di Massimo Introvigne
Il convegno che si è concluso all’Università di Lovanio su «Il martirio come categoria di azione politica», che ha avuto come relatori sociologi (tra cui il sottoscritto), storici e dirigenti di movimenti musulmani ha offerto la più vasta ricognizione a oggi degli atteggiamenti del mondo musulmano, sciita e sunnita, in tema di terrorismo suicida.
Definito il terrorismo – conformemente alle convenzioni internazionali – come l’attentato alla vita di civili non combattenti da parte di organizzazioni private (gli Stati, infatti, possono macchiarsi di crimini di guerra ma non fanno per definizione del terrorismo), che cosa ne pensa l’islam in quanto religione? La domanda rimanda a un’altra: chi ha titolo a parlare a nome dell’islam?
Gli sciiti hanno un clero e una gerarchia, anche se su chi di questa gerarchia oggi rappresenti il vertice ferve il dibattito fra i sostenitori del grande ayatollah iracheno Sistani e i suoi concorrenti iraniani. È comunque chiaro che per gli sciiti si può almeno sapere, con una certa approssimazione, chi rappresenta l’autorità e chi ha il diritto di dare indicazioni.
Sistani afferma che gli attentati suicidi non sono mai leciti. Gli iraniani – che ne hanno inventato la giustificazione teologica ai tempi di Khomeini – oggi sono più riservati, ma la maggioranza sembra condannare gli attentati suicidi rivolti contro i civili (non quelli contro i militari), anche se non manca chi esprime qualche dubbio quando i civili abbiano la sfortuna di essere ebrei.
I sunniti non hanno né gerarchia né clero.
Il verdetto di un giurista, la famosa fatwa, è autorevole quanto lo è chi la emana, e non vincola che i suoi discepoli e chi è convinto in coscienza della sua fondatezza. Il convegno di Lovanio ha però analizzato centinaia di pronunciamenti sunniti sul tema, dividendoli in tre gruppi. Meno del cinque per cento dichiara leciti tutti gli attentati suicidi, compresi quelli dell’11 settembre e dell’11 marzo. Un dieci per cento dichiara gli attentati suicidi sempre illeciti.
Resta la grande maggioranza: per così dire, la fatwa tipica secondo cui l’attentato suicida contro i civili di per sé non sarebbe lecito, ma diventa lecito quando i musulmani «non hanno altro mezzo» per far sentire la loro voce. Per la maggioranza delle fatwa questa situazione si verifica solo in Israele: dunque il terrorismo suicida di Hamas è giustificato, mentre sono illeciti non solo quello di Al Qaida ma anche quelli iracheni e ceceni in genere perché ci vanno di mezzo troppi civili, spesso musulmani.
Dirigenti musulmani di tendenza neo-fondamentalista (cioè fondamentalisti che in linea di massima ripudiano la violenza), certo non terroristi, presenti al convegno di Lovanio approvano questi pronunciamenti. Dovrebbero tuttavia riflettere su un problema. Chi decide quando i musulmani «non hanno altro mezzo» dell’attentato suicida per farsi sentire?
I giuristi e i teologi seduti sulle loro poltrone oppure chi combatte sul campo e dovrebbe avere le informazioni per giudicare? Se la risposta è la seconda, una volta aperta la porta ad Hamas come chiuderla per i ceceni o la «resistenza» irachena? E con quale autorità negare che anche Bin Laden «non abbia altro mezzo» per farsi sentire?
Come si vede l’islam neo-fondamentalista si trova in un pasticcio. Per uscirne, dovrebbe superare il complesso anti-israeliano e la conseguente «eccezione israeliana», e dire a chiare lettere che il terrorismo suicida non è mai accettabile. Ma da questa posizione è ancora ben lontano.