Aldo Ciappi
U.G.C.I. di Pisa
Sappiamo bene che in una corretta e ordinata democrazia le sentenze dei giudici, quando sono definitive, si possono criticare ma non disapplicare; ne va della coesione dell’intero sistema e, alla fine, della civile convivenza. Questo principio andrebbe sempre rammentato a tutti, ma soprattutto, per esempio, agli intellettuali amici di Adriano Sofri che, per anni, hanno pesantemente criticato con ogni mezzo possibile, la sentenza di condanna definitiva del leader di Lotta Continua per l’ omicidio del commissario Calabresi pronunciata dopo otto o nove gradi di giudizio (non ricordo più); gli stessi che, se le parti si invertono, si schierano all’unisono per la “legalità” quando la magistratura (come accade di frequente) accoglie le loro tesi.
Non è possibile, intanto, essere d’accordo con coloro che, pur comprendendo la portata epocale della decisione Cassazione (la n. 21748 del 2007, di cui la recentissima pronuncia è il mero epilogo), preferiscono tacere (senz’altro il silenzio è d’oro quando però non è reticente) mettendosi nella posizione un po’ pilatesca tra chi “inneggia” alla sentenza e chi grida “vergogna” (cfr. Italia Oggi, editoriale di F. Bechis, “Silenzio, muore Eluana” del 14 novembre).
Se, come dice espressamente il direttore di quel quotidiano, quella pronunciata dalla Cassazione è una sentenza di morte (e si prende atto che non solo Mons. Fisichella ma autorevoli fonti laiche lo affermano chiaramente: come Italia Oggi, così anche Il Giornale con l’ editoriale del suo direttore M. Giordano “Un orrore che ci divorerà”, sempre di venerdì scorso) non possiamo non elevare la più ferma protesta contro una decisione eversiva di un principio, quale quello di indisponibilità della vita umana, consolidato nel nostro ordinamento ma, ancor prima, nella nostra coscienza civile e nella nostra cultura che si vanta delle proprie radici cristiano-illuministiche in opposizione ad ogni forma di barbarie giuridica.
Se quella sentenza (come anche la più laica delle sensibilità riconosce) è una sentenza di morte non si riesce veramente a comprendere come si sia potuto sostenere dal Procuratore Generale della Cassazione, prima, e dalla stessa Suprema Corte, poi, che sia inammissibile per carenza di interesse ad agire in capo alla Procura Generale, la cui specifica funzione è quella di tutela dell’ordine pubblico e dell’ interesse generale dello Stato, il ricorso contro il decreto della Corte di Appello di Milano con il quale si è stabilito che si possano sospendere ad Eluana Englaro l’idratazione e l’alimentazione artificiale con l’effetto di provocarne la morte.
Si tratta, infatti, di un vero e proprio caso di “eutanasia passiva”. Il primo autorizzato espressamente da un giudice.
Non vi sarebbe, tuttavia (questo è il senso dell’ultima decisione), un rilevante interesse giuridico dello Stato ad impugnare il provvedimento di un giudice italiano che sancisca la morte di una persona in grave stato di disabilità (sic!).
Tutto ciò è semplicemente inaudito: al “danno” (incommensurabile) arrecato al nostro ordinamento civile dalla precedente decisione della I sezione della Cassazione (che avrebbe individuato nel caso di Eluana una condizione di “accanimento terapeutico” praticato contro la sua “presunta” volontà (ricostruita su una frase), si è aggiunta la “beffa” (e altro che beffa, caro Sig. Procuratore Generale della Repubblica, cari Giudici!!) dell’ultima decisione della Corte pronunciata a sezioni unite!
Si deve ricordare, per i non addetti ai lavori, che è tuttora vigente nel nostro ordinamento l’art. 579 del codice penale il quale prevede il reato di omicidio di persona consenziente; si deve, altresì, ricordare che non esiste, nel nostro sistema delle fonti giuridiche, l’istituto della tacita abrogazione delle leggi. C’è, inoltre, un organo (la Corte Costituzionale) appositamente istituito per il controllo della conformità delle leggi vigenti alla Carta Costituzionale.
Ebbene, è indubbio che questa norma sia stata completamente e ripetutamente ignorata dalla magistratura nel caso di Eluana Englaro (e questo è il motivo per cui si è sempre sostenuto che non fosse affatto necessaria una legge ad hoc).
A questo (drammatico) stato di confusione che serpeggia tra le toghe “ordinarie” si aggiunge l’ulteriore sconcerto per la decisione della Corte Costituzionale di respingere il ricorso per conflitto di attribuzione dei poteri promosso dal Parlamento.
Sembrava, infatti, piuttosto chiaro a molti che l’introduzione dell’ eutanasia per via giudiziaria non fosse un procedimento propriamente coerente con i principi che reggono il nostro ordinamento che, come tutti sanno, lascia alla magistratura il compito di applicare e interpretare le leggi; non di crearne di nuove. Ma tant’è; anche i giudici costituzionali sono stati di diverso avviso.
Che fare dunque? Anche una legge a questo punto se servisse a salvare Eluana.
Ma, come gran parte delle articolazioni dell’ odierna società, molto propriamente definita “liquida” da un noto sociologo (Z. Barman), anche la magistratura (o almeno, una parte molto consistente di essa) dovrebbe urgentemente interrogarsi sul proprio stato e rigenerarsi culturalmente attingendo alle radici profonde del diritto naturale da cui promana la vera scienza giuridica e rigettando le scuole dello storicismo e del positivismo giuridico, matrici della deriva relativistica i cui danni sociali sono sotto gli occhi di tutti.
La società ed il costume possono anche cambiare (e cambiano, eccome), ma il diritto non può ridursi a mera rilevazione sociologica (e tanto più i suoi meri applicatori a “levatori” o “sensori” delle “nuove frontiere” di esso).
Nel frattempo, non sarebbero affatto tempo ed energia sprecati se qualcuno raccogliesse forze laiche e cattoliche ancora presenti in una sonora manifestazione pubblica in difesa della vita di Eluana e di tutte le altre vite oggi “a rischio”, studiando ogni via da percorrere affinché sia scongiurata l’esecuzione della prima condanna a morte (di un innocente indifeso) da parte dello stato italiano dal dopoguerra ad oggi.