L’Islam in Italia accetti le nostre regole

Abstract: l’Islam in Italia accetti le nostre regole  Indiani, cinesi, giapponesi, coreani, filippini e simili hanno tutti forti identità eticoculturali che custodiscono gelosamente tra le mura domestiche. Ma accettano le leggi e le regole di convivenza dei Paesi che li accolgono senza chiedere privilegi e deroghe. E dunque non c’è dubbio sul fatto che i musulmani costituiscono un caso a sé, e un caso pubblicamente e pesantemente «invasivo» destinato a imbattersi in reazioni di rigetto.

Articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 25 ottobre 2000

Dibattito (sereno) su immigrati e razzismo

Gli islamici e noi italiani

di Giovanni Sartori

Razzista si, razzista no. Lo sei se ti opponi all’immigrazione islamica. Non lo sei se proteggi I’immigrazione islamica. Questo e il tenore del dibattito sugli immigrati eccitato, di recente, dalla moschea proposta a Lodi e dalla presa di posizione del cardinale Biffi. Ma se il dibattito lo impostiamo cosi, allora non porta a nulla. Gridare al «razzismo» infiamma gli animi e oscura i problemi.

Qui cercherò invece di affrontarli in modo «fattuale» e al di fuori della rissa ideologica. Intanto, perché la questione islamica si pone come un caso a sé stante? Possiamo rispondere in molti modi. Ma la risposta fattuale (come dicevo sopra) si ricava dalle richieste, da quali sono le concessioni e anche i privilegi che gli islamici chiedono ai Paesi che li accolgono.

Queste richieste sono «certe», nel senso che ci vengono dal Consiglio islamico d’Italia. Eccole:

1) L’insegnamento del Corano a scuola o, in alternativa, la creazione di scuole musulmane parificate a quelle italiane;
2) il diritto della donna di essere fotografata con il velo nei documenti di identità;
3) permesso di lavoro per andare in pellegrinaggio;
4) venerdì festivo;
5) diritto di contrarre matrimoni civili con rito islamico;
6) diritto di partecipare alla preghiera di mezzogiorno.

Accortamente il Consiglio islamico non chiede l’infibulazione e la poligamia. Ma e pressoché sicuro che una comunità islamica che vota e il cui voto condiziona gli esiti elettorali aggiungerebbe queste richieste alle altre. Cosi la domanda diventa: esistono altre comunità di immigrati che rivendicano diritti e privilegi di analoga portata? La risposta è no.

Indiani, cinesi, giapponesi, coreani, filippini e simili hanno tutti forti identità eticoculturali che custodiscono gelosamente tra le mura domestiche. Ma accettano le leggi e le regole di convivenza dei Paesi che li accolgono senza chiedere privilegi e deroghe. E dunque non c’è dubbio sul fatto che i musulmani costituiscono un caso a sé, e un caso pubblicamente e pesantemente «invasivo» destinato a imbattersi in reazioni di rigetto.

Ciò posto, il problema è di prospettare le conseguenze delle premesse (richieste) sopra ricordate. Mi soffermo, per esemplificare, sulla creazione di scuole musulmane parificate. Le vogliamo? Benissimo. Forza e avanti. Ma avanti verso che cosa? Sicuramente verso la creazione di comunità chiuse in sé stesse che si perpetuano da padri in figli, e che rifiutano l’integrazione nella società che le accoglie.

Ripeto: benissimo. Ma niente imbrogli.

I nostri terzomondisti non ci debbono raccontare che a questo modo andremo a creare una nuova città integrata. No. Andremo invece a creare una città disintegrata, che diventerà tanto più conflittuale quanto più andremo a trasformare i nostri «estranei» in cittadini votanti. Non posso qui ripetere questa analisi di premesse-conseguenze per ogni richiesta.

Se accettiamo il diritto islamico, allora cosa? Se accettiamo il venerdì festivo, allora quante feste avremo? Se il musulmano si deve fermare a pregare a mezzogiorno, allora ci dobbiamo fermare tutti? E cosi via. Gli italiani hanno il diritto di sapere che cosa li aspetta. Se a loro piace, tutto bene. Ma se a loro non piace, non meritano per questo di essere accusati di razzismo.

Benjamin Constant, che è stato il maggiore pensatore politico della sua epoca, scriveva nel 1797 che «quando si getta in una società un principio separato da tutti quei principii intermediari che lo adattano alla nostra situazione si produce un gran disordine; per-ché questo principio divelto da tutte le connessioni, privo di tutti i suoi appoggi, distrugge e sconvolge». Dedico questo passo alle nostre «anime belle» (più o meno belle) che brandiscono principii che non sanno applicare e dei quali non capiscono le conseguenze.

L’azione di uno Stato ebraico ha anche, per la prima volta dall’antichità, messo gli ebrei di fronte al problema del rapporto tra religione e governo. I cristiani sono riusciti a trovare una soluzione a questo dilemma al prezzo di secoli diaspri conflitti e persecuzioni religiose. Oggi però la maggior parte delle nazioni cristiane l’hanno accettata, ed e la soluzione nota come separazione tra Stato e Chiesa.

Quest’espediente permette di raggiungere un duplice scopo: da un lato vieta allo Stato di interferire nelle cose della religione, dall’altro impedisce ai fautori dell’uno o dell’altro marchio religioso di usare la forza dello Stato per imporre le loro dottrine e loro regole. A lungo il conflitto tra Chiesa e Stato fu considerato un problema prettamente cristiano, non pertinente agli ebrei o ai musulmani, e la separazione una soluzione cristiana a un dilemma cristiano.

Meditando sul Medio Oriente contemporaneo, sia musulmano sia ebraico, e da chiedersi se ciò sia ancora vero, o se piuttosto musulmani ed ebrei, forse colpiti da un male cristiano, possano prendere in considerazione un rimedio cristiano.

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Si legga anche:

Moschea sì, moschea no: l’Italia dell’Islam?

La presenza islamica in Italia. Fatti e problemi