Quanto segue è la versione di un libro-intervista scomparso e messo al bando trent’anni fa: il controverso colloquio di Vittorio Messori e Hans Urs von Balthasar, é stato pubblicato da pochi giorni dal sito Papale Papale ed integralmente ricopiata dal suo direttore, Antonio Margheriti Mastino. Il quale racconta – e fa raccontare a Vittorio Messori – nella succosissima prefazione al testo dell’intervista i retroscena ed i postscena di questo caso editoriale che non potè diventarlo. Un racconto che potrete leggere direttamente qui. Ringraziamo PapalePapale.com e Antonio Margheriti Mastino per il contributo di questo prezioso (ed attualissimo ) testo a questo nostro archivio messoriano.
* * *
«Mi raccomando – dice congedandoci dopo un lungo colloquio –. Non fate di me una vedette. Ciò che importa sono i problemi, non la mia persona». Deve partire, l’abbiamo trattenuto più del previsto, ma con un tocco che rivela la sua attenzione alle persone, si informa del nostro programma, vuole darci alcune indicazioni concrete.«Tenete presente il buffet della stazione: il prezzo è buono e non si sta male».
Alto, asciutto, vestito austeramente di scuro, lucidissimo: a 80 anni il «grande vecchio di Basilea» «l’uomo più colto del secolo», l’autore di quasi settanta libri che hanno segnato a fondo il nostro tempo (e il recente Premio Paolo VI lo ha riconfermato), Hans Urs von Balthasar, insomma, è più attivo e presente che mai.
Per molti, quest’uomo sembra rappresentare la sintesi vivente di ciò che dovrebbe essere il teologo secondo lo spirito del Vaticano II. Eppure, fu escluso dai lavori di quel Concilio per il quale aveva profondamente contribuito a creare un clima propizio.
Anche nella Roma di Papa Giovanni si diffidava dì lui e delle sue aperture, della sua attenzione ai sogni del tempo. Soltanto nel 1969 finiva il suo lungo esilio “ufficiale”, con la chiamata – fattagli da Paolo VI – alla Commissione teologica internazionale che affianca la Congregazione per la Dottrina della Fede. Pensatore tra i più moderni, e insieme incrollabilmente radicato nella grande tradizione della Chiesa, il destino di von Balthasar è stato quello di altri grandi vecchi della teologia cattolica, da Maritain al suo amico e maestro De Lubac in odore di “progressismo” prima del Vaticano II, in sospetto di “moderatismo” dopo, stando almeno alle lobbies che controllano e manipolano gran parte dell’attuale informazione ecclesiale. Nessuno però, né prima né dopo, ha mai messo in discussione la sua straordinaria statura teologica e, quel che più conta, spirituale. I molti volumi di Gloria, la sua opera maggiore, sono già tra i classici: ma è ben noto anche il suo coinvolgimento nella teoria e nella pratica della mistica in cui vede il vertice dell’esperienza religiosa.
Lo studio è dominato da una grande statua in legno della Vergine mentre, proprio sopra la porta, è collocata quella tragica Crocifissione di Grunewald davanti alla quale Dostoewskij cadde nel delirio epilettico: forse l’immagine pittorica più consona a illustrare il
«Gesù sarà in agonia sino alla fine del mondo» di cui parlò quell’altro grande, Blaise Pascal, carissimo a von Balthasar. Assieme alla Trinità, a Maria, alla Chiesa, al centro della sua riflessione vi è da sempre “il caso serio” della Croce che giudica ogni ottimismo umano troppo facile e superficiale.
Sulla scrivania, sotto una piccola foto di Giovanni Paolo II, è aperta la Basel Zeitung, uno dei tanti giornali del mondo che hanno pubblicato l’ultima, furibonda aggressione di Hans Kung al Papa e ai suoi diretti collaboratori.
Iniziando il colloquio, viene spontaneo chiedergli se ha già letto il testo di quel suo collega nato, come lui, nel cantone di Lucerna. Scuote il capo, come rattristato, parla a voce bassa, guardando fisso negli occhi:
* * *
«Sono almeno dieci anni che quest’uomo ripete sempre le stesse cose. Il solo fatto nuovo è il crescere del tono polemico. In realtà, sin dai tempi del suo libro “Essere cristiani”, Hans Kung non è più cristiano».
Vorrà dire non più cattolico.
«No, non è più cristiano. Basta leggere i suoi ultimi libri, anche quello recentissimo sulle altre religioni: Kung non è più cristiano. Per lui, Gesù non è altro che un profeta; il problema, dunque, si riduce a una discussione se sia stato o no un profeta maggiore di Budda, di Confucio, di Maometto. Non a caso è stato invitato da Khomeini in Iran per delle conferenze, dove ha ribadito che c’è un solo Dio e tanti profeti. Ormai, per lui – lo dice chiaro, appunto, in quel suo libro non ancora tradotto in italiano – il cristianesimo è una via di salvezza tra le tante».
Se davvero è così, è inutile attardarsi in quel “dialogo” che pur pretende con toni tanto urlati dalla gerarchia cattolica.
«Kung si situa ormai fuori per sua scelta, dalla Chiesa: dunque, non ha più nulla da dire ai vescovi. In realtà, non ha più nulla da dire neanche ad altri, a cominciare dai protestanti. In effetti, da quando il suo Istituto di teologia ecumenica non è più riconosciuto come cattolico, Kung rappresenta solo sé stesso. Forse, anche per questa situazione in cui si è trovato, ha spostato il discorso dall’ecumenismo tra cristiani a quello con le religioni non cristiane».
Eppure, si ha l’impressione che continui ad esercitare una notevole influenza: tutti i grandi quotidiani borghesi del mondo opulento hanno dedicato pagine e pagine alla sua requisitoria contro il Papa e Ratzinger.
«Il settore che rappresenta è quello di una certa intelligencija, ma con sempre minor peso: in Germania ha perso influenza ed è di rado invitato per conferenze, soprattutto nelle università. Così, viaggia all’estero: è conosciuto come un buon oratore e, soprattutto, come un nemico di Roma. Questo gli attira molte simpatie, in certi ambienti».
La virulenza dell’attacco all’attuale prefetto della Congregazione per la Fede ha stupito anche coloro che conoscevano i suoi rapporti tesi con il professor Ratzinger, quando entrambi insegnavano a Tubinga.
«Credo che sia esasperato anche dalla progressiva perdita di ascolto. Tra l’altro, è una menzogna l’accusa a Ratzinger di essere cambiato da quando “ha fatto carriera”, come dice lui. Io conosco Ratzinger da sempre e sempre è stato così, sempre l’ha pensata così. In ogni caso, non è Ratzinger ma Kung che attacca il Vaticano II giudicandolo ancora “clericale”, angusto, insufficiente, chiedendo dunque un Vaticano III. Ratzinger è fedele al Concilio e il suo “Rapporto sulla fede” lo dimostra».
RATZINGER HA RAGIONE SU TUTTO
L’edizione tedesca è uscita da poche settimane. L’ha già letta?
«Certo che l’ho letta. Che ne penso? C’è poco da dire: Ratzinger ha ragione. Qualcuno chiama pessimismo quello che non è che realismo: chi ha il coraggio della verità deve riconoscerlo. Nessuno parla di questa immensa, spaventosa defezione di preti e di suore: se ne sono andati, e continuano ad andarsene a migliaia».
Dunque, Lei si riconosce nella lettura data da Ratzinger di questi ultimi vent’anni?
«Ci si può chiedere se la colpa di ciò che è successo è del Concilio (e Ratzinger l’esclude) o se c’erano già prima le condizioni che avrebbero provocato lo scatenarsi della crisi. È certo che Giovanni XXIII (quello autentico, non quello di un certo mito creato dopo la sua morte) non si aspettava che le cose sarebbero andate in questo modo».
Eppure, Lei è tra coloro che prepararono il clima che avrebbe portato al Concilio. Il suo libro “Abbattere i bastioni” è del 1952 e le procurò grossi problemi con Roma.
C’è stato un equivoco attorno a quel libro. Io volevo che si “abbattessero i bastioni” non certo perché si scappasse dalla Chiesa, ma per permettere alla Chiesa stessa di essere sempre più missionaria, di annunciare con ancor maggiore efficacia il Vangelo».
Anche l’intenzione primaria dei Padri conciliari era missionaria ma si ha l’impressione che, invece di proiettarsi ad extra, ci si sia ripiegati ad intra, in una interminabile discussione tra noi a uso interna.
«Ma sì, tutti questi documenti che nessuno legge, questa carta che io stesso sono costretto ogni giorno a cestinare, tutte queste strutture, questi uffici delle nostre conferenze episcopali e delle nostre diocesi! Gli stessi che chiedevano lo snellimento della Curia romana hanno contribuito a creare una miriade di mini -curie alla periferia della Chiesa».
LA BUROCRAZIA CLERICALE
CHE SOFFOCA LA MISSIONE CRISTIANA
Dunque, lei concorda anche con le denunce del pericolo che la Chiesa con lo sviluppo ipertrofico delle strutture clericali si trasformi in un’enorme burocrazia fine a sé stessa.
«Certo. Rileggiamoci anche qui il Vangelo: Gesù ha sempre designato a un servizio delle persone, mai delle istituzioni. Della struttura fondante della Chiesa fanno parte le persone dei vescovi, non gli uffici burocratici. Niente di più grottesco che pensare a un Cristo che volesse istituire delle commissioni! Dobbiamo riscoprire una verità cattolica: nella Chiesa, tutto è personale, niente deve essere anonimo. Sono invece delle strutture anonime quelle dietro le quali si nascondono ora tanti vescovi. Commissioni, sottocommissioni, gruppi e uffici di ogni tipo… Si lamenta [sic!] che mancano i preti, ed è vero; ma migliaia di ecclesiastici sono addetti alla burocrazia clericale. Documenti, carte che non sono lette e che comunque non hanno alcuna importanza per la Chiesa viva. La fede è ben più semplice di tutto questo».
Ma perché, a suo avviso, questo avviene?
«Forse, hanno l’impressione di fronteggiare così la crisi, di fare qualcosa. Siamo in un mondo tecnico e allora ci si rivolge ai computer. Nelle nostre diocesi adesso è arrivata anche l’elettronica, si sfornano tabulati con le statistiche della frequenza alla Messa, delle comunioni distribuite… Il che, oltretutto, non ha proprio alcuna rilevanza: questo tipo di conti può e deve tenerli solo Dio per il quale una sola comunione vera vale più di mille superficiali registrate dal computer».
Secondo molti il problema più urgente oggi è quello della crisi del concetto autenticamente cattolico di Chiesa. Dicono che occorrerebbe parlarne al Sinodo.
«Forse, il Vaticano II si è fermato troppo a parlare della struttura della Chiesa. La Lumen gentium di cui parla la Costituzione conciliare non è la Chiesa, è Cristo. È certo che, con una lettura parziale del Vaticano II, si è fatta della Chiesa più un gruppo sociale che non misterico, sacramentale. Vediamo invece che sin dagli inizi la comunità cristiana ha una struttura, una gerarchia, volute dal Cristo e basate sul collegio apostolico. Certa, quello che la gente d’oggi cerca è il Cristo non la Chiesa, che nel suo volto visibile non sembra credibile a molti che ne sono all’esterno. Nella nostra predicazione, occorre mettere più che mai in rilevo l’unicità di Gesù, la sua persona: è Lui che attira gli uomini di sempre. Ma poi come ricorda giustamente il Vaticano II, non dobbiamo dimenticare che non c’è Cristo senza la Chiesa e quindi dobbiamo mostrarne l’assoluta necessità».
Oltre a questo tema dell’ecclesiologia, quale argomento vedrebbe volentieri al centro dei lavori del prossimo Sinodo straordinario?
«Ci si potrebbe ricordare di quanto diceva il mio amico Karl Barth, il grande teologo protestante che, in una conferenza alla radio nei suoi ultimi anni ammonì: “Cattolici, non fate le betises, le sciocchezze, che noi protestanti abbiamo fatto a partire da un secolo fa!” »
Scegliendo tra queste betises, quale, secondo Lei, la più urgente da sottoporre all’attenzione del Sinodo?
«Forse, è il problema di cui si è parlato molto al recente convegno romano su Adrienne von Speyr. Il problema cioè dello studio della Bibbia, dell’esegesi cosiddetta “scientifica”. Questi specialisti hanno fatto molto lavoro, ma è un lavoro che non nutre la fede dei credenti. Bisogna riscoprire una lettura più semplice della Scrittura, mettere l’esegesi “scientifica” in equilibrio con quella “spirituale”, non tecnica, della grande tradizione patristica. Non credo che il Sinodo potrebbe risolvere questo problema: potrebbe però fare un auspicio in tal senso».
Non si può, peraltro, impedire con un decreto il lavoro degli esegeti.
«Infatti non dico questo. C’è però il dramma degli stessi specialisti, spesso cristiani buoni e pii, che devono però fare un lavoro al livello di quelle università in cui sono inseriti. E’ una condizione non sempre facile da vivere. C’è infatti il diritto degli studiosi a guardare la Scrittura come a un vecchio libro tra tanti e quindi da studiare con le stesse tecniche impiegate per gli altri testi. Ma la Scrittura che conta per la fede non è questa: ciò che conta è la Bibbia vista come il luogo dove lo Spirito Santo parla del Cristo, in modo nuovo, a ciascuna generazione».
L’approccio “scientifico” alla Scrittura sembra avere un fall-out, una ricaduta sconcertante nella pastorale quotidiana.
«In effetti le ipotesi degli specialisti giungono diluite se non deformate ai preti, ai laici, e fanno dei guasti. Anche di recente ho ascoltato un’omelia dove un parroco spiegava l’incontro dei discepoli col Cristo, sulla via di Emmaus, sentendosi in dovere di avvertire i suoi ascoltatori che non si tratta di un episodio “storico”. Questo dubbio coinvolge persino la realtà, la materialità della radice stessa della fede: il racconto della Risurrezione».
Forse, questo sconcerto tra la gente comune è aggravato dal fatto che molti non sono più raggiunti dalla catechesi. C’è qualche insegnante che segnala come molti laici affollino i suoi corsi di teologia senza però conoscere la base. E cioè, il catechismo.
«Sì, bisogna tornare a dei catechismi seri, autentici. Anche qui Ratzinger ha ragione, dobbiamo ritrovare la struttura ineliminabile di ogni vera catechesi: il Credo, il Pater, i Sacramenti, il Dio creatore, il Dio redentore, lo Spirito che vive nella Chiesa. Non è più ammissibile che ciascuno si faccia un testo a suo gusto: da noi, nell’area germanica, ne circolano a centinaia. Spesso non sono neppure autenticati dai. vescovi».
Ma ci sono catechismi ufficiali (come Pierres Vivantes in Francia) che sono stati approvati da tutta intera la Conferenza episcopale nazionale. Eppure sono stati criticati da Roma e si è dovuto rivederli.
«Torniamo qui al discorso sulle strutture anonime: spesso sono delle anonimità, degli uffici, delle commissioni. non dei vescovi con nome e cognome che danno quelle approvazioni. E poi, temo proprio che presso certi vescovi vi sia come paura per certe minoranze aggressive. Si dice che quattro o cinque persone padroneggino intere conferenze episcopali, e tra le più importanti e numerose».
Occorre pur riconoscere che i problemi di fronte ai quali si trovano certe Conferenze sona talmente spinosi da rendere difficile l’unanimità. La Conferenza episcopale brasiliana, per esempio, deve gestire un caso complicato come quello di Leonardo Boff.
«Leonardo Boff, come Hans Kung, non è più cristiano».
Quello che lei dice è grave.
«Non lo dico io, Io dice lui. Nel suo libro, Passione di Cristo, passione del cristiano, decima edizione, ammette di non credere alla divinità di Gesù. Sostiene quanto già sosteneva, agli inizi del secolo, Albert Schweitzer. Come lui, Boff dà per scontato che la divinizzazione di Gesù sia stata fatta dai discepoli dopo la Passione. Dunque, Gesù non era che un profeta che predicava il Regno imminente. Il Regno non è venuto, lo scacco è stato totale. In questa luce, il grido sulla croce (“Dio mio, perché mi hai abbandonato?”) esprime la disperazione di un uomo che ha fallito».
Anche questo revival di vecchie tesi del liberalismo della Belle Époque europea potrebbe confermare il sospetto di molti: certe teologie della liberazione come esportazione verso il Terzo Mondo di prodotti ormai démodés di intellettuali occidentali.
«C’è del vero. Il nocciolo di quelle teologie della liberazione viene dall’Europa ma certa elaborazione in senso violento è poi stata concepita sul posto. Uno dei padri della teologia della liberazione, il tedesco J.B. Metz, ha fatto conferenze in America latina, ma a molti, laggiù, è sembrato troppo astratto: le sue teorie volevano trasformarle in rivoluzione armata. Credo che il documento della Congregazione per la Fede abbia ragione: non ci si può servire delle analisi marxiste solo come una sorta di “strumento” tecnico».
Si discute anche del vero influsso sul popolo di certe teologie della liberazione: alcuni affermano che si tratta ancora di un fenomeno elitario.
«Molti pensavano che la rivoluzione marxista si sarebbe realizzata in pochi anni. Questo non è avvenuto, ma ora si indottrina il popolo, “coscientizzandolo” con delle pubblicazioni al cui centro c’è il Cristo libertadòr, il “sovversivo nazareno”. Ratzinger ha dato la precedenza a questo fenomeno perché qui si toccano i punti decisivi della fede. É urgente che laggiù si faccia qualcosa. I teologi non devono più improvvisarsi sociologi ed economisti. Mi sembra che tutte le teologie della liberazione dimentichino che l’essenziale del Nuovo Testamento è la carità: non occorre altro, basta viverla».
Ma molti le obietterebbero che carità è proprio aiutare i poveri a fare la rivoluzione.
«Anche il Papa ha detto che bisogna privilegiare i poveri (questo è Vangelo), ma a Puebla ha ribadito anche chiaramente che il cristiano deve rifuggire dalla violenza, che il clero non deve in alcun modo mescolarsi con una politica di parte. I “poveri di Jahvè” della Bibbia non sono affatto il proletariato di Marx»
I problemi sono tali e tanti che qualcuno, basandosi anche su quanto avviene in questi mesi, teme che la Chiesa possa divenire ingovernabile da Roma.
«Il Vaticano II impiega il termine di “comunione gerarchica” per indicare la comunione di tutti i vescovi con Roma, simbolo visibile dell’unità. C’è da chiedersi se certi episcopati abbiano ancora con il Papa quella “comunione nell’amore” di cui parla, ad esempio, un san Cipriano».
Il suo discorso ritorna così alle Conferenze episcopali.
«Ad esse, il Concilio dedica una piccola frase. Alcuni ne hanno fatto invece il centro di tutto. Quando la struttura diventa troppo pesante, il vescovo finisce con l’essere paralizzato».
Qual è il suo giudizio sullo stato attuale della liturgia?
«Se giudico dall’area germanica, ho l’impressione che sia sobria e che, se fatta bene, (cioè in modo davvero pio rispettosa del sacro [sic!]) sia ben accetta alla maggioranza di quelli che vanno ancora in chiesa.
Una risposta che conforta perché replica a certi ambienti integristi che della riforma liturgica hanno fatto il loro cavallo di battaglia. E il centro del movimento lefebvriano è proprio qui, in Svizzera. Si dimentica troppo spesso che attacchi durissimi al Papa e a Ratzinger continuano a giungere proprio da quella direzione.
«Monsignor Lefebvre e i suoi non sono i veri cattolici. L’integrismo di destra mi sembra ancor più incorreggibile del liberalismo di sinistra. Credono di sapere già tutto, di non avere nulla da imparare. D’altro canto è contraddittoria la loro conclamata fedeltà ai Papi, ma solo a quelli che gli danno ragione. Ma questo attacco a tenaglia, su due fronti, è tipico di ogni fase dopo un Concilio»
Girando tra Europa e America del Nord si ha l’impressione che le religiose, le suore, siano tra le più sconcertate da certa predicazione, magari le più sofferenti davanti alla crisi
«Per una giusta risposta ai problemi della donna nella Chiesa bisogna ridare il posto che merita a una mariologia molto sobria e insieme molto buona. Bisognerebbe ricordare a tutti i cattolici – a cominciare dalle donne – che, nella Chiesa, Maria ha un posto ancor più alto che quello di Pietro. La Chiesa è una realtà femminile ed è posta davanti ai successori, maschi, degli apostoli: il principio-Maria (dunque, il principio femminile) è più importante di quello gerarchico stesso, affidato alla componente maschile. Alcune suore – spinte spesso da certa teologia di uomini – non vedono che i curés, i preti, pensano cosi che l’ordinazione sacerdotale rappresenti il massimo del potere nella Chiesa. Ma questo è clericalismo. Maria – e non si tratta di fare del sentimentalismo – è il cuore della Chiesa. Un cuore femminile, che dobbiamo rivalutare come merita, in equilibrio con il servizio di Pietro. Questo non è devozionismo: questa è teologia della grande tradizione cattolica».
Dunque, la devozione mariana così singolare di Giovanni Paolo II ha anche un significato teologico preciso?
«È così. Il Papa sa che il perno nascosto della Chiesa non è lui, è Maria; non è a caso che abbia voluto “Totus Tuus” come motto del suo pontificato. Non c’è bisogno, forse, di proclamare nuovi dogmi mariani, ma dobbiamo riscoprire la ricchezza di quelli che già ci sono e che sono essenziali all’equilibrio della fede autentica».
Le suore sono spesso in crisi. Ma anche il disagio dei preti non è stato e non è da poco. Quali sono le cause principali?
«È spesso estremamente duro essere inviati in parrocchie scristianizzate, dove il curato non conta più nulla. Una volta era il centro di tutto, ora deve correre dietro a qualcuno per cercare di trattenerlo. Ma per fronteggiare e sopportare questa situazione occorrerebbe un’altra formazione dei preti».
Che intende dire?
«Bisogna tornare al modello tradizionale, direi “tridentino”, seppur prudentemente aggiornato, di seminario. Io sarei d’accordo di non permettere alla maggior parte dei giovani seminaristi di studiare nelle università, come attualmente avviene. Devono studiare in seminari autentici, che siano seri, “clericali”: che li formino, cioè, ad essere “clero”, che li preparino al loro sempre più duro servizio. Le università esterne non possono fare questo. Il vescovo deve avere la possibilità di ricreare i seminari secondo le indicazioni date da Roma e nominarvi professori di sua fiducia. Ma spesso, anche se volesse farlo, ne è impedito da tutte le strutture che gli sono state create intorno».
Il suo bilancio del post-Concilio sembra a chiazze: zone di luce e zone di ombra. Come, in effetti, sembra essere in realtà.
«Dopo ogni Concilio c’è stato il caos. Bisogna mettere nel bilancio anche certe cose che stanno nascendo e che sono come pianticelle; piccole per ora ma già vigorose, i cui semi sono stati piantati dal Vaticano II. Oggi, sulle cattedre di teologia, giunge una generazione che aveva 18-20 anni nel ‘68 e che spesso porta nel suo insegnamento uno spirito liberale, di contestazione. Intanto, i grandi teologi di un tempo non ci sono più. Ma c’è anche una generazione nuova che si sta formando, giovani che si ribellano a certo conformismo, che intendono fare una teologia che sia insieme aperta alla Scrittura e alla grande tradizione cattolica. Anche tra i teologi già in cattedra, ci sono persone solide che stanno ripensando in modo nuovo l’intera fede. Un buon lavoro in questo senso è stato fatto anche dal teologo Ratzinger. Lasciamo che lo Spirito lavori: ci sono dei virgulti che “spingono”, che stanno nascendo e che non sono certo contro il Concilio autentico, anzi sono nati da esso».
Tra questi segni di speranza, il prefetto della Congregazione per la Fede mette anche i nuovi movimenti ecclesiali.
«E ha ragione. Essi sono, tra l’altro, la possibilità per la Chiesa di fare una teologia vivente. Ma in alcuni, a uno slancio magnifico fa riscontro una tentazione di chiusura. Il pericolo, per alcuni, è di divenire quasi delle sètte, di chiudersi in se stessi, mentre occorre più che mai “abbattere i bastioni”: essere, cioè, proiettati nella missione, verso il mondo».
Non è, forse, un chiudersi istintivo per cercare di salvaguardare un’identità cattolica che sentono minacciata?
«Io cerco di costruire un istituto secolare al quale intendo comunicare uno spirito molto cattolico, un’identità precisa di Chiesa. Ma, posta questa base, desidero che sia aperto al massimo, a tutti. La casa va sorvegliata e tenuta in ordine, ma le porte devono restare spalancate a chiunque voglia entrare».
Lei si è formato e ha lavorato per molti decenni nella Chiesa pre-conciliare. Ha poi vissuto, sempre come teologo, questo ventennio di post-Concilio. Che differenze avverte tra le due fasi?
«Ha ragione il mio amico e maestro De Lubac e ha ragione Ratzinger quando rifiutano di parlare di Chiesa “pre” o “post” conciliare. C’è una sola chiesa. Vedo i pregi e i difetti del prima e del dopo ma ciò che mi è sempre importato è vivere il centro della Chiesa: questo non cambia e non cambierà mai. Non bisogna ragionare troppo sulla Chiesa: bisogna innanzitutto viverla. Essendo al contempo consapevoli che essa sempre è stata – e sempre sarà – un piccolo gregge».
Sul suo tavolo c’è una foto del Papa. Questo mi conferma quanto è ben noto: la sua amicizia, la sua stima profonda per Giovanni Paolo II. E si sa che i suoi sentimenti sono ricambiati.
«Sì, amo molto questo Papa. Ma in fondo, non è questo che importa. Importante per tutta la Chiesa è piuttosto il fatto che quest’uomo vive di preghiera. Quando torna da quei suoi viaggi massacranti, tutto il suo seguito – dai prelati ai giornalisti – è stordito dalla fatica. Lui no, lui è raggiante: è la preghiera che Io nutre. Quando è venuto qui in Svizzera, qualcuno a Einsiedeln lo ha ingiuriato. Lui ha taciuto e poi, non si sa come, è sparito. Dopo un po’ Io hanno ritrovato: era in una cappella, prosternato davanti al tabernacolo. Al suo ritorno l’ho visto a Roma: era più che mai fresco, riposato. “Santità – gli ho chiesto – come fa a non essere mai stanco?”. Mi ha risposto ridendo: “Questo viaggio in Svizzera non è stato che un allenamento per prepararmi alla visita in Olanda” [dove infatti la contestazione clerico-progressista arrivò al paradosso dei domenicani che lanciavano sassi contro il papa. Ndr]. Il suo segreto è l’orazione in cui è continuamente immerso».
COME VORREBBE RAHNER
Tra le cose che sembrano più preoccupare il Papa, nei suoi viaggi al di fuori dell’Europa, sembra esservi soprattutto la caduta della tensione missionaria verso i non cristiani.
«Sì, e di questa caduta è responsabile anche una certa versione, diluita e forse mal digerita, della teologia di Karl Rahner, con la sua teoria del “cristianesimo anonimo”. Rahner ha forse fornito l’occasione a certi teologi di esprimere ciò che essi avevano latente: secondo loro, in ogni uomo, qualunque sia la sua credenza (o la sua non credenza) c’è già la grazia, compito del cristiano sarebbe solo quello di fortificarlo nelle sue convinzioni. Poi, c’è stata un’attenzione esclusiva, in ogni caso eccessiva, per la promozione socioeconomica: è il Vangelo, in realtà, la prima ricchezza che dobbiamo donare ai poveri. Non si può rimandare l’annuncio del Cristo morto e risorto a quando saranno stati risolti i problemi economici»
Come svizzero di lingua tedesca, lei è da sempre molto attento ai problemi dei rapporti tra le varie confessioni cristiane. Che giudizio dà dell’attuale momento ecumenico?
«Purtroppo, il dialogo si è rivelato un fantasma, una chimera. Non è possibile dialogare con le Chiese che non hanno quel centro di unità visibile, concreto, che è il Papato. Le Chiese protestanti sono talmente frantumate in tante denominazioni e divise poi al loro stesso interno, che ci si può intendere con una persona, con un teologo; ma tutto si ferma lì perché certamente altri verranno a dire che non la pensano allo stesso modo. Ne ho avuto esperienza personale con Karl Barth: con molti incontri, con molto lavoro ci sembrava di essere giunti a una possibile base di accordo. Ma quando l’abbiamo resa pubblica, ecco insorgere subito un altro professore di teologia di Zurigo, e poi un altro e un altro ancora, anch’essi protestanti ma in completo disaccordo con quanto diceva Barth. E ciò vale per tutto il mondo nato dalla Riforma; nessuno, ad esempio, potrà mai far sì che l’anglicanesimo sia una Chiesa, diviso com’è da sempre in vari tronconi».
Una situazione deludente. Ma che, ci si augura, non vale però per le Chiese dell’Oriente ortodosso.
«Purtroppo vale anche per loro. Hai un bell’abbracciare Atenagora: ci sarà sempre un altro metropolita, un altro archimandrita, un altro vescovo che non è d’accordo. Anche nel discorso ecumenico, dunque, occorre realismo: la situazione (lo abbiamo visto di recente con il documento di Lima su Battesimo, Eucaristia, Matrimonio costato molto lavoro e respinto da molte Chiese) non permette di farsi illusioni».