorni nostri, del 1983, con un capitolo intitolato La controrivoluzione conservatrice. 1980-1992 (83): dunque, si tratta di un mondo che non coincide né con quello descritto e proposto da Hollywood, né con quello amato ed echeggiato nell’Europa Continentale dall’intellighenzia radical chic (84).
Sia ben chiaro — e sia detto di passaggio — che i «miracoli», le realtà straordinarie oggetto di una «divine surprise» (85), si danno certamente, ma non si possono assolutamente trattare come fatti di routine, «per la contraddizion che nol consente» (86); diverso è il caso degli «uomini della Provvidenza» (87), un termine su cui si è fatta tanta cattiva retorica, solo per aver inteso improvvisamente «Provvidenza» in una prospettiva per così dire esclusivamente «assistenzialistica», da «pronto intervento» o da «pronto soccorso», e non come intravedibile — parzialmente intravedibile — orizzonte del progetto e della cura di Dio per rapporto al creato e alla vicenda umana (88).
Con la strumentazione descritta s’illumina pure il cosiddetto «berlusconismo» — la cui consistenza e il cui permanere non possono non colpire soprattutto chi fa riferimento, inadeguato, al solo leader, il cav. Silvio Berlusconi, e non tenta una lettura del fenomeno più ampia, storica e di lungo periodo — (89), a proposito del quale si è soliti evocare spinte populistiche, benché l’aggettivo sia quanto di meno definito si possa immaginare (90).
Per esempio, lo storico cattolico statunitense John Lukacs — nato nel 1924 a Budapest in una famiglia della buona borghesia ebraica ungherese —, che non ama il populismo, ma si guarda bene dal definirlo pur sapendo che «la storia della politica è una storia di parole» (91), oppure non vi riesce, opera un collegamento utile e pertinente fra populismo, reazione e Insorgenza affermando che «anche i controrivoluzionari francesi della Vandea erano in buona parte populisti. E lo stesso dicasi degli svariati movimenti popolari di destra contro i francesi e i loro seguaci in Spagna e in Italia durante il periodo napoleonico. «Ma queste eruzioni “reazionarie” di sentimenti popolari non erano (non ancora) nazionaliste» (92).
Stando così le cose, mi pare lecito ipotizzare l’esistenza di una «legge» storica — meglio, di un «ritmo» storico — per cui la società, cioè ogni società storica, dopo aver resistito all’inverosimile, reagisce all’imposizione di un abito organizzativo, istituzionale inadeguato e/o al tentativo di snaturarla per renderla docile a tale imposizione.
Come pure ipotizzare, quindi, che l’Insorgenza sia l’espressione incarnata, socio-politica, quasi motus primoprimus, «moto primo primo», del corpo sociale, dell’«eterno ritorno del diritto naturale» (93), un «eterno ritorno» da intendersi non come periodica ripresentazione ciclica, ma come potenziale, permanente reattività di un «diritto naturale», che non può essere trascurato, compresso oltre un determinato limite.
Questa affermazione ex experientia, che fonda e interpreta la reazione, l’Insorgenza, e ne coglie la relazione materiale, non sostanziale, con i primi momenti fattuali della Rivoluzione, trova una corrispondenza dottrinale nelle riflessioni di un filosofo tedesco di scuola marxista, Ernst Bloch (1885-1977), relativa al potenziale «rivoluzionario» del diritto naturale, chiaramente non nella versione classica e cristiana (94) ma in quella del giusnaturalismo moderno (95).
E, infine, si mostra verosimile leggere il populismo da un lato come un sintomo di sfiducia nelle istituzioni che ne documenta la crisi di legittimità, dall’altro come un’espressione «debole» del tentativo di riappropriarsi della sovranità da parte di un «popolo» ridotto a «massa» dallo Stato moderno (96), di un popolo che non si sente rappresentato, di un popolo che non conosce per certo la dottrina del gesuita spagnolo Francisco Suárez (1548-1617), non sa nulla né del pactum societatis né del pactum subiectionis (97), ma in qualche modo «sente» — «sente» da «senso» e da «senso comune», e non da «sentimento» — tale dottrina e quindi, sempre in qualche modo, la conferma.
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