Mentre la Chiesa italiana s’interroga su come affrontare le urgenze contemporanee e quale contributo dare alle dinamiche socio-culturali del Paese, cresce nei mass media l’eco delle posizioni laiciste che vorrebbero estromettere il pensiero cattolico dal dibattito culturale. Il problema nasce da lontano e disegna la frontiera tra due mondi diversi: quello del diritto naturale classico e cristiano e quello della modernità, con la separazione del diritto dall’ordine morale
don Maurizio Ceriani
Anche nei continui dibattiti televisivi pre-elettorali di questo periodo, gli esponenti dei partiti che sponsorizzano pacs e unioni di fatto gridano spesso all’ingerenza della Chiesa nella politica, ogni qual volta i Cattolici ricordano che non si può equiparare a quella “società naturale”, che è la famiglia fondata sul matrimonio, nessun altro tipo di convivenza.
Diverse autorevoli voci cattoliche hanno invece ricordato che proprio il prossimo Convegno Ecclesiale di Verona sarà l’occasione per ribadire la precisa e determinata volontà della Chiesa italiana a non rinunciare a fare cultura e ad incidere nelle dinamiche socio-culturali del Paese.
Non si tratta soltanto di un diritto, ma di un preciso dovere del credente in Cristo che, mentre cammina verso la Città di Dio, non può rinunciare ad edificare nel tempo la Città dell’Uomo, secondo gli umanissimi ed umanizzanti criteri del Vangelo.
Tutto questo riporta alla luce uno scontro antico, che attraversa da secoli la cultura occidentale e che può essere sintetizzato nell’opposizione tra la visione cristiana dell’uomo e quella del pensiero moderno, cioè la famosa “questione antropologica”, sollevata a più riprese dall’episcopato italiano dopo il Convegno di Palermo di dieci anni fa e posta al centro del progetto culturale della Chiesa italiana.
Questione antropologica, ma anche questione ontologica, gnoseologica e giuridica che oppone la filosofia cristiana, ontologista e realistica, al pensiero contemporaneo, relativistico e ideologistico. Il pensiero moderno, infatti, si articola su tre cardini, l’uno conseguente all’altro, che originano in ultima analisi dal nominalismo di Guglielmo di Occam (1295-1350), che negava la possibilità della conoscenza dei principi universali, poiché ai nomi non corrispondeva alcuna sostanza concreta.
Per Occam, se si può conoscere soltanto l’individuale, ogni presunta verità che vada al di là dell’individuale singolare e provvisorio è del tutto malferma; le conseguenze sono devastanti perché, in ultima analisi, questo significa che la verità non esiste! Il pensiero moderno ne è profondamente convinto e pone il relativismo scettico alla base di ogni suo impianto gnoseologico, combattendo ogni pretesa veritativa che ancora resiste nella filosofia cristiana.
Questo è il primo cardine, ben esposto in quel manifesto della modernità che è l’opera di Umberto Eco “Il Nome della Rosa”; sulle labbra del suo principale personaggio, Guglielmo da Baskerville, appaiono spesso le affermazioni del “pensiero debole” del secolo XX del tipo: “Le uniche verità che servono sono strumenti da buttare”, “l’unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per la verità”. Fuori dal relativismo vi è solo “la passione insana per la verità” e di conseguenza chiunque si ostini ad affermare lo “Splendor Veritatis” è un nemico da combattere, Chiesa Cattolica per prima.
È chiaro che se non esiste una verità universale, nemmeno può esserci un ordine naturale fonte di un diritto naturale, ma fonti del diritto risultano essere soltanto le volontà individuali, che al massimo si accordano in compromessi per evitare la lotta di tutti contro tutti. Viene così a terminare, sempre a partire dal pensiero di Guglielmo di Occam, la nozione di “jus” come “id quod iustum est”, cioè la “parte” giusta assegnata secondo equità, dove l’equità è ciò che compete a ciascuno in forza di un ordine naturale che precede la volontà dell’individuo. Vi si sostituisce la volontà del soggetto come fonte del diritto.
La separazione del diritto dall’ordine morale naturale costituisce il secondo cardine della cultura moderna, quello che, ad esempio, emerge violento nell’attuale dibattito sull’estensione dei diritti familiari alle unioni di fatto. Se la fonte del diritto non è più l’ordine naturale, ma la volontà dei singoli, nulla si deve opporre a quest’ultima; guai a chi si oppone, per dirla con Benedetto XVI, alla “dittatura del relativismo” e al criterio “dell’io e delle sue voglie”.
Gli effetti di questi due aspetti fondamentali del pensiero moderno sono particolarmente gravi sul piano del diritto pubblico. Se non esistono verità e valori, non vi è nessun criterio o istanza superiore in base a cui giudicare lo Stato e le sue leggi, nemmeno quelli dell’etica e della morale.
Giungiamo così al terzo cardine, cioè allo statalismo moderno, che non resta relegato solo nei tristi eventi delle dittature o dei regimi totalitari, ma che inquina anche la cultura degli stati democratici. Lo statalismo non può che essere contro la Chiesa, perché una Chiesa libera si sentirà libera di criticare l’autorità politica, ed è una sfida che il potere totalitario non può tollerare.
L’attuale pensiero laicista non può che essere, in questi termini, totalitario e illiberale! È sempre Eco che ci svela l’arcano, laddove pone in bocca al suo Guglielmo da Baskerville questa volta un’affermazione di Marsilio da Padova (1280 – 1342), il teorizzatore della supremazia del potere temporale su quello spirituale: “Se il pontefice, i vescovi e i preti non fossero sottomessi al potere mondano e coattivo del principe, l’autorità del principe ne verrebbe inficiata”.
Smascherato il filo conduttore di quella cultura che oggi avversa il pensiero cristiano e resi palesi i motivi di tanta avversione, si fa urgente l’impegno di procedere sullo stesso terreno. Infatti ogni battaglia sociale o politica sarà persa in partenza senza il supporto di un solido retroterra culturale, nel quale riaffermare che le cose esistono indipendentemente dall’intelletto del singolo e che i valori sussistono autonomamente dalla sua volontà; ad essi semmai il compito di adeguarsi a ciò che le precede, secondo il monito di Étienne Gilson: “è la conoscenza ad essere giudicata a partire dalle cose, non il contrario!”.