La profezia di monsignor Rahho, ucciso a Mosul dopo l’ultima Via Crucis. Monsignor Paulos Faraj Rahho, arcivescovo di Mosul, venne rapito e ucciso da ignoti nel 2008. Nonostante le minacce, diceva: «Finché rimane qui anche un solo cristiano, io non me ne vado»
Rodolfo Casadei
Sabato scorso, quando giornali e tivù di tutto il mondo hanno trasmesso la notizia e il video del primo discorso pubblico di Abu Bakr al Baghdadi, l’autoproclamato califfo del neonato Stato islamico creato dall’Isil a cavallo fra Iraq e Siria, mi sono venute in mente alcune delle parole che monsignor Paulos Faraj Rahho (foto a destra), l’allora arcivescovo caldeo di Mosul, mi disse durante l’intervista che mi concesse il 9 gennaio 2008: «L’Iraq sotto un potere islamico oscurantista sprofonderà nella povertà e nell’impotenza, e i poteri internazionali potranno dominarlo meglio».
Sei anni e mezzo dopo, la cupa profezia di quello che stava per diventare il primo arcivescovo martire dell’Iraq moderno si è tradotta in realtà. Il paese sta andando in pezzi, l’influenza delle potenze straniere e delle bande armate si fa sempre più forte, le ricchezze dell’Iraq sono alla mercé di chi è abbastanza forte da metterci sopra le mani. E un amaro destino ha voluto che proprio la città dell’arcivescovo martire diventasse la capitale dell’oscurantismo islamista al potere.
Quella di quel giorno non fu un’intervista qualsiasi: nessuno dei due lo sapeva, ma era l’ultima volta che il presule iracheno parlava con un giornalista straniero. Cinquantuno giorni dopo, il 29 febbraio, Rahho veniva rapito mentre cercava di allontanarsi in auto dalla parrocchia dello Spirito Santo dove aveva presieduto una Via crucis. Trucidati l’autista e due accompagnatori, i rapitori gettarono il vescovo nel bagagliaio di un veicolo e lo portarono via. Il suo corpo senza vita fu ritrovato il 13 marzo, sepolto alla periferia della città. Era morto di stenti e di crepacuore durante la prigionia, a causa della mancata somministrazione delle medicine di cui aveva bisogno, essendo cardiopatico e diabetico.
Secondo alcune ricostruzioni aveva fatto in tempo, al momento del sequestro, a dire per telefono ai segretari dell’arcivescovado di non pagare nessun riscatto ai rapitori. Non ci sarebbe da stupirsi se le cose fossero andate davvero così: Rahho aveva un carattere forte e coraggioso, che contrastava singolarmente con la sua apparenza fisica, segnata da un’evidente fragilità sintomo della sua salute malferma.
Prima del rapimento da cui non sarebbe uscito vivo, aveva già ricevuto undici volte minacce di morte attraverso lettere o telefonate anonime. Nel dicembre 2004 il suo arcivescovado era stato reso inagibile da una potente esplosione: un gruppo di ribelli armati era entrato, aveva fatto uscire i presenti puntando contro di loro le armi, aveva minato l’edificio e lo aveva fatto saltare. Era sfuggito a un tentativo di rapimento nel marzo 2007 («Era la festa dell’Annunciazione e stavo andando alla chiesa di san Giorgio, credo di sapere con certezza chi mi ha salvato», mi disse sorridendo).
Qualche tempo dopo la nostra intervista avrebbe avuto un’altra rischiosa avventura. Mentre si recava in abito talare a dire Messa in una chiesa della città vecchia, la zona più pericolosa di Mosul, avrebbe incontrato un giovane mascherato e armato che gli avrebbe puntato contro una pistola gridando: «Torna indietro o ti sparo». Monsignor Rahho avrebbe continuato per la sua strada rispondendo: «Io vado a celebrare la Messa, tu fa’ quello che vuoi». Sorpreso da tanta audacia, il giovane aveva esitato e poi era sgattaiolato via attraverso i vicoli.
Dopo quell’episodio a un religioso che lo consigliava di trascorrere più tempo lontano dalla città aveva risposto: «Finché rimane qui anche un solo cristiano, io non me ne vado». A una mia domanda sul perché restasse a Mosul nonostante l’aggravarsi della situazione (appena tre giorni prima, il 6 gennaio, c’erano stati attentati contro una chiesa, un convento e un orfanotrofio) aveva replicato puntando il dito verso il cielo: «Da Mosul non me ne vado, ho dei protettori che stanno molto in alto». Quando si era insediato come arcivescovo, nel 2001, in città c’erano più di 50 mila cristiani fra caldei, siriaci ortodossi, siriaci cattolici, armeni apostolici, eccetera.
Al momento del suo rapimento erano già scesi a 15-20 mila. Mosul era stata insieme a Baghdad la prima città irachena bersaglio di attentati anticristiani, quando l’1 agosto 2004 l’antenato dell’attuale Isil, cioè Al Qaeda in Mesopotamia, aveva lanciato la prima ondata di attacchi contro chiese e altre istituzioni. La prima dove erano stati uccisi sacerdoti cristiani: il siriaco ortodosso Paulos Iskandar, il pastore presbiteriano Monther Saqa e il parroco caldeo Ragheed Ganni.
L’estremo appello all’unità
Se monsignor Rahho vedesse oggi quel che è successo alla sua città (dove, secondo fonti del patriarcato di Baghdad, sono rimasti solo 500 cristiani), parlerebbe alto e forte contro il malgoverno di al Maliki che ha creato le condizioni per tutto questo e contro i jihadisti che stanno distruggendo l’Iraq. Come faceva ai tempi dell’occupazione americana e della ribellione degli antenati dell’Isil. Quando il comandante delle truppe americane andò a portargli la sua solidarietà per la distruzione dell’arcivescovado alla fine del 2004, Rahho gli rispose: «Il terrorismo in Iraq ce lo avete portato voi. Avete eletto l’Iraq come terreno di scontro fra voi e i terroristi per non doverli combattere a casa vostra». Sfidava i jihadisti dopo ogni attacco alle chiese: «Vi fate chiamare “resistenti”, ma anziché gli occupanti attaccate altri iracheni».
Sulla situazione dei cristiani aveva le idee molto chiare: «Ci rapiscono e attaccano le nostre chiese accusandoci di essere dalla parte degli angloamericani, ma è solo un pretesto, sanno che non è vero. Eravamo contrari all’intervento militare contro Saddam Hussein e siamo contrari all’occupazione. La verità è che vogliono impadronirsi dei beni dei cristiani e svuotare l’Iraq della nostra presenza. Vogliono fare con noi quello che i turchi fecero con gli armeni negli ultimi tempi dell’Impero Ottomano».
I rapitori dell’arcivescovo non sono mai stati individuati. Soltanto fu processato e condannato a morte un singolo esponente di quella che allora era Al Qaeda in Mesopotamia. Rahho lasciò un forte appello all’unità e all’ecumenismo fra gli iracheni nel suo testamento: «Vi chiedo di essere aperti verso i nostri fratelli musulmani e yazidi e verso tutti i figli della nostra amata patria, di lavorare insieme alla costruzione di solidi legami di amore e di fratellanza fra i figli del nostro amato paese, l’Iraq».